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DIVINA
COMMEDIA
INTRODUZIONE
CRITICA AL CANTO |
PURGATORIO |
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INTRODUZIONE
CRITICA AL CANTO |
PURGATORIO |
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DIVINA COMMEDIA RIASSUNTO E
CRITICA
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CANTO XXVIII
Dante,
lasciato da Virgilio alla soglia
del paradiso terrestre, sì
dirige verso il bosco, folto e
ricco di verde, che occupa gran
parte dell'Eden. Entrato nella
selva, il Poeta si trova la
strada interrotta da un
ruscello, le cui acque, benché
prive di ogni impurità, appaiono
tutte scure sotto l'ombra
perpetua della divina foresta.
Sulla sponda opposta appare una
figura di straordinaria
dolcezza: una donna cammina
sulla riva del fiumicello
cantando e cogliendo i fiori più
belli. Dante la prega di
avvicinarsi di più a lui,
affinché gli sia possibile udire
le parole del suo canto, e la
donna, muovendosi con la stessa
grazia di una figura danzante,
ne esaudisce la richiesta.
Matelda, questo è il nome (che
sarà rivelato solo nel canto
XXXIII, verso 119) della dolce
apparizione, dichiara di essere
giunta per soddisfare ogni
domanda di Dante, il quale
subito le chiede una
spiegazione: come possono
esserci nel paradiso terrestre
l'acqua e il vento, dal momento
che al di sopra della porta del
purgatorio non esistono
alterazioni atmosferiche? Il
monte del purgatorio -
incomincia Matelda - fu scelto
da Dio per essere la dimora
dell'uomo, il quale ne fu
privato dopo il peccato
originale; esso fu creato
altissimo, affinché le
perturbazioni atmosferiche non
nuocessero alla creatura umana,
ma la sfera dell'aria, che si
muove con il muoversi dei cieli,
colpisce gli alberi della selva
facendoli stormire. Questi
ultimi impregnano dei loro semi
l'aria intorno, la quale,
muovendosi, li sparge dovunque
sulla terra. Quanto al ruscello
che Dante ha visto, esso non
nasce da una sorgente alimentata
dalle piogge, ma da una fonte
che riceve direttamente da Dio
tanta acqua, quanta ne perde.
Infatti due sono i fiumi del
paradiso terrestre: il primo,
già incontrato dal Poeta, è il
Letè, la cui acqua dona l'oblio
dei peccati commessi, il secondo
è l'Eunoè, che fa ricordare solo
le opere buone compiute.
INTRODUZIONE CRITICA
Lo stacco che si avverte tra la
fine del canto XXVII e il
principio del XXVIII esprime il
mutamento che si verifica nella
vicenda dell'anima del
pellegrino e separa, come un
complesso a sé, il gruppo dei
canti finali del Purgatorio
dalla parte precedente della
cantica. Le parole con cui
Virgilio ha dichiarato assolto
il proprio compito (canto XXVII,
versi 127-142.). riassumevano il
significato dell'intero
itinerario del pellegrino nei
due primi regni dell'oltretomba.
Esse rappresentavano il
coronamento degli sforzi da lui
compiuti sotto la guida della
ragione per riacquistare la sua
libertà e, in quanto tali,
avevano un tono di trionfo, ma
non di serenità. Lungi
dall'essere smorzato, vibrava in
esse, pienamente consapevole,
quel sentimento che aveva
caratterizzato l'intero
magistero del poeta latino nel
corso delle due prime cantiche:
un modo di concepire la vita in
termini di rinuncia ad ogni
indugio contemplativo -
giudicato ozioso - di traduzione
immediata di ogni dato elaborato
dalla teoria in prassi morale,
in virtù attiva ed impaziente di
trascendersi per un più alto
grado di perfezione. Giustamente
il Sapegno scrive a proposito di
questo ultimo discorso rivolto
da Virgilio al suo discepolo:
"la nota malinconica e patetica
del congedo é appena accennata,
con virile pudicizia. L'accento
batte sull'importanza dello
sforzo compiuto e sulla
grandezza dell'acquisto, che ne
consegue". L'esordio del canto
XXVIII propone invece una
condizione dello spirito dalla
quale ogni traccia di sforzo, di
difficoltà, é sparita.
Restaurata nel pellegrino la
natura umana quale fu in Adamo
prima del peccato di origine, il
sentimento che lo anima, di
fronte allo spettacolo che gli
si apre davanti, non é quello
del dolore e della sua
necessità, ma quello di un
appagamento che nessun cruccio
incrina. La divina foresta
rappresenta una proiezione
sensibile dello stato di
innocenza che fu proprio
dell'umana radice prima del
peccato. Essa si contrapporre
esplicitamente nella definizione
datane dal Poeta non meno che
nella funzione simbolica
attribuitale nell'economia
generale della Commedia - alla
selva del peccato del canto
proemiale dell'opera. In
entrambe una condizione della
presenza umana nel mondo é
suggerita in termini i quali,
pur adombrando in sé il
sovrannaturale, sono ancora di
pertinenza della sola natura. Ma
il lussureggiare della
vegetazione ha, nei due casi, un
significato diametralmente
opposto. Nella selva selvaggia e
aspra e forte esso allude ad un
vivere dominata da una pluralità
di istinti contrastanti, donde
una lacerazione, un conflitto,
che oppone l'uomo a se stesso e
dal quale non é data liberazione
attraverso mezzi puramente
umani, laddove questi medesimi
istinti manifestano, nel
paradiso terrestre, la presenza
in essi di un principio di
armonia, esprimendo in tal modo
la pacificazione dell'uomo con
se stesso e il concorrere di
tutte le sue facoltà
all'adempimento dei compiti
assegnatigli da Dio. Nella
descrizione della divina foresta
spessa e viva é presente il
senso di una felicità che pone
le manifestazioni del vivere al
di là di ogni interrogativo, di
ogni angoscia o imprevisto: lo
scorrere del tempo, sulla
sommità del purgatorio, non é
apportatore di vecchiaia, non
contiene in sé, implicite, la
delusione e la morte. Esso, al
contrario, non fa che
confermare, nell'attualizzarsi
del futuro, un grado di
perfezione inalterabile, un
fermo presente, una primavera
perpetua. Questa costanza nel
dispiegarsi del tempo, là dove
il tempo sta per essere abolito,
é resa efficacemente, in quanto
elemento di uno spettacolo
naturale, dall'aura... sanza
mutamento che percuote le fronde
della foresta, senza peraltro
piegarle al punto da impedire
agli augelletti di manifestare
la loro letizia, ad essa
accordando il loro canto. Giova
osservare, in proposito, come le
due successive limitazioni dei
versi 9 e 13-14 (non di più
colpo che soave vento e non però
dal loro esser dritto sparte
tanto) assolvano al compito di
suggerire il perfetto stato di
natura che caratterizza il
paradiso terrestre e la
condizione dell'uomo in esso:
nulla di eccessivo, di
esorbitante dai limiti assegnati
ad ogni manifestazione del reale
dal volere di Dio, può
sussistere là dove la natura é
riconciliata con se medesima e
dove l'uomo ha ritrovato quella
pienezza di vita e quella
densità di significato, di cui
il male, il dubbio, lo avevano
reso privo. Ricordiamo in
proposito che la classificazione
delle pene nel purgatorio é
basata, dopo le prime tre
cornici, in cui é punito l'
"amore" per malo obietto, sul
principio di un giusto mezzo
razionale, che é stato
trasgredito, in un senso o
nell'altro, per troppo o per
poco di vigore (canto XVII,
verso 96). Lo spettacolo offerto
agli occhi del protagonista
dalla foresta - di cui il vento
incurva i rami senza pregiudizio
per la vita che in essa alberga
e il fine della quale é una
glorificazione della gioia
stessa di essere in vita -
esprime appunto in termini
sensibili il raggiungimento di
questo equilibrio, la sua
restaurazione dopo i disordini
che ha introdotti, nella mente e
nel volere, il peccato. Il
medesimo equilibrio, la medesima
armonia sono manifestati dalla
figura di Matelda, alla quale é
affidato nel paradiso terrestre
il compito di preparare Dante ad
accogliere in sé la verità
rivelata. Matelda adempie quindi
ad una funzione non dissimile da
quella degli angeli guardiani
delle cornici del monte; i suoi
atti rivestono un significato
liturgico non meno di quelli
degli angeli, ai quali é
affidata la progressiva
cancellazione delle P dalla
fronte di Dante. Ma essa non é
alata, non é armata di spada ed
il suo sguardo non é
insostenibile. In questa
apparizione felice il
sovrannaturale si manifesta nel
quadro di una natura che ha
raggiunto la propria perfezione,
nella quale, cioè, stato di
fatto e idea coincidono senza
sforzo e senza lasciare residui
di insoluta problematicità.
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