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DIVINA
COMMEDIA
INTRODUZIONE
CRITICA AL CANTO |
PURGATORIO |
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INTRODUZIONE
CRITICA AL CANTO |
PURGATORIO |
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DIVINA COMMEDIA RIASSUNTO E
CRITICA
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CANTO XXIX
Nel canto
XXIX Dante espone, per mezzo di
Beatrice, i problemi principali
riguardanti le gerarchie
angeliche: dove, quando, come
furono creati gli angeli; quando
e perché avvenne la ribellione
di alcuni di essi; quale fu il
premio per quelli rimasti
fedeli; per quale motivo
sbagliano quei pensatori che
attribuiscono alle creature
angeliche le tre facoltà umane
dell’intelligenza, volontà e
memoria; il numero sterminato
degli angeli e la diversa
intensità con la quale godono la
visione diretta di Dio. A Dante
interessa soprattutto mettere in
rilievo che la creazione degli
angeli fu un atto gratuito
dell’amore divino, che volle
estrinsecarsi in altri esseri, e
che le intelligenze angeliche, i
cieli e la materia prima furono
creati da Dio istantaneamente e
simultaneamente. a proposito
delle facoltà umane attribuite
agli angeli, il discorso di
Beatrice diventa polemico e le
sue parole raggiungono un tono
particolarmente aspro e duro. I
cattivi predicatori del Vangelo,
che hanno sostituito alle verità
della fede cristiana le loro
inutili ciance, sono
rappresentati attraverso la
grottesca figura del frate che
predica dal pulpito con motti e
con iscede, mentre il diavolo si
annida nel bacchetto del suo
cappuccio. Il canto si chiude
con la visione di Dio che, pur
rispecchiandosi in migliaia di
creature angeliche, conserva la
sua eterna unità.
INTRODUZIONE CRITICA
Nel secondo canto dedicato agli
angeli, dopo il XXVIII, il tema
teologico è predominante, ma
esso raggiunge una intensità
poetica eccezionale nella prima
parte del canto (versi 13-36) e
nell’ultima (versi 136-145),
attenuandosi, invece, nella
parte centrale, dove la lezione
di Beatrice non riesce a
sollevarsi dal piano puramente
informativo (versi 37-81) o
polemico (versi 82-126).
Profondamente legato al canto
precedente (i problemi ai quali
Beatrice dà soluzione sono nati,
in Dante, dalla contemplazione
delle gerarchie angeliche,
contemplazione che è stata,
appunto, oggetto del canto
XXVIII), il XXIX si apre con una
similitudine astronomica fra le
più interessanti, se non fra le
più poetiche. La terza cantica
presenta innumerevoli immagini
del cielo, che appare sotto due
aspetti: uno
astronomico-scientifico e uno
paesistico-quotidiano, il primo
contemplato con gli occhi dello
studioso, il secondo con gli
occhi dell’uomo comune che resta
abbagliato dalle celesti
bellezze. Da qui derivano due
tipi di immagini; e due diversi
motivi di poesia, perché al
primo appartengono alcuni fra i
più suggestivi momenti
contemplativi (e si come al
salir di prima sera ... quale
ne’ plenilunii sereni Trivia
ride...) e al secondo le
indicazioni di fenomeni
astronomici che "conferiscono al
cielo dantesco come un’aura di
scienza arcana, un senso remoto
e favoloso, di matematica e di
ermetica soprannaturalità"
(Getto). Si può anzi concludere
che la poesia di certe
rappresentazioni celesti nasca
dall’incontro di immagini
pittoriche e musicali con severi
simboli astronomici e matematici
fissati con un calcolo rigoroso
e severo (incontro che è, del
resto la condizione essenziale
di tutta la poesia del Paradiso,
legata contemporaneamente ad
aspetti fantastici e geometrici,
per cui una obbiettiva
lettura-critica non può
attribuire valore lirico
soltanto ad uno di questi
aspetti, prescindendo dall’altro
che lo integra e lo completa).
Ritornando, dopo questa
necessaria: premessa, alla
nostra similitudine, essa ci
appare, nonostante la sua
impostazione resa alquanto
macchinosa dalla preoccupazione
di definire il tempo
d’equilibrio fra sole e luna,
un’ardita figurazione di vicende
astronomiche: alla maestosa
immagine del sole e della luna,
i figli di Latona (il ricordo
mitologico conferisce solennità
alla loro apparizione) coperti
dalle costellazioni con cui si
trovano in congiunzione, fa
riscontro quella dello zènit,
"rappresentato come un
gigantesco pesatore" (Torraca),
che sostiene, su due piatti di
una gigantesca bilancia distesa
attraverso il cielo, i due astri
che regolano, con il loro
alterno corso, la vita degli
uomini. Si può parlare, a questo
proposito, di uno stile "eroico"
(nel senso vichiano del
termine), che, usato nella
creazione di personaggi quali
Farinata o Ugolino, serve a
fissare, senza sforzo apparente,
anche i modi di una similitudine
o di una lezione teologica.
Spesso a questo stile, che
abbiamo definito "eroico" e che
altri critici hanno chiamato "
barocco", per sottolinearne,
senza alcun senso negativo, la
preziosità, si accoppia la
profonda suggestione della rima
rara e difficile, come, in
questo caso, nei versi 4 e 6
‘nlibra e dilibra, due verbi di
straordinaria evidenza plastica,
sui quali si regge tutto il
movimento della similitudine:
una vicenda astronomica ritratta
in un segno - il movimento
inarrestabile degli astri e del
tempo - dominata
dall’intelligenza che coglie con
ingegnoso acume un fatto
scientifico così raro e che
contribuisce a suggerire quel
paesaggio di simboli zodiacali
che l’attento lettore non può
certo dimenticare. La potenza
inventiva della frase, osserva
il Parodi, nel suo studio
fondamentale sulla rima nella
Divina Commedia, è in Dante
senza confini, ed è essa la
grande produttrice di rime, ma
dalla rima attinge a sua volta
continuamente nuova materia e
nuovi impulsi. "Certo anche in
Dante, come in qualunque poeta,
la parola usata in rima, è usata
per la rima; giacché solo di
rado avviene che la parola
necessaria cada naturalmente
proprio là dove dovrebbe; ma le
cose, interrogate dal suo cuore
o dal suo pensiero, rispondono
con una varietà immensa di
suoni, e fra questi ve n’è
sempre uno, che rende, con
mirabile felicità, l’eco voluta.
Egli vede e sente per immagini,
e anche una semplice parola e
anche il pensiero più astruso o
più impalpabile e il
ragionamento più astratto assume
subito nella sua mente una forma
concreta di cosa sottoposta ai
sensi. " (Parodi) La rima
scaturisce insieme con la
espressione nuova ed immortale,
e la visione dantesca, nella sua
straordinaria intensità, si
fissa in modo immediato, nella
parola: Cosi lo zenit ‘nlibra i
figli di Latona e ciascuno di
essi poi si dilibra dal cinto
dell’orizzonte. L’immagine
dell’orizzonte come cinto non è
nuova, ma l’ultimo verso della
terzina, che pure si direbbe
suggerito dalla rima, trasforma
improvvisamente la vicenda degli
astri in una lotta personale,
faticosa (si dilibra) per
sciogliersi, liberarsi ciascuno
del proprio emisperio.
Certamente se noi consideriamo
certe rime di Dante, singolari e
bizzarre, potremmo pensare che
il Poeta, talvolta, abbia
volutamente cercato il vocabolo
meno comune e, anche, più
oscuro, al fine di ottenere una
rima nuova e inaspettata, e che
volutamente si sia inoltrato in
quelle circonlocuzioni o in
quelle immagini alle quali,
ancora oggi, i critici, pur con
tutta la buona volontà, non
riescono a conferire una
spiegazione sufficiente. Se è
vero che un grave pericolo si
nasconde dietro questa
preferenza per la rima
immaginosa e per la via
stilistica meno battuta, per cui
Dante talvolta può offrire un
tecnicismo linguistico di grande
effetto, ma di nessun valore
artistico, è anche vero che la
difficoltà stilistica esercita
su di lui un’influenza (il
Parodi parla anche di
"suggestione’’) benefica
importantissima, spingendo e
incitando il suo pensiero
poetico a fluire non come rivo
limpido e tranquillo, in un
letto sempre uguale e fors’anche
monotono, ma come torrente
ch’alta vena preme e più
vivamente preme là dove si
manifesta una resistenza più
forte.
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