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DIVINA
COMMEDIA
INTRODUZIONE
CRITICA AL CANTO |
PURGATORIO |
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INTRODUZIONE
CRITICA AL CANTO |
PURGATORIO |
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DIVINA COMMEDIA RIASSUNTO E
CRITICA
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CANTO III
Dopo il
rimprovero di Catone, mentre
Dante e Virgilio si avviano
verso il monte, il poeta latino
in una lunga esortazione invita
gli uomini ad accettare il
mistero di cui avvertono
l'esistenza: i saggi antichi che
vollero spiegarlo, scontano ora
nel limbo il loro folle
desiderio. Mentre sostano ai
piedi dell'erta. parete
rocciosa, compare una schiera
che avanza lentamente e verso la
quale essi si dirigono, per
chiedere informazioni. Sono le
anime di coloro ché morirono
nella scomunica della Chiesa,
pentendosi solo in fine dì vita,
e che devono restare fuori della
porta del purgatorio, nella zona
chiamata antipurgatorio, trenta
volte il tempo durante il quale
vissero scomunicati. Esse
invitano i due pellegrini, a
procedere davanti a loro, verso
destra, mentre una si rivolge
direttamente al Poeta: è lo
spirito di Manfredi di Svevia,
morto nella battaglia di
Benevento nel 1266. Egli prega
Dante di riferire alla figlia
Costanza la vera storia della
sua morte; ricevute le due
ferite che ancora deturpano la
sua figura, si affidò
pentendosi, prima di morire,
alla misericordia divina. Ebbe
dapprima sepoltura sotto un
cumulo di sassi, secondo l'uso
guerriero, ma i suoi nemici
guelfi; e in particolare il
vescovo di Cosenza Bartolomeo
Pignatelli, legato del papa
Clemente IV, vollero
disseppellire il suo corpo e lo
abbandonarono fuori del
territorio della Chiesa (dove
gli scomunicati non potevano
essere sepolti), lungo le rive
Garigliano. Chiede infine che
Costanza preghi per lui, perché
le preghiere dei vivi aiutano ed
abbreviano il tempo della
purificazione.
INTRODUZIONE CRITICA
La giustapposizione di un motivo
di meditazione morale (il
discorso di Virgilio) ad un
episodio individuale
(l'apparizione di Manfredi)
nella tematica del canto III
ferma l'attenzione su un
problema nuovo, la cui soluzione
é possibile solo se viene
prospettata nell'ambito della
poetica dantesca. Già Dante
aveva avvisato all'inizio del
Purgatorio che la sua poesia
sarebbe profondamente mutata, ma
solo una lettura critica
superficiale può fermarsi a
cercare tale mutamento nel
paesaggio o nella diminuita
carica di passioni dei vari
personaggi o nel superamento di
ogni urgenza polemica, cioè
nella tonalità elegiaca della
nuova creazione, perché é sulla
diversa posizione del Poeta di
fronte alla sua materia che deve
essere condotta l'indagine più
utile per non isolare in un
giudizio negativo le parti
specificatamente morali e
dottrinali. Nel mondo
dell'acquisita salvezza l'animo
si rinfranca, accentuando la sua
missione profetica: se Dante
nell'Inferno ha fissato entro
misure assai ridotte ogni
excursus didascalico, perché non
poteva, chi era ancora immerso
nel peccato, costituirsi maestro
di salvezza, preferendo affidare
ogni forma di ammaestramento al
volto orribile del peccato, ora
ha, piena consapevolezza che,
iniziando il momento più
difficile dell'ascesa
spirituale, é necessario un
intervento diretto, e pressoché
continuo, per spiegare,
chiarire, esortare. Il binomio
profeta-poeta, maestro-poeta,
che risponde a uno schema
mentale familiare al Medioevo,
si dispiega in tutta la sua
forza - e la sua unità - proprio
a partire dal canto III,
attraverso l'intensa esortazione
di Virgilio. La critica giudica
questo canto fondamentale per
capire il tono che caratterizza
la seconda cantica, attraverso
"l'altezza degli ideali e
l'umanità del sentire, e,
tecnicamente, la sapiente
tonalità di fondo e il tratto
sicuro e dinamico della
biografia poetica nell'insieme
del quadro" (Caccia). Volendo
più chiaramente determinare il
motivo che trasfigura la storia
di un periodo avventuroso e
violento in lirica purissima,
esso va trovato in quello della
"vanità dell'odio", che,
fungendo da preludio in questo
canto, diventerà il Leitmotiv
della sinfonia del quinto.
Manfredi, che rievoca con
precisione, ma con accoratezza
la sua vicenda terrena, é una
anima pacificata con Dio, e
quindi anche con se stessa e con
gli uomini: "siamo nel
Purgatorio; e dunque potrebbe
sembrare che questa pensosa
serenità sia imposta solo dalla
materia, dalla necessità logica
di rappresentarci anime pentite.
Ma c'è qualcosa che nessuna
materia astratta avrebbe potuto
imporre: la pietà dell'artista,
il suo senso dell'inutilità
degli odi umani, la persuasività
totale della poesia che esprime
l'una e l'altro" (Bosco). Quella
pietà che reggerà il racconto di
Jacopo, di Bonconte e di Pia,
sorregge anche "la rievocazione
delle povere ossa di Manfredi
bagnate dalla pioggia e mosse
dal vento; il considerare, che
il Poeta fa, l'inutilità dello
scempio: inutile l'accanimento,
inutile il trafugamento a lumi
spenti, come si conveniva a uno
scomunicato, a un dannato; ed
era invece salvo, destinato al
paradiso" (Bosco). Ciò non
significa che Dante, abbandonata
la sua funzione di giudice, si
disponga ad un esame acritico
della storia (contrario del
resto alla mentalità medievale,
che nella storia vede
possibilità amplissime di
ammaestramento), negandosi ogni
facoltà di condanna in nome di
un sentimento di indulgenza,
perché orribil furono i peccati
di Manfredi e tanto grave la sua
colpa di fronte alla Chiesa e
alla società da ripercuotersi -
attraverso la scomunica - anche
nell'al di là, ma chiarisce in
tutta la sua evidenza quanto già
alcuni episodi dell'Inferno
avevano mostrato: che in Dante
sussistono "due volti, quello
del giudice del male e quello
dell'uomo tristemente
consapevole di non esserne
immune; del giudice al di sopra
e contro la comune umanità e del
partecipe di questa umanità; del
severo e del pietoso; dell'uomo
di parte che sa amare quanto
odiare, e dell'uomo che scopre
la vanità dell'odio" (Bosco).
Due momenti che non si
susseguono in ordine cronologico
(come ad esempio affermano V.
Rossi e, in misura minore, il
Porena), legati a vicende
storiche e biografiche del
Poeta, ma che sono sempre
coesistiti nel suo animo, dove
però prevale il volto pietoso al
di sopra di ogni mischia e di
ogni discordia, quando nel
Purgatorio lo spirito si apre al
divino. È su questa meditazione
dolorosa della storia che si
innesta l'episodio di Manfredi,
liberandosi fin dall'inizio di
ogni spirito faziosamente
politico, e presentandosi - per
usare una terminologia critica
moderna - come aperta
proclamazione della libertà
della poesia di fronte alla
storia, allorché la poesia si
dispone a studiare la vicenda
umana non avulsa da ogni
contatto con il sovrannaturale,
ma nel suo rapporto con la
realtà divina. Per questo della
figura di Manfredi - che per
l'eccezionalità della vita e
degli eventi di cui fu
protagonista, occupò a lungo
l'interesse del suo tempo e di
quello seguente - Dante coglie
il momento più tragico e
religioso insieme, quando la
creatura umana prende coscienza
della gravità dei suoi errori e
invoca l'intervento divino. È
una ricostruzione spirituale,
che esige da parte del Poeta la
capacità di scendere nel proprio
personaggio, per riviverlo in
tutta la sua dimensione
interiore. Senza condividere la
posizione della critica di
ascendenza romantica, che
analizza il personaggio di
Manfredi fino ad identificarlo
con il Poeta stesso, laddove la
figura del re svevo ha una sua
singolarità, che,
nell'aristocratica bellezza,
nella regale dignità, nel
magnanimo coraggio ne ricollega
l'immagine ad un mondo eroico e
cavalleresco, é indubbio che
Dante rivive in Manfredi la sua
dolorosa vicenda personale
nell'ambito della crisi politica
provocata dall'intervento
temporale della Chiesa, e
soprattutto la sua personale
esperienza di peccato e di
redenzione.
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