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DIVINA
COMMEDIA
INTRODUZIONE
CRITICA AL CANTO |
PARADISO |
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INTRODUZIONE
CRITICA AL CANTO |
PARADISO |
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DIVINA COMMEDIA RIASSUNTO E
CRITICA
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CANTO XXVIII
Nel Primo
Mobile appare a Dante un punto
luminosissimo (Dio), intorno al
quale si muovono nove cerchi
concentrici (i cori angelici).
Il Poeta osserva che questi
cerchi, dal primo al nono,
aumentano in grandezza e
diminuiscono in splendore. Tale
fatto suscita in lui un grave
dubbio: nell’ordine cosmico i
cieli, quanto più si allontanano
dalla terra (centro
dell’universo), tanto più
appaiono vasti, mentre, nei
cerchi angelici, quello più
vicino a Dio è il più piccolo.
Poiché dalle intelligenze
angeliche dipende e viene
regolato il moto dei cieli, come
può essere spiegata questa
contraddizione? Nelle sfere
fisiche - chiarisce Beatrice -
la grandezza è in proporzione
della potenza o "virtù" che
viene infusa in esse dalle
intelligenze angeliche, per
essere poi trasmessa al mondo
sottostante perciò il cielo più
grande è quello più dotato di
virtù e, quindi, più
potenzialmente capace di
influssi salutari. Occorrerà,
dunque, che i cieli più vasti
siano governati dalle
intelligenze angeliche più
dotate di virtute. Per questo al
cielo più grande, il Primo
Mobile, corrisponderà il cerchio
angelico più vicino a Dio:
quello dei Serafini, il più
piccolo di tutti. Poi Beatrice
enumera a Dante tutti i nove
cori angelici, raccogliendoli in
tre gerarchie, ciascuna delle
quali costituita da tre cori:
Serafini - Cherubini - Troni,
Dominazioni - Virtù - Potestà,
Principati - Arcangeli - Angeli.
Negli ultimi versi del canto
Dante dichiara di accogliere,
riguardo alle intelligenze
celesti, la disposizione fissata
da Dionigi l’Areopagita,
respingendo quella di Gregorio
Magno.
INTRODUZIONE CRITICA
La posizione critica del De
Sanctis di fronte alla terza
cantica può essere cosi
riassunta: tema del Paradiso è
il divino, il puro spirito,
qualcosa che è al di la
dell’immaginazione della poesia
e dell’uomo; Dante, per
rappresentarlo, ricorre ad una
forma " musicale ", ad una
visione, cioè, che presenta
fantasmi evanescenti anziché
corpi distinti. Tuttavia questa
forma, per quanto assottigliata,
e ancora "soverchia", presenta
un "troppo vivo colore per
rispetto al puro divino"; può
essere adatta per la
rappresentazione delle anime
beate, dove c’è ancora qualche
traccia dell’umano, ma
"falsificherebbe il divino la
cui essenza è di non aver forma
e di sottrarsi
all’immaginazione". Perciò
quando Dante si accosta al
divino, deve attingerlo "non con
la forma ma con la negazione
della forma. Le estreme tenebre
e l’estrema luce conseguono
entrambe lo stesso effetto
rubandoci la vista degli
oggetti". Scopo del Poeta non è
quello di offrirci la "visione"
del paradiso, ma il "sentimento"
di essa; tuttavia "questo
sentimento celeste si rivela in
alcuni pochi tratti, ed in modo
troppo indeterminato", per cui
solo l’intervento del terreno
può conferirgli "maggior varietà
e colore". Tuttavia il De
Sanctis ha coperto troppo in
fretta con la luce tutto il
paradiso dantesco ("nel paradiso
e il soverchio della luce, che
toglie a Dante la visione") e
non ha considerato il
presupposto fondamentale della
poetica della terza cantica: la
caratteristica del sentimento
religioso del Medioevo - di cui
Dante offre una delle più alte
testimonianze - consiste nella
volontà, tenacemente,
perseguita, di rappresentare il
mondo sovrannaturale nel modo
più concreto e dettagliato
possibile. Nella spiritualità
moderna non sì pensa a
descrivere Dio, a precisare
quanti sono gli angeli o in che
posizione essi si trovano
rispetto a Dio, ne si tenta di
definire le parti in cui è
diviso il paradiso e di
distinguerne i differenti gradi
di luce, di verità, di
beatitudine. Anche per lo
spirito cristiano piú profondo,
oggi, Dio è nell’osservanza
dell’insegnamento della Chiesa,
nell’ansia e nel fervore
dell’anima che si eleva verso di
Lui, ma non è in nessuna
figurazione concreta. Tuttavia
questa diversa - ma non
contrastante - posizione di
fronte al sovrannaturale, non ci
può impedire una lettura
obiettiva del canto XXVIII,
dove, per la prima volta, Dante
tenta una rappresentazione
diretta di Dio (un punto... che
raggiava lume acuto sì, che ‘l
viso ch’elli affoca chiuder
conviensi per lo forte acume) e
delle gerarchie angeliche.
Occorre, a nostro parere,
insistere sul concetto di "
rappresentazione ", sullo sforzo
e la tesa volontà, da parte del
Poeta, di tradurre visivamente
il mondo dell’astrazione pura.
Questo non significa un ritorno
ai principii della critica
romantica ( ricerca - fine a se
stessa - dell’immagine e del
concreto), ma un modo di lettura
più obiettivo, più vicino, cioè,
agli intenti " rappresentativi "
del Poeta. Poiché Dante non
vuole soltanto rappresentare il
suo sentimento del paradiso (la
percezione della gloria del
Creatore e delle sue creature in
un’attonita luce d’eterno), ma
vuole anche descrivere, nel
canto XXVIII e nel XXXIII, Dio.
Possiamo forse affermare che nel
XXVIII non esiste poesia perché
Dante si accosta a realtà - Dio
e gli angeli - che, per loro
natura, si sottraggono a
qualsiasi concreto rilievo? Ma,
di questo passo, anche le
immaginifiche creazioni
dell’Ariosto dovrebbero essere
sottoposte alla censura della
critica.
Il canto della cosmologia
dantesca deve essere letto
tenendo ben presenti l’inesausto
descrivere del Poeta (ciò che
egli cerca in ogni momento è la
possibilità di trovare parole e
immagini adeguate a ciò che ha
visto e si e impresso nella sua
mente), l’ardore religioso che
anima e dirige questo sforzo, la
sicurezza del dialogo teologico
che sorregge entrambi.
All’inizio del canto, quando
appare il punto luminoso, di
Dio, e nella descrizione, fatta
da Beatrice, dei cori angelici,
ci troviamo di fronte a
un’esperienza mistica, ma la
posizione del Poeta "rimane
quella di chi ritrae una realtà
e una vicenda autonome"
(Montano), non venendo mai meno
"alla obiettività della sua
rappresentazione e alla fermezza
del suo distacco dalla materia
trattata". Non c’e dunque
"impassibilità", come vorrebbe
il Vandelli (secondo il quale,
di fronte alla mirabile teofania
del canto XXVIII, non c’e, nel
Poeta, "una sola parola che ci
attesti o ci faccia intravedere
la commozione del suo spirito"),
né, tanto meno, un tono astratto
e rigidamente ragionativo, bensì
la capacita, che e quella dei
grandi poeti, di rievocare
un’esperienza personale e
un’emozione profonda in termini
di logica chiarezza e in esiti
espressivi di pregnante
significato.
A proposito della realizzazione
formale della visione che ha per
suo centro il moto vertiginoso
degli angeli (nel quale si
riflette tutta la dinamica dei
cieli) e la sublime staticità
dell’Ente supremo, è sufficiente
un esempio molto significativo.
Quando Dante presenta la seconda
gerarchia angelica che gira
intorno al punto luminoso (versi
115-117), ricorre ad un’immagine
(l’altro ternaro, che così
germoglia in questa primavera
sempiterna che notturno Ariete
non dispoglia) che e
probabilmente imposta o
condizionata da una suggestiva
attrazione di rime. Infatti,
dalla rima (rara e difficile)
voglia del verso 113 scaturisce
la comparazione del ternaro
degli angeli con un albero che
germoglia in mezzo ad un’eterna
primavera. L’immagine, come
osserva il Parodi, riesce
alquanto inattesa, e non sgorga
necessariamente dal contesto né
illustra o continua il pensiero
fondamentale, ma si svolge, per
così dire, a fianco di esso,
lumeggiando particolari ai quali
l’attenzione non si sarebbe
rivolta. Tuttavia "non è
ridondante, poiché ad un tratto
codesti particolari si
confondono coll’insieme, facendo
lampeggiare d’un riso
primaverile tutta la scena; e il
terzo verso che notturno Ariete
non dispoglia, uno dei più bei
versi di Dante, compie in noi la
visione, coll’evocazione magica
della notte e il confronto della
primavera terrena".
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