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DIVINA
COMMEDIA
INTRODUZIONE
CRITICA AL CANTO |
PARADISO |
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INTRODUZIONE
CRITICA AL CANTO |
PARADISO |
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DIVINA COMMEDIA RIASSUNTO E
CRITICA
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CANTO III
Nel cielo
della Luna appaiono i primi
beati: i lineamenti dei loro
volti sono così tenui e
indistinti che Dante ritiene di
trovarsi di fronte a immagini
ridesse. Queste anime godono del
grado di beatitudine più Lasso e
occupano l’ultimo cielo, quello
più vicino alla terra, perché
non hanno adempiuto
completamente i voti offerti a
Dio. Il Poeta si rivolge a uno
spirito beato che sembra
particolarmente desideroso di
parlare con lui e chiede di
conoscere il suo nome e la
condizione in cui si trovano le
anime del cielo della Luna.
Risponde l’ombra di Piccarda,
sorella di Corso e di Forese
Donati, appartenente ad una
delle famiglie pii) note di
Firenze. Attraverso le sue
parole Dante spiega che nel
paradiso, per essendoci diversi
gradi di beatitudine, ogni
spirito beato è perfettamente
felice, poiché la letizia che
Dio infonde è proporzionata alla
capacità di godere di ciascuna
anima. Infatti se i beati del
cielo della Luna desiderassero
trovarsi in una sfera superiore,
questo loro desiderio
contrasterebbe con la volontà di
Dio, che, a seconda dei meriti
di ciascuno, ha assegnato un
posto particolare nel regno dei
cieli. Viene così rivelato il
principio fondamentale del
paradiso: la beatitudine non è
altro che volere ciò che Dio
stesso vuole, perché ‘n la sua
volontade è nostra pace. Poi
Piccarda accenna brevemente alla
propria vita e indica un’altra
anima locata, anche ella
costretta, come lei, ad
abbandonare il chiostro: è
Costanza d’Altavilla, moglie di
Enrico VI e madre di Federico
II. Dopo che Piccarda, cantando
"Ave, Maria" scompare alla sua
vista, Dante si volge verso la
luce folgorante di Beatrice.
INTRODUZIONE CRITICA
Non sublime intermezzo di poesia
lirica fra rigorose
argomentazioni teologiche, ma
ordinato svolgimento di quegli
stessi temi (l’aspirazione a Dio
e la sete di conoscenza) che
ispirano e sorreggono i canti
primo, secondo e quarto del
Paradiso: ecco la caratteristica
del cosiddetto canto di
Piccarda. A proposito delle
formule abituali per indicare un
canto attraverso il nome del
personaggio che ne è
protagonista, occorre subito una
precisazione: se era possibile
parlare per l’Inferno di canto
di Francesca o di Ugolino, e per
il Purgatorio di canto di
Casella o di Manfredi, perché
essi sembravano godere di una
loro vita autonoma ed episodica
nella trama della cantica, per
il Paradiso si mantiene questo
uso solo per comodità di studio
e di riferimento. Infatti i
canti che hanno per protagonisti
Piccarda, Giustiniano, Carlo
Martello, San Francesco, San
Domenico, Cacciaguida, San
Pietro, pur possedendo un loro
particolare aspetto poetico, una
loro specifica tonalità, esigono
un costante riferimento alla
problematica teologica dalla
quale viene germogliando la
poesia del Paradiso. In altre
parole: Piccarda, nonostante
richiami alla memoria di Dante
ricordi e affetti terreni,
nonostante parli di sé (ma, si
noti bene, dedica al racconto
della propria vita solo tre
delle diciannove terzine di cui
si compongono i suoi due
successivi interventi di fronte
a Dante), rappresenta la
condizione delle anime beate
meglio di quanto, chiusi nelle
loro vicende terrene, Francesca
e Ugolino interpretino il mondo
infernale o, ancora volti al
loro passato, Casella e Manfredi
quello purgatoriale. In
Piccarda, infatti, trovano voce
il sentimento dell’anima che
inizia la sua vita di
partecipazione al divino,
l’interiore trasalire dello
spirito davanti all’infinito, la
sua ansia e il suo smarrimento
di fronte ai divini misteri:
proprio questa esperienza
spirituale Dante ha affrontato
nei primi due canti e ad essa si
ispirerà anche nel quarto.
Cercare la poesia del Paradiso
non significa cercare quanto
rimane della vita passata nelle
anime che Dante incontra, come
vogliono il De Sanctis e il
Croce, bensì seguire il
progressivo staccarsi di queste
anime dalla loro realtà di un
tempo per immergersi in Dio, il
passaggio dalle esperienze della
vita passata alla vita con Dio.
La poesia del terzo canto ha il
suo nucleo centrale proprio in
questo complesso rapporto
terra-cielo, umano-divino: da
una parte l’elegia, il ricordo
velato della terra, dall’altro
il moto di ascesa verso Dio, il
mistico abbandono nella sua
volontà. Così al ricordo di una
Beatrice terrena (verso I) si
sovrappone subito la presenza di
una Beatrice diversa, che
provando e riprovando scopre al
suo discepolo il dolce aspetto
della bella verità. Nel momento
in cui il Poeta sta per
dichiarare un suo ulteriore
passo nella conquista della
verità (versi 4-6), una visione
che, pur trascolorata, mantiene
sempre contorni umani, lo attrae
a sé. Dopo che gli occhi santi
di Beatrice lo hanno riscosso
dallo smarrimento che lo aveva
colto di fronte alle prime anime
beate, Dante si accorge che una
delle ombre è vaga di ragionar,
ma, allorché essa comincia a
parlare, le sue parole sono un
inno di esaltazione della
volontà divina, mentre la sua
vicenda terrena è adombrata in
un solo verso (i’ fui nei mondo
vergine sorella); poi, quasi
pentendosi di aver pronunciato
il proprio nome, Piccarda torna
a celarsi fra gli altri beati
(verso 50), ad immergersi nel
piacer dello Spirito Santo. Il
nome di Piccarda può risvegliare
nel Poetò la tanti ricordi, ma
basta un fugace accenno (versi
62-63), perché l’ansia di
conoscere il regno celeste lo
spinge a nuove domande. Solo
dopo che Piccarda ha cantato il
godimento infinito degli esseri
nel mare al qual tutto si more,
ritorna in lui il desiderio di
sapere qualcosa della vicenda
terrena di quest’anima. Ma
Piccarda non risponde subito:
prima presenta colei che
perfetta vita e alto m erto in
cielo... più su; poi, in sei
versi, rivela la propria vita,
ma è la visione di Dio che
chiude il suo racconto (verso
108) ed è il canto dell’"Ave,
Maria" che conclude la
presentazione, ricca di elementi
terreni, della figura di
Costanza. La figura di Piccarda
illumina dunque un grande tema
teologico (quello dell’anima che
incomincia a vivere per
l’eternità la vita della
Grazia), ma è ben lungi
dall’irrigidirsi in un simbolo:
le risorse di fantasia e di
sentimento di Dante sono tali
che gli permettono quasi sempre
di conferire una salda é precisa
fisionomia ai personaggi del
Paradiso pur chiamandoli a
compiti così impegnativi, quali
quelli di tradurre in parole e
immagini le sue idealità
religiose, morali e
intellettive. Diventata più
bella, Piccarda resta la dolce
figura di donna che Dante ha
conosciuto e di cui tanto ha
sentito parlare nella sua
giovinezza. Senza essere
richiesta, si offre per prima
(versi 34-35); nella sua umiltà
francescana si gloria di una
cosa sola, di essere stata una
vergine sorella; ricorda al
Poeta la conoscenza di un tempo
(verso 49), ma senza precisare:
quella Firenze è ormai lontana
per entrambi; attraverso la
figura di Santa Chiara indugia
con commossa delicatezza sulle
sue mistiche nozze con Cristo
(versi 100-102); fuggita dal
mondo non per disprezzo verso
gli uomini, ma per vivere più
intensamente il suo amore con
Dio, la violenza subita non la
inasprisce, ma le permette di
meglio capire e perdonare gli
uomini, soprattutto quando sono
a mal più ch’è bene usi. Nel
silenzio di Dio (verso 108) il
suo amore diventa più profondo,
più sofferto, più inebriante: la
giovane clarissa che, suo
malgrado, ha ceduto alla
violenza altrui, diventa così
degna di esaltare, prima fra
tutte le anime del Paradiso,
l’accordo dei beati con la
volontà divina, il precipitare
dell’anima in grazia nel mare
dell’infinito amore.
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