IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

DIVINA COMMEDIA

INTRODUZIONE CRITICA AL CANTO

PARADISO

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INTRODUZIONE CRITICA AL CANTO

PARADISO

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DIVINA COMMEDIA RIASSUNTO E CRITICA

CANTO XXXI


Il Poeta osserva con stupore e ammirazione, lo spettacolo tripudiante dell’Empireo. Mentre gli eletti, seduti sui loro seggi, contemplano la luce eterna di Dio, gli angeli volano, con moto incessante, come intermediari d’amore, dai beati a Dio e da Dio ai beati. Percorrendo con lo sguardo i gradini dell’immenso anfiteatro celeste, Dante scorge i volti, luminosi e trasfigurati dalla gioia, dei beati, osserva i loro atteggiamenti dignitosi e improntati alla più profonda serenità. Desideroso di rivolgere a Beatrice alcune domande, il pellegrino si volge verso di lei, ma al posto della donna amata trova un beato, in atteggiamento benevolo e paterno. San Bernardo da Chiaravalle, il più famoso mistico del secolo XII, particolarmente devoto alla Vergine. Egli, quale simbolo della scienza contemplativa, sostituisce Beatrice per guidare Dante alla visione finale di Dio. Poiché il Poeta vuole sapere dove si trova ora Beatrice, il Santo gli spiega che è ritornata al suo seggio, il terzo, a partire dall’alto, dopo quello della Vergine e di Eva, accanto a quello di Rachele. Dopo che Dante ha innalzato alla sua donna una fervida preghiera di ringraziamento per averlo guidato dal peccato alla salvezza eterna e dopo che ha invocato, ancora una volta, il suo aiuto, San Bernardo lo invita a percorrere di nuovo con lo sguardo tutto l’Empireo, per prepararsi alla visione di Dio. Dante - esorta il Santo - deve contemplare anzitutto la regina del cielo. La Vergine appare al pellegrino nel punto più alto della candida rosa, avvolta in una luce intensissima, circondata dal volo festoso di migliaia di angeli.

INTRODUZIONE CRITICA

Mentre il canto precedente ha rivelato l’aspetto esteriore della candida rosa, il XXXI ha il compito di rappresentare la vita che anima tutto l’Empireo. I beati appaiono finalmente con la loro figura umana; il Poeta può finalmente posare il suo sguardo sui loro volti, seguire i loro gesti, scrutare ogni loro movimento. E’ questo, uno dei momenti più importatori di tutta la Commedia, perché nel regno dell’astrazione e della pura spiritualità "raggiunge il suo vertice la determinazione della personalità o dell’individuo: il sommo ideale è il sommo reale. Gli stessi angeli, che nel Primo Mobile non erano che scintille di un unico immenso incendio, ci appariscono nella loro forma personale con le facce di fiamma viva; ma specialmente le anime beate, che negli astri si confondevano insieme in una comune uniformità di splendori, qui si mostrano con immagine scoperta, nell’aspetto della loro individualità terrena" (Parodi), perché la natura sale fino alla sommità dell’Empireo. Essa, continua l’illustre critico nel suo studio dedicato alla "costruzione" del paradiso dantesco, " dopo un primo baleno di una visione, in cui... ricompare, co’ suoi incanti d’acque, di fiori, di esseri alati, quasi a rammentare che è uno specchio divino del vero... trionfa nell’immagine umana delle anime beate". L’uomo, che avevamo incontrato all’inizio del paradiso ancora legato alla natura, ma pur da essa diviso e come assorto nello sforzo di liberarsene in una sempre più alta spiritualità, ora ha trovato con essa il suo equilibrio, riconquistandola e con essa identificandosi in una realtà compiuta e suprema. L’aspetto corporeo delle anime non è che "la luce della loro vita individuale, che Dante vede e distingue nel divino lume, è l’eterno suggello che in sé riportarono impresso della loro penosa ma cara e indimenticabile prigione terrena " (Parodi), perché se l’anima è forma del corpo, Dante, forse, intravede, nell’Empireo, che anche il corpo è forma dell’anima. Sotto questo punto di vista il dogma della risurrezione della carne non ha mai avuto una più alta e più poetica interpretazione. Il poeta cristiano - questa è la conclusione del Parodi - "è così riuscito a portarsi con sé, anche lassù nelle somme vette dell’Empireo, la sua cara terra", simboleggiando una perfezione umana dove il corpo, la terra e ogni bellezza sensibile rivendicano i propri diritti accanto a quelli del puro spirito. Se per il mistico Medioevo le due realtà dello spirito e della materia si compendiano nella lotta della terra con il cielo, del senso con l’intelletto, le nell’aspirazione - profondamente avvertita - dello spirito a spogliarsi di ogni legame terreno per immergersi nella volontà e nell’essenza divina, in Dante non esiste più alcuna lacerazione di opposti, bensì una concordia metafisica, per cui le due forme dell’essere si armonizzano in cielo. Nel canto XXXI culmina la potenziale poesia drammatica di tutta la filosofia scolastica, impegnata appunto a distinguere per unire, per risolvere in unità tutta la creazione, superando la tendenza manichea pronta a lacerare il mondo nei due opposti principii della materia (principio del male) e dello spirito (principio del bene). L’ "ampio respiro epico" che il Sapegno vede in questo canto, la "voce piena fluente e maestosa, che sottolinea la chiara armoniosa struttura dello spettacolo fantastico e la grandiosità della concezione ideale", l’ "ebbrezza di una realtà trascendente", lo "stupore estatico del contemplante " trovano la loro origine proprio in questo raggiunto equilibrio metafisico. Il paradiso dei nove cieli fisici è un grande mito poetico che ha il compito di far segno (cfr. canto IV, verso 38) agli uomini dell’ordine gerarchico di tutti gli esseri e di tutti i concetti, ossia dell’ordine e della bellezza - morali e materiali - che regnano nell’universo e che, fluendo da Dio, a Dio ritornano. Questo mito poetico raggiunge la sua compiuta espressione nell’aspetto umano delle anime dell’Empireo, quando, come nei miti platonici, la luce della poesia scaturisce dall’ardore di una profonda idea. Non è causale l’accenno che abbiamo fatto a Platone: la singolare ma grandiosa concezione del mondo come un flusso continuo di raggi luminosi che dalla Causa Prima scendono, riflettendosi in innumerevoli specchi e perdendo via via, una parte del loro splendore, fino all’ultima delle cose e portano dovunque il pensiero di Dio, costituendo quell’infinita gradazione di esseri nella quale appunto risiedono l’ordine e l’armonia, risale a Platone. Platonica, o meglio neoplatonica, oltre che la teoria della processione delle cose da Dio, è anche quella del loro ritorno, come quella della indivisibile unità di Dio che splende nel molteplice o quella della luce come struttura dell’universo. E’ una conclusione evidente (e unanimemente accettata dalla critica) che il mondo filosofico che esercita su Dante una suggestione di ordine artistico, è essenzialmente quello neoplatonico-agostiniano, il quale, per di più, offre al Poeta una tradizione di linguaggio potentemente figurativo. Sarebbe sufficiente confrontare la prosa di Aristotile e di San Tommaso con quella di Dionigi e Sant’Agostino per rendersi conto della diversa quantità e qualità di suggestione da esse esercitate, perché è la concezione stessa del mondo neoplatonico che non si affida solo al rigore logico, ma ha in sé una ricchezza poetica. Quel mondo dove l’essere è luce nel senso più proprio, e i corpi fatti di luce visibile sono segni e vestigia della vera luce, dove la separazione fra spirito e materia è estremamente esigua e il simbolo e l’analogia hanno valore essenziale di conoscenza, è certamente un mondo dove la logica si allea alla poesia per meglio comprendere ed esprimere la realtà. Ed è appunto questo mondo che è alla base della struttura stessa del Paradiso e che trova il suo compimento, nell’Empireo, nella figura umana dei beati.

 

© 2009 - Luigi De Bellis