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DIVINA
COMMEDIA
INTRODUZIONE
CRITICA AL CANTO |
PARADISO |
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INTRODUZIONE
CRITICA AL CANTO |
PARADISO |
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DIVINA COMMEDIA RIASSUNTO E
CRITICA
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CANTO VI
Nel cielo
di Mercurio l’imperatore
Giustiniano, dopo aver narrato a
Dante la storia della sua vita,
dalla conversione alla grandiosa
opera legislativa con la quale
riordinò tutto il diritto
romano, rievoca, celebrandone le
lodi, l’epopea di Roma e del suo
impero, simboleggiato nel
sacrosanto segno dell’aquila. La
narrazione ha inizio dal momento
in cui Pallante, figlio di
Evandro re del Lazio, morì
combattendo in aiuto di Enea,
che aveva portato dall’Oriente,
da Troia, la gloriosa insegna.
Prosegue con le vicende del
periodo dei sette re e dell’età
repubblicana, allorché Roma
estese sempre di più le sue
conquiste. Dopo aver accennato
alle guerre civili, Giustiniano
presenta la gloriosa figura di
Cesare, che diede a Roma il
dominio del mondo. La terra,
unita e pacificata, fu pronta a
ricevere, sotto il suo
successore, Augusto, la venuta
del Messia, che riscattò
l’umanità dal peccato con il
sacrificio della croce. Fu Roma
poi che vendicò la morte
dell’Uomo-Dio, distruggendo
Gerusalemme ad opera
dell’imperatore Tito e punendo,
in tal modo, il popolo ebraico.
Infine il segno dell’aquila in
mano a Carlo Magno, difese la
Chiesa di fronte ai Longobardi.
Giustiniano terminò la sua
rievocazione ammonendo i Guelfi
e i Ghibellini a non asservire
ai propri interessi faziosi il
simbolo dell’aquila, sacro e
universale. Dopo aver spiegato
che nel cielo di Mercurio si
trovano coloro che desiderarono
conseguire la fama nel mondo,
Giustiniano indica la nobile
figura di Romeo di Villanova,
ministro di Berengario IV conte
di Provenza, costretto
ingiustamente all’esilio dalle
accuse di cortigiani insidiosi
del suo potere.
INTRODUZIONE CRITICA
Il canto sesto del Paradiso è la
rivendicazione della
provvidenzialità, legittimità e
insostituibilità dell’Impero,
con la rievocazione della sua
genesi, della sua funzione e
della sua storia di fronte a un
mondo che lo misconosce o,
addirittura, lo nega. Esso è il
canto che interpreta il cammino
della storia dell’umanità,
perché questa storia ha avuto
inizio nel momento in cui
all’orizzonte del mondo, nello
stremo d’Europa, è apparso il
volo possente dell’aquila
dell’Impero; del resto la
certezza che da Troia fosse
cominciata una nuova età per gli
uomini era già radicata in Nevio
e in Ennio, prima ancora che
Virgilio consacrasse tutto il
suo poema a questa presa di
coscienza, nell’uomo antico, del
cammino provvidenziale della
storia con il riconoscimento
della missione di quella che
sarà poi Roma. In altre parole:
Dante affronta l’arduo compito
del rifacimento di questa antica
epopea, "continuando nel suo
poema cristiano l’epica della
missione provvidenziale di Roma,
che già Virgilio aveva cantato
in forme pagane ma con un intimo
valore religioso" (Brezzi).
Un’epopea immensa è presentata
in 96 versi, nei quali non
dobbiamo cercare un sommario
storico, un’esatta ricostruzione
di fatti, un’assoluta
obiettività di giudizio, ma una
serie di legami ideali, per
capire i quali occorrerebbe
"contemplare" più che leggere:
"Dato il tema e il motivo
ispiratore di questo canto,
troviamo necessariamente un’arte
che non si sofferma, con opera
di cesello, su tenui vibrazioni
dell’animo, e non ricerca motivi
interiori dove tempo e spazio si
restringono e scompaiono. Ma
anzi abbiamo qui un momento
opposto, e parimenti legittimo,
dell’arte, in cui la
contemplazione e l’emozione
estetica nascono da
contrapposizione di tempi eterni
e di spazi senza fine" (Conte).
Da un’altezza sovrana, dove le
lotte e le passioni contingenti
appaiono nella loro realtà di
vani tentativi operati da
piccoli uomini per mutare
secondo i loro interessi il
corso storico prefissato da Dio,
il Poeta scolpisce figure e
fatti grandiosi con una potenza
che sembra richiamare quella
della pittura o della scultura
di Michelangelo. Da una
solitudine sempre più grande e
sempre più dolorosa, nella quale
lo hanno posto le vicende della
sua vita d’esilio, il crollo,
dopo la morte di Arrigo VII,
delle sue speranze politiche e
la decisione di "far parte per
se stesso", sgorga la solennità
epica dell’enumerazione ne di
quelle figure, di quei fatti, di
quegli squarci di storia che,
proprio perché contemplati come
motivi ideali e trascesi in una
visione superiore degli eventi,
perdono ogni valore di cronaca
per assumere quello di tappe
fondamentali nella creazione di
un nuovo ordine morale. Questo
può essere così riassunto: alla
base di ogni creatura umana è
un’esigenza trascendente, una
ricerca di valori assoluti ed
eterni (il bene, il vero, il
bello); lo Stato è l’ordinamento
civile-politico che consente
all’uomo il raggiungimento di
questo fine assoluto, anzi è una
proiezione di questa esigenza,
la quale può essere soddisfatta
solo perseguendo la verità e la
giustizia. Queste ultime, però,
si conseguono solo su un piano
universale, perché ogni uomo non
può prescindere dai bisogni
degli altri uomini, ogni popolo
non può dimenticare i diritti
degli altri popoli. Questo
Stato, in Dante, prende il nome
di Impero, il quale non ha solo
un’origine ideale, ma anche una
straordinaria origine storica,
come risultato di una
concatenazione di avvenimenti e
di un concorso di uomini che,
anche contro la loro volontà,
hanno collaborato alla sua
fondazione o al suo svolgimento.
Il canto sesto è l’apoteosi di
questa duplice origine
dell’Impero, la quale, a sua
volta, spiega la venerazione e
la commozione che afferrano in
questo momento l’animo del
Poeta, come ogni volta che egli
scopre, nel mondo e
nell’universo, una razionalità
autentica, l’armonia e l’unità
di immanenza e trascendenza. Per
questo nella storia dell’Impero
- quale è da Dante ricreata nel
sesto canto attraverso il lento
battito delle ali possenti
dell’aquila, che non fendono
l’aria ma segnano tempi e
vicende millenarie - palpita
quei sentimento del divino che è
alla base della poesia del
Paradiso e che ispira i canti
dottrinali e teologici come le
più liriche similitudini. La
solennità dell’atmosfera
paradisiaca, secondo un’acuta
osservazione del Malagoli, fa
tutt’uno, in questo momento, con
la solennità dell’evocazione
dell’Impero, per cui ogni
momento della storia è attratto
in questa atmosfera divina,
perdendo la sua limitatezza di
tempo e di spazio, purificandosi
del sangue, delle lotte, delle
meschinità terrene di cui poteva
essere costituito. E' quasi una
serie di miracoli quella che
Dante ci presenta in queste
rapide e incalzanti terzine,
costruite in uno stile asciutto
e scabro: non c’è, infatti
bisogno di amplificare, di usare
aggettivi, di arricchire con
parole fatti e uomini che sono
già di per sé straordinari. I
nomi dei popoli, dei personaggi,
dei luoghi vibrano della
commozione e della coscienza del
divino, restituendo l’eco di un
mondo sacro e meraviglioso, nel
quale il Poeta si muove sicuro,
perché consapevole di essere
investito di una missione
profetica e di dover presentare
la celebrazione dell’Impero ad
un mondo che all’impero
dell’aquila ha opposto l’impero
della lupa. Occorre, infatti,
tenere sempre presente che Dante
non è mai mosso da problemi o
interessi particolari, bensì dal
desiderio di prospettare la
corruzione morale del mondo e la
possibilità di una totale
rigenerazione. L’ardua sintesi
di tutta la storia romano gli è
servita per dimostrare la
sacralità del segno dell’aquila,
che ha preparato la terra intera
alla venuta di Cristo, e quindi
la funzione che esso deve
rivestire al suo tempo: emerge
così il fine politico di tutto
il discorso di Giustiniano, che
si traduce nella vibrata e
drammatica protesta e condanna
di ogni settarismo (faccian li
Ghibellin... e non l’abbatta...).
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