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DIVINA
COMMEDIA
INTRODUZIONE
CRITICA AL CANTO |
PARADISO |
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INTRODUZIONE
CRITICA AL CANTO |
PARADISO |
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DIVINA COMMEDIA RIASSUNTO E
CRITICA
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CANTO IX
All’inizio
del canto si conclude l’incontro
di Dante con Carlo Martello,
dopo che questo ha preannunciato
le sciagure che entro breve
volgere di anni colpiranno la
casa angioina. Subito dopo un
altro spirito del cielo di
Venere si avanza verso il Poeta:
è Cunizza da Romano, sorella di
Ezzelino III, il famoso tiranno
della Marca Trivigiana. Dopo
aver presentato la propria terra
Cunizza accenna alla corruzione
dilagata nella regione
trevigiana e profetizza per essa
un doloroso futuro: Padova,
Treviso, Feltre, dove il male è
ormai diventato costume di vita,
pagheranno ben presto il fio
delle loro colpe. Allorché
Cunizza riprende con gli altri
beati la danza che aveva
interrotta per parlare con lui,
Dante si rivolge all’anima che
gli era già stata presentata
dalla nobildonna trevigiana,
invitandola a rivelare il
proprio nome. Si tratta di un
trovatore, Folco da Marsiglia,
che divenne vescovo di Tolosa e
partecipò alla crociata contro
gli Albigesi. Presentata la sua
città con una lunga descrizione,
egli rivela a Dante che gode la
beatitudine del terzo cielo
anche Raab, la meretrice di
Gerico che aiutò il condottiero
ebraico Giosuè nella conquista
della città, meritandosi così la
salvezza eterna. Folco chiude il
suo discorso con un’aspra
invettiva contro Firenze,
colpevole di aver coniato la
moneta d’oro, causa prima del
diffondersi dell’avidità nel
mondo, e contro la Chiesa, che
si lascia traviare dal miraggio
dei beni terreni.
INTRODUZIONE CRITICA
Il canto nono conclude con la
speranza di una rigenerazione
morale del mondo (espressa nella
profezia di Folco da Marsiglia)
il tema politico che era rimasto
diffuso nell’aria dopo il
discorso di Giustiniano,
risolvendo in fiduciosa attesa i
dubbi morali e i giudizi
politici dei canti precedenti:
ma Vaticano e l’altre parti
elette di Roma... tosto libere
fien dell’adultero. Da Roma
ancora una volta verrà al mondo
la salvezza: e il miracolo è
ormai vicino (tosto liniere fien),
nonostante i tentativi della
casa angioina o delle città
venete e nonostante che il papa
e’ cardinali continuino a
restare legati ai beni terreni.
La certezza messianica del Poeta
nasce proprio dal fatto che non
dagli uomini egli aspetta questa
salvezza, ma da Dio stesso e in
Dio si abbandona. Ecco la
spiegazione del mistico esordio
del canto decimo e del commosso
invito al lettore (leva...
all’alte ruote meco la vista).
Il nono non conclude solo
l’argomento del cielo di Venere,
ma tutto il primo tempo del
Paradiso, o, meglio, conclude
una specie di ante-paradiso,
dove le sfere e le anime sono
ancora segnate dall’ombra della
terra prima che l’estatica
ascesa dello spirito proietti
verticalmente la materia verso i
cieli di pura luce. Ritorneranno
in alcuni passi dei canti
seguenti la durezza e il fiero
realismo dei discorsi di Cunizza
e di Folco, ma non la sua
selvaggia coloritura, la loro
fosca rievocazione di medievali
eccessi, il loro tempestoso e
macabro compiacimento del sangue
e della vendetta, che hanno
richiamato alla memoria del
Momigliano il canto di Guido del
Duca e quello dei seminatori di
discordia. La violenza della
terra prorompe nel canto nono
con tale assolutezza di immagini
e di termini da far pensare che
il Poeta, presentandocela per
l’ultima volta, voglia
costringere il lettore a
ricordarla, a ricordarla sempre,
anche nei cieli di pura luce,
perché è da quel mondo di
malvagità e di violenza che
l’uomo è partito per giungere a
Dio. I toni cupi di questo canto
non devono, dunque, stupire, o
spingere a giudicarli fuori di
luogo nella rarefatta atmosfera
paradisiaca (così come non
saranno certo fuori di luogo
l’apostrofe all’aiuola che ci fa
tanto feroci o l’invettiva di
Beatrice contro la corruzione
umana nel canto XXVII), perché è
nella vittoria contro i mali qui
descritti, è nella risoluzione
dei problemi qui prospettati che
la creatura giungerà alla
salvezza eterna. Eliminare
questi argomenti dal Paradiso
significherebbe non tenere conto
che esso per il Poeta è
soprattutto un itinerarium
mentis in Deum. E' però evidente
nel canto una specie di
sfasatura nella creazione dei
personaggi, i quali trovano la
loro giustificazione e la loro
consistenza in motivi
etico-politici, prestando voce
occasionalmente a una commozione
etico-politica che perdurava dal
canto di Giustiniano e si era
già affermata in quello di Carlo
Martello, ma non hanno vita per
se stessi, privi come sono di
caratteristiche individuali
spiccate, privi, cioè, di una
personalità che li faccia
diventare creature r"vere" (alla
maniera delle grandi figure
dantesche, da Farinata a
Piccarda) e non semplici
portavoci del pensiero e degli
sdegni di Dante. L’animo del
Poeta si è sovrapposto ai toni
che ci saremmo aspettati da una
donna che fu certo lontana da
ogni preoccupazione politica o
da un poeta provenzale, sia pure
diventato poi vescovo. "L’unità,
se una unità cerchiamo, come si
conviene - va, ancora una volta,
ravvisata nel fervore della
coscienza di Dante" (Di Pino),
perché si avverte chiaramente
l’esistenza di "una forza reale
e tenacemente tesa, i sintomi,
cioè, dell’imminente irrompere
della terribile ira personale di
Dante". C’è, infatti, una
profonda consequenzialità fra il
discorso di Cunizza e quello di
Folco, perché il primo presenta
la terra prava italica e il
secondo la città di Firenze,
causa del traviamento del mondo
con il maladetto fore, così come
nel canto di Sordello la visione
della corruzione politica
dell’Italia sfociava
nell’invettiva contro Firenze
(Purgatorio VI, 127-151) e nel
canto di Guido del Duca il
disordine della Romagna e della
valle dell’Arno si concludeva
nel ricordo delle stragi
fiorentine. L’osservazione del
Di Pino a questo proposito è
estremamente interessante: "
Ancora una volta Firenze è il
termine antitetico ad ogni
concetto di virtù universale. Da
un lato Firenze, dall’altro il
cielo; perché da un lato c’è
Dante fiorentino, dall’altro
Dante uomo universale. E nella
ricorrente antitesi di termini
così profondamente contrapposti,
è il nodo dell’insoluto dramma
dell’esule e, infine, il dramma
strutturale del poema. Nella
pienezza dell’Empireo, tra lo
spiegarsi della milizia santa e
il trasvolare ardente degli
angeli di fiamma viva Dante
confronta - e sarà per l’ultima
volta - le due grandi componenti
del libro: io, che al divino da
l’umano a l’eterno dal tempo era
venuto, e di Fiorenza in popol
giusto e sano, di che stupor
dovea esser compiuto! (Paradiso
XXXI, 37-40). A tanta altezza di
paradiso, la crudezza dei
contrasti pare attenuata: l’ira
ha ceduto allo stupore. Al di
qua di quell’orizzonte i toni
restano rudi e violenti, perché
sempre la corruzione del mondo
sembra congiunta e motivata
dalla corruzione stessa di
Firenze. Ciò che, infatti, fa
sembrare possibile il confronto
fra termini di così diversa
portata (Firenze-paradiso) è il
fatto che Dante ha dato a
Firenze la universalità
dell’errore". Per il Poeta esule
la sua città resta pur sempre il
centro dal quale ha preso inizio
la sua visione del mondo e, così
come il raggio in un cerchio
geometrico, ad esso
continuamente ritorna e da esso
continuamente si allontana: nel
canto nono il movimento è,
infatti, duplice - dall’Italia a
Firenze e da Firenze al mondo -
ma sempre condotto con lo stesso
metro stilistico, con le stesse
trascinanti minacce, con la
stessa fede nella provvidenza
liberatrice.
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