IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

DIVINA COMMEDIA

 
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 DIVINA COMMEDIA: PARAFRASI INFERNO CANTO X°

1 Ora sen va per un secreto calle,
tra 'l muro de la terra e li martìri,
lo mio maestro, e io dopo le spalle.
  1 Ora il mio maestro avanza per uno stretto sentiero, tra il muro che cinge la città e i sepolcri roventi, e io lo seguo.
4 «O virtù somma, che per li empi giri
mi volvi», cominciai, «com' a te piace,
parlami, e sodisfammi a' miei disiri.
  4 "O virtù eccelsa (Virgilio), che mi conduci, come tu vuoi, attraverso i cerchi degli empi" presi a dire, "parla ed esaudisci il mio desiderio.
7 La gente che per li sepolcri giace
potrebbesi veder? già son levati
tutt' i coperchi, e nessun guardia face».
  7 Sarebbe possibile vedere i peccatori che giacciono dentro le tombe? tutti i coperchi, infatti, sono sollevati, e nessuno fa ad essi la guardia."
  La scenografia dei primi cerchi infernali si ispira ai grandi fenomeni naturali della terra: l'unico elemento che distingue la bufera che mai non resta dei lussuriosi o la pioggia maledetta del terzo cerchio da una bufera o da una pioggia reali, è la loro durata infinita. Dio si manifesta appunto attraverso questo carattere di eternità impresso a forme e movimenti altrimenti pienamente verosimili, in virtù della loro naturalezza, anche agli occhi di chi non riesca a vedere nella natura nulla che la trascenda. La stessa osservazione può ripetersi per la giostra degli avari e prodighi, che viene espressamente riallacciata dal Poeta a un particolare, l'urto delle onde di due mari nello stretto di Messina, e che, indipendentemente da questo accostamento, ha, del fenomeno naturale, la rigorosa periodicità e monotonia.

Ad accrescere l'orrore di questi spettacoli - orrore immediato e quasi fisico, non ancora pervaso nel profondo da quella problematica religiosa e morale che troverà le sue soluzioni più ricche soltanto in un secondo tempo - contribuisce il commento di grida e invocazioni con cui i dannati manifestano la sopravvivenza in loro di un barlume di libertà spirituale: la libertà del dolore, del rifiuto, della bestemmia.

Ma nel quinto cerchio la sofferenza delle fangose genti è muta: gli iracondi si troncano a brano a brano senza che Dante accenni ad un solo lamento da loro emesso. Il dramma allegorico, che prelude all'arrivo del messo celeste e che non è già più traducibile in termini "naturali" con la stessa facilità con cui lo erano gli spettacoli dei cerchi superiori, si svolge anch'esso in uno spazio che, per essere vuoto di suoni, si arricchisce di risonanze spirituali e parla direttamente all'anima. Il paesaggio del cerchio degli eretici, desolato nella sua quasi assoluta orizzontalità e cosparso di avelli aperti, sembra esso pure immerso nel silenzio, nonostante il cenno ai duri lamenti di questi peccatori (Inferno IX, 122 ).

Ma anche qui il silenzio non è se non la condizione in cui meglio si ascolta la voce di Dio. La campagna cosparsa di tombe evoca uno scenario da Giudizio Universale. Anche il particolare, solo in apparenza secondario, del sentiero angusto che egli deve percorrere dietro la sua guida, accentua il senso di solitudine e lo sbigottimento del Poeta. Da tale stato d'animo nascono gli appellativi, ora solenni ora affettuosi, con cui Dante si rivolge in quest'apertura di canto a Virgilio, e tutto il tono sospeso delle sue parole.
10 E quelli a me: «Tutti saran serrati
quando di Iosafàt qui torneranno
coi corpi che là sù hanno lasciati.
  10 E Virgilio: "Tutte le tombe saranno chiuse quando (nel giorno del Giudizio Universale) le anime torneranno qui dalla valle di Giosafàt insieme ai corpi che hanno lasciato in terra.
13 Suo cimitero da questa parte hanno
con Epicuro tutti suoi seguaci,
che l'anima col corpo morta fanno.
  13 In questa zona del cerchio hanno il loro luogo di sepoltura Epicuro e i suoi adepti, i quali credono che l’anima muoia insieme al corpo.
  Il filosofo greco Epicuro (341-270 a. C.) aveva negato la sopravvivenza dell'anima al corpo, opinione questa, come scrisse Dante nel Convivio ( Il, VIII, 8), "intra tutte le bestialitadi... stoltissima, vilissima e dannosissima". Le sue teorie erano conosciute nel Medioevo soltanto indirettamente, attraverso gli scrittori latini, e in modo incompleto; per tale motivo poterono essere qualificati "epicurei" tutti coloro che si mostravano indifferenti in materia religiosa. In particolare i Ghibellini vennero spesso designati come epicurei.
16 Però a la dimanda che mi faci
quinc' entro satisfatto sarà tosto,
e al disio ancor che tu mi taci».
  16 Perciò ben presto dentro questo stesso cerchio sarà data soddisfazione alla domanda che mi fai, e anche al desiderio che mi nascondi".
19 E io: «Buon duca, non tegno riposto
a te mio cuor se non per dicer poco,
e tu m'hai non pur mo a ciò disposto».
  19 E io: "Mia buona guida, io non ti tengo celato il mio animo se non per parlare poco, e tu stesso mi hai indotto a ciò non soltanto ora".
22 «O Tosco che per la città del foco
vivo ten vai così parlando onesto,
piacciati di restare in questo loco.
  22 "O Toscano che ancora in vita percorri la città infuocata parlando in modo così decoroso, abbi la compiacenza di fermarti qui.
25 La tua loquela ti fa manifesto
di quella nobil patrïa natio,
a la qual forse fui troppo molesto».
  25 Il tuo modo di parlare rivela che sei nato in quella nobile terra alla quale forse arrecai troppo danno."
  Il dannato che rivolge queste parole a Dante è Manente, detto Farinata, degli Uberti. Nato a Firenze all'inizio del secolo XIII, fu dal 1239 capo del partito ghibellino e come tale ebbe un ruolo di primo piano nel determinare la cacciata dei Guelfi dalla città nel 1248. Tornati questi nel 1251, dovette, a sua volta, allontanarsi da Firenze insieme ai suoi seguaci. Trovò rifugio a Siena, dove preparò la controffensiva contro il partito avverso. I Guelfi fiorentini subirono nel 1260 una sanguinosa disfatta a Montaperti ad opera dei fuorusciti ghibellini e dei Senesi comandati appunto da Farinata, Rientrato in patria, vi mori nel 1264. Dopo la sua morte, e in seguito alla definitiva disfatta del partito ghibellino in Italia, gli Uberti furono messi al bando da Firenze e le loro case rase al suolo. Farinata, dopo la sua morte, fu processato per eresia.

Nel Farinata dantesco i romantici videro soprattutto l'eroe tutto d'un pezzo, il prodotto di un'epoca ancora barbarica, quasi un "superuomo" del Medioevo. In realtà il suo carattere è assai più sfumato, contraddittorio e umano; proprio in questa umanità è la sua grandezza. Bene osserva il Romani, a proposito di queste prime parole rivolte a Dante: "Nel violento impulso di affetto verso la sua patria, e nel subitaneo crescere e innalzarsi dell'immagine di lei, Farinata intravede, forse per la prima volta, di non averla in vita amata abbastanza, anzi di averle indegnamente recato offesa; e, in quell'impeto d'amore, l'anima s'apre alla sincerità, e confessa nobilmente la sua colpa".
28 Subitamente questo suono uscìo
d'una de l'arche; però m'accostai,
temendo, un poco più al duca mio.
  28 Questa voce si levò all’improvviso da uno dei sepolcri; mi avvicinai, intimorito, un po più a Virgilio.
31 Ed el mi disse: «Volgiti! Che fai?
Vedi là Farinata che s'è dritto:
da la cintola in sù tutto 'l vedrai».
  31 Ed egli mi disse: "Voltati: che cosa fai? Ecco là Farinata che si è levato: lo vedrai interamente dalla cintola in su ".
  Dalla cintola in su tutto 'I vedrai: il De Sanctis interpretava questo verso in senso morale, come un equivalente di: "lo vedrai in tutta la sua grandezza".

Il Barbi ha voluto invalidare questa esegesi, mostrando come espressioni del tipo "dalla cintola in su" e "dalla cintola in giù", accompagnate a volte anche dalla specificazione "tutto", fossero comuni ai tempi di Dante, per designare "la parte superiore o inferiore del corpo". Ma uno dei pregi più rilevanti dell'arte del Poeta sta appunto nel saper conferire un significato nuovo, più ricco e profondo, ad espressioni che in nulla sembrano scostarsi dal parlare comune.
34 Io avea già il mio viso nel suo fitto;
ed el s'ergea col petto e con la fronte
com' avesse l'inferno a gran dispitto.
  34

Io avevo già fissato il mio sguardo nel suo; ed egli stava eretto con il petto e con la fronte quasi avesse l’inferno in grande disprezzo.

  La rappresentazione di Farinata che si erge solitario e immobile in mezzo alla pianura del dolore, ha ispirato le più suggestive pagine del saggio del De Sanctis; questi, peraltro, non si è soffermato abbastanza su quanto di complesso e di tormentato c'è nella figura di questo eroe, vincitore in terra, ma definitivamente perdente agli occhi di Chi lo ha giudicato per l'eternità. Scrive il De Sanctis, a proposito dell'"ergersi" di Farinata, che questo verbo "è sublime non per il suo significato diretto, ma come segno ed espressione d'una grandezza tanto maggiore quanto meno misurabile, dell'ergersi, dell'innalzarsi dell'anima di Farinata sopra tutto l'inferno..."
37 E l'animose man del duca e pronte
mi pinser tra le sepulture a lui,
dicendo: «Le parole tue sien conte».
  37 E le mani incoraggianti e sollecite ti Virgilio mi sospinsero fra le tombe verso quel dannato, con questa esortazione: "Le tue parole siano misurate".
40 Com' io al piè de la sua tomba fui,
guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,
mi dimandò: «Chi fuor li maggior tui?».
  40 Non appena fui ai piedi della sua tomba, mi osservò un poco, e poi, quasi sprezzante, mi chiese: "Chi furono i tuoi antenati?"
  C'è un grande divario fra il tono appassionato, affabile e nobilmente ornato della preghiera che Farinata ha poc'anzi rivolto a Dante e il tono brusco e imperioso con cui gli pone la domanda circa i suoi antenati. Ma, come ha giustamente notato il Sansone, "lì Farinata parlava a quell'ignoto concittadino, a colui che gli rimenava alla memoria la sua terra, nell'inferno, li dov'è una distanza immensa ed implacabile da ogni cosa terrena. Qui si rivolge a un solo determinato Fiorentino, e sta guardingo come se preavvertisse il nemico".
43 Io ch'era d'ubidir disideroso,
non gliel celai, ma tutto gliel' apersi;
ond' ei levò le ciglia un poco in suso;
  43 Io, che desideravo obbedire, non glieli nascosi, ma tutti glieli indicai; per cui egli sollevò un poco le ciglia,
46 poi disse: «Fieramente furo avversi
a me e a miei primi e a mia parte,
sì che per due fïate li dispersi».
  46 poi disse: "Furono acerrimi nemici miei e dei miei avi e del mio partito, tanto che per due volte li debellai".
  Farinata bandi due volte da Firenze i Guelfi (nel 1248 e nel 1260), ma dispersi suggerisce l'idea di una sconfitta in battaglia (il che, se può essere vero per la cacciata dei Guelfi nel 1260, in seguito allo scontro di Montaperti, non lo è certo per quella del 1248). Scrive il Romani, sempre in merito al tono che assume questo termine guerresco nelle parole del Ghibellino: "Farinata non dice: In conseguenza della loro inimicizia li combattei; ma semplicemente li dispersi: per lui il combattere i suoi nemici e il disperderli sono una cosa sola; egli non conosce battaglia senza vittoria".
49 «S'ei fur cacciati, ei tornar d'ogne parte»,
rispuos' io lui, «l'una e l'altra fïata;
ma i vostri non appreser ben quell' arte».
  49

"Se furono mandati in esilio, tornarono da ogni luogo" gli risposi "sia la prima che la seconda volta; ma i vostri non impararono bene l’arte del ritornare".

  Dante rettifica l'espressione con cui Farinata ha accennato alla messa al bando degli Alighieri: essi non furono dispersi, ma soltanto cacciati, mandati in esilio. Poi, da vero uomo di parte che si trova a dover difendere l'onore politico della propria famiglia e l'integrità delle tradizioni domestiche, "gli ritorna quel plurale [due fiate] distinto in due singolari [l'una e l'altra fata]; due colpi, l'uno appresso all'altro; e niente pareggia il sarcasmo dell'ultimo verso [ma i vostri non appreser ben quell'arte] " ( De Sanctis).
52 Allor surse a la vista scoperchiata
un'ombra, lungo questa, infino al mento:
credo che s'era in ginocchie levata.
  52 A questo punto si levò dall’apertura scoperchiata un’ombra accanto a quella di Farinata, visibile dal mento in su: penso si fosse alzata sulle ginocchia.
  L'ombra che interrompe, nel punto della sua più alta tensione, il dialogo tra Farinata e Dante è quella di Cavalcante dei Cavalcanti, padre del poeta Guido, il migliore amico di Dante, che gli dedicò la sua opera giovanile, la Vita Nova. Cavalcante ebbe in vita fama di miscredente: in particolare, non avrebbe creduto all'immortalità dell'anima. Guelfo, dette il suo consenso al fidanzamento del figlio Guido con Beatrice, figlia di Farinata, allorché nel 1267 le due opposte fazioni tentarono una riconciliazione.

La figura di Cavalcante è l'antitesi di quella di Farinata. La grandezza del capo ghibellino deriva, infatti, dalla forza con cui egli riesce a dominare il dolore per la definitiva sconfitta dei suoi, la pena segreta del suo fallimento umano (identificando patria e partito, ha creduto di agire per il bene della patria, mentre non ha fatto altro che opporsi ad essa in nome di una fazione), e tale forza si riflette nel suo atteggiamento statuario. Cavalcante, di fronte a questa statua, è un'ombra, e delle ombre ha la fuggevole inconsistenza. Come ha notato l'Agliana: "La figura di Cavalcante sembra dominata dal dubbio sin dal suo primo apparire. Una condizione d'incertezza è nella sua positura fisica, nello sguardo che egli rivolge intorno, nella domanda che pone a Dante".
55 Dintorno mi guardò, come talento
avesse di veder s'altri era meco;
e poi che 'l sospecciar fu tutto spento,
  55 Guardò intorno a me, come se avesse desiderio di vedere se con me c’era qualcun altro; e dopo che ebbe finito di dubitare,
58 piangendo disse: «Se per questo cieco
carcere vai per altezza d'ingegno,
mio figlio ov' è? e perché non è teco?».
  58 tra le lagrime disse: "Se il tuo alto ingegno ti consente di attraversare la buia prigione infernale, dov’è mio figlio? perché non è con te?".
  L'ateo Cavalcante crede bastino, per visitare il regno dei morti, le sole forze umane (altezza d'ingegno); ignora la dimensione della Grazia. Perché suo figlio Guido, anch'egli, come l'amico Dante, cultore di studi filosofici, non è con lui in questo viaggio? Guido Cavalcanti, più giovane di qualche anno di Dante, fu con l'Alighieri il più cospicuo rappresentante della scuola poetica del dolce stil novo. Come studioso di filosofia egli si interessò soprattutto al pensiero dell'arabo Averroè. Guelfo bianco, fu esiliato dai Priori, tra i quali era anche Dante, nel giugno del 1300, a Sarzana. Mori due mesi dopo.
61 E io a lui: «Da me stesso non vegno:
colui ch'attende là, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno».
  61

Ed io: "Non giungo per mio merito: Virgilio, che là mi aspetta, attraverso questo luogo mi conduce, se riuscirà a seguirlo, fino a colei (Beatrice, simbolo della fede) che il vostro Guido ebbe in dispregio".

  Forse cui Guido vostro ebbe a disdegno: è uno degli endecasillabi più controversi dell'intero poema. L opinione oggi prevalente è che in esso Dante contrapponga, al proprio interesse per la teologia (simboleggiata nella Commedia da Beatrice), il disprezzo manifestato per questi studi dall'eretico ( e forse ateo) Guido, seguace in ciò del padre. Ecco dunque la ragione per la quale il figlio di Cavalcante non ha potuto intraprendere anche lui il viaggio nel regno dei morti; questo viaggio non è opera di una volontà e di una intelligenza umane; esso è stato voluto in cielo; chi lo compie ha la fede.
64 Le sue parole e 'l modo de la pena
m'avean di costui già letto il nome;
però fu la risposta così piena.
  64 Le sue parole e la qualità del supplizio mi avevano già palesato il nome di questo peccatore; perciò la mia risposta fu tanto esauriente.
67 Di sùbito drizzato gridò: «Come?
dicesti "elli ebbe"? non viv' elli ancora?
non fiere li occhi suoi lo dolce lume?».
  67 Alzatosi di scatto in piedi gridò: "Come hai detto? egli ebbe? non vive più? la dolce luce non colpisce più i suoi occhi?"
70 Quando s'accorse d'alcuna dimora
ch'io facëa dinanzi a la risposta,
supin ricadde e più non parve fora.
  70 Quando si avvide di un certo indugio che io facevo prima di rispondergli, cadde nuovamente indietro e non si mostrò più fuori.
  E' bastato un verbo riferito al passato piuttosto che al presente (ebbe invece di " ha ") perché il padre angosciato subito pensasse alla morte del suo Guido.

Le tre domande che rivolge a Dante per ottenere un chiarimento al suo dubbio non trovano risposta immediata. Non occorre altro perché Cavalcante, sopraffatto dal dolore, cada come fulminato nella tomba. Egli ha creduto che il silenzio di Dante significasse: "Tuo figlio non è più tra i vivi", mentre il Poeta in realtà, come spiegherà poi a Farinata, era tutto preso da un altro pensiero: "se Cavalcante ignora che Guido è ancora in vita, vuol dire che questi dannati non conoscono il presente, pur conoscendo l'avvenire. Come può la profezia di Ciacco accordarsi con questa cecità di Cavalcante nei riguardi degli eventi contemporanei?"
73 Ma quell' altro magnanimo, a cui posta
restato m'era, non mutò aspetto,
né mosse collo, né piegò sua costa;
  73 Ma il magnanimo Farinata, a richiesta del quale mi ero fermato, non cambiò espressione, né mosse il collo, né chinò il suo fianco;
76 e sé continüando al primo detto,
«S'elli han quell' arte», disse, «male appresa,
ciò mi tormenta più che questo letto.
  76 e proseguendo il discorso di prima, disse: "Se hanno male imparato l’arte del ritornare, ciò mi procura un dolore più grande di quanto non faccia la tomba in cui sto a giacere.
  Farinata rimane insensibile allo strazio di Cavalcante perché - come osserva il De Sanctis - "egli non vede e non ode, perché le parole di Cavalcante giungono al suo orecchio senza andare sino all'anima, perché la sua anima è tutta in un pensiero unico, rimastole infisso come uno strale, l'arte... male appresa, e tutto quello che avviene fuori di sé, è come non avvenuto per lei". Ma nell'intermezzo, in cui è racchiuso tutto il dramma umanissimo di questo morto che, soggetto ai supplizi infernali, ad altro non pensa che alla sorte del figlio rimasto sulla terra, l'atteggiamento di Farinata si è approfondito, si è fatto più intimo e raccolto: abbiamo lasciato l'uomo di parte per ritrovare solo l'uomo. Un nuovo dolore si è aggiunto a quelle pene infernali che egli ostentava poco fa di tenere in nessun conto: il dolore per l'arte... male appresa. Il superbo Farinata non ha riguardo adesso di confessare la sua sofferenza "con un verso fatto sublime dalla terribile antitesi di due strazi ugualmente sconfinati: ciò mi tormenta più che questo letto" (Parodi).
79 Ma non cinquanta volte fia raccesa
la faccia de la donna che qui regge,
che tu saprai quanto quell' arte pesa.
  79

Ma il volto della donna che qui governa non si riaccenderà nemmeno cinquanta volte, che tu stesso apprenderai quanto sia dura l’arte di ritornare in patria.

  L'esilio che qui Farinata predice a Dante è menzionato indirettamente, nello stile oscuro delle profezie. Richiamandosi alla mitologia, il Poeta definisce la luna signora dell'inferno: essa infatti veniva spesso identificata dagli antichi con Proserpina, moglie di Plutone, re dell'Ade. Il senso delle parole di Farinata è questo: " non trascorreranno nemmeno cinquanta mesi lunari da ora fino al momento in cui dovrai rassegnarti alla tua condizione di esule " (dall'aprile 1300, anno in cui avviene l'immaginario viaggio, al giugno 1304, quando Dante si staccò dai Bianchi, insieme ai quali aveva fino allora tentato di rientrare in Firenze).

Ancora il Parodi analizza con grande finezza, in rapporto alla profezia contenuta in questa terzina, il progressivo umanizzarsi della figura di Farinata: "mentre nell'annunziare a Dante la sua prossima sventura dovrebbe provare una soddisfazione o quasi un sollievo, è costretto a riconoscere che il dolore purtroppo non risparmia nessuno, onde il colloquio viene ad assumere un tono sempre più pacato".
82 E se tu mai nel dolce mondo regge,
dimmi: perché quel popolo è sì empio
incontr' a' miei in ciascuna sua legge?».
  82 E voglia il cielo che tu possa ritornare nel mondo dei vivi, dimmi (per questo augurio che ti faccio): perché il popolo fiorentino è così spietato in ogni sua legge contro quelli della mia famiglia?"
85 Ond' io a lui: «Lo strazio e 'l grande scempio
che fece l'Arbia colorata in rosso,
tal orazion fa far nel nostro tempio».
  85 Gli risposi: "La crudelissima strage che tinse del colore del sangue il fiume Arbia, fa prendere tali decisioni nelle nostre assemblee".
  L'Arbia è il fiume che scorre presso Montaperti. In uno scritto dell'epoca è detto che nel giorno della battaglia, tutte le strade, e poggi e ogni rigo d'acqua pareva un grosso fiume di sangue.

Tali orazion la lar nel nostro tempio: non è da credere che nelle chiese di Firenze, come hanno sostenuto alcuni, si tenessero suppliche di deprecazione contro i discendenti di Farinata. Tutta l'espressione ha un senso traslato, che tuttavia "aggiunge qualcosa al nudo senso letterale, trasfigurandolo: dà la rappresentazione concreta dell'avversione generale diffusa nel popolo contro gli Uberti" (Malagoli).
88 Poi ch'ebbe sospirando il capo mosso,
«A ciò non fu' io sol», disse, «né certo
sanza cagion con li altri sarei mosso.
  88 Dopo aver sospirato e scosso la testa, disse: "Non fui io solo a provocare questa strage né certamente senza un motivo mi sarei mosso insieme agli altri esuli.
91 Ma fu' io solo, là dove sofferto
fu per ciascun di tòrre via Fiorenza,
colui che la difesi a viso aperto».
  91 Ma fui io solo, là dove fu da tutti tollerato che Firenze venisse rasa al suolo, colui che la difesi apertamente"
  Come tutti i dannati, anche Farinata, inappellabilmente giudicato agli occhi di Dio. cerca di addurre ragioni umane per giustificare il proprio operato di fronte a Dante (a ciò non fu' io sol... né certe sanza cagion ... ). Ma tutte queste giustìficazioni passano in seconda linea di fronte a quello che costituisce il maggior titolo di Farinata alla riconoscenza dei posteri: l'aver perorato senza infingimenti la causa della sua città allorché, nel convegno di Empoli, subito dopo la vittoria di Montaperti, tutti i Ghibeilini toscani ne decretarono la distruzione. Fu proprio per l'opposizione di Farinata che questo spietato provvedimento fu alla fine respinto. Anche uno storico guelfo come Giovanni Villani ha parole di elogio per l'atteggiamento preso in quell'occasione da Farinata. che non esita a paragonare al "buonoantico Cammillo di Roma" (VI, 81).
94 «Deh, se riposi mai vostra semenza»,
prega' io lui, «solvetemi quel nodo
che qui ha 'nviluppata mia sentenza.
  94 "Deh, possa aver pace un giorno la vostra discendenza" lo pregai, "scioglietemi (in nome di questo augurio) quel dubbio che in questo cerchio ha confuso le mie idee.
97 El par che voi veggiate, se ben odo,
dinanzi quel che 'l tempo seco adduce,
e nel presente tenete altro modo».
  97 Sembra che voi prevediate, se intendo bene, quello che il tempo porta con sé (il futuro), ma per il presente vi trovate in una condizione diversa."
100 «Noi veggiam, come quei c'ha mala luce,
le cose», disse, «che ne son lontano;
cotanto ancor ne splende il sommo duce.
  100 "Noi vediamo" disse "come colui che ha la vista difettosa, le cose che sono da noi lontane; di tanto ancora ci illumina Dio.
103 Quando s'appressano o son, tutto è vano
nostro intelletto; e s'altri non ci apporta,
nulla sapem di vostro stato umano.
  103 Quando esse si avvicinano o sono presenti, la nostra mente non ci è di nessun aiuto; e se qualcun altro non ci porta notizie, non sappiamo nulla del vostro stato sulla terra.
  Quale differenza tra il Farinata che pareva avere l'inferno in gran dispitto e il Farinata che adesso, consapevole della sua condizione di dannato, parla con tanta reverenza di Dio! Questa ultima parte del canto è stata generalmente giudicata impoetica dai critici, ma a torto: l'umiltà di Farinata di fronte al sommo duce è il punto d'approdo necessario di quel processo di interiore approfondimento, di meditazione sul dolore, che, lungi dal diminuirne la figura, la completa, dando un significato etico e religioso alla monumentalità un po' schematica della sua presentazione iniziale. Anche il superbo Farinata testimonia la grandezza di Dio. Il Poeta, che lo ha innalzato su un piedistallo di gloria, lo ha portato a riconoscere la vanità della sua come di tutte le glorie umane, ove non siano illuminate dai valori che trascendono l'umano metro di giudizio.
106 Però comprender puoi che tutta morta
fia nostra conoscenza da quel punto
che del futuro fia chiusa la porta».
  106

Puoi pertanto capire come la nostra conoscenza sarà del tutto offuscata dal momento in cui (dopo il Giudizio Universale) la porta del futuro si chiuderà."

  Un sottile contrappasso è adombrato nella pena morale che si aggiunge ai tormenti che straziano gli epicurei nelle loro arche infuocate: essi, che in vita non hanno prestato fede che alle cose visibili, presenti davanti ai loro occhi, ora non possono percepire che il futuro, gli eventi che infallibilmente si preparano nella prescienza di Dio.
109 Allor, come di mia colpa compunto,
dissi: «Or direte dunque a quel caduto
che 'l suo nato è co' vivi ancor congiunto;
  109 Allora, come punto dal rimorso per una colpa da me compiuta, parlai: "Ora direte dunque all’ombra che è ricaduta (nel sepolcro) che suo figlio è ancora unito ai vivi;
112 e s'i' fui, dianzi, a la risposta muto,
fate i saper che 'l fei perché pensava
già ne l'error che m'avete soluto».
  112 e riferitele che, se poc’anzi tacqui invece di risponderle, lo feci perché già stavo pensando al dubbio che mi avete chiarito".
115 E già 'l maestro mio mi richiamava;
per ch'i' pregai lo spirto più avaccio
che mi dicesse chi con lu' istava.
  115 Ormai Virgilio mi stava richiamando; perciò con maggior sollecitudine pregai Farinata che mi facesse i nomi dei suoi compagni di pena.
118 Dissemi: «Qui con più di mille giaccio:
qua dentro è 'l secondo Federico
e 'l Cardinale; e de li altri mi taccio».
  118 Mi disse: "In questa parte del cerchio giaccio con moltissimi altri: qui dentro ci sono Federico Il, e il Cardinale; e taccio dei rimanenti".
  Su Federico Il di Svevia, vissuto e morto in fama di eretico (anche Dante, che pur mostra di stimarlo, avvalla nel Convivio questa opinione), uno storico dell'epoca scrisse che era epicureo e che poneva ogni sforzo nel cercare di dimostrare, servendosi di passi della Sacra Scrittura, che l'anima è mortale.

Il Cardinale è il vescovo ghibellino di Bologna, Ottaviano degli Ubaldini, morto nel 1273.

Gli antichi commentatori sottolineano concordi la sua miscredenza. A proposito dell'anima sosteneva, riferisce il Lana , che, seppure esiste, egli l'aveva perduta per essersi fatto ghibellino.
121 Indi s'ascose; e io inver' l'antico
poeta volsi i passi, ripensando
a quel parlar che mi parea nemico.
  121 Poi si nascose (nel sepolcro); ed io mi diressi verso Virgilio, riandando col pensiero a quella profezia che mi sembrava ostile.
124 Elli si mosse; e poi, così andando,
mi disse: «Perché se' tu sì smarrito?».
E io li sodisfeci al suo dimando.
  124 Egli s’incamminò; e poi, mentre procedevamo, mi chìese: "Perché sei così turbato?" E io risposi alla sua domanda.
127 «La mente tua conservi quel ch'udito
hai contra te», mi comandò quel saggio;
«e ora attendi qui», e drizzò 'l dito:
  127 "La tua memoria serbi ciò che di ostile ti è stato predetto" mi ingiunse Virgilio. "Ed ora fa attenzione a queste parole" ed alzò l’indice:
130 «quando sarai dinanzi al dolce raggio
di quella il cui bell' occhio tutto vede,
da lei saprai di tua vita il vïaggio».
  130 "quando ti troverai in presenza della soave luce che si sprigiona da colei (Beatrice) che vede tutte le cose, apprenderai da lei il corso della tua vita."
133 Appresso mosse a man sinistra il piede:
lasciammo il muro e gimmo inver' lo mezzo
per un sentier ch'a una valle fiede,
  133 Poi si diresse verso sinìstra: ci allontanammo dal muro e procedemmo, verso la parte centrale del cerchio seguendo un sentiero che terminava in un baratro
136 che 'nfin là sù facea spiacer suo lezzo.   136 il quale faceva giungere fin lassù il suo puzzo nauseabondo.

 

© 2009 - Luigi De Bellis