1 |
Ora sen va
per un secreto calle,
tra 'l muro de la terra e li martìri,
lo mio maestro, e io dopo le spalle. |
|
1 |
Ora il mio maestro avanza per uno stretto sentiero, tra
il muro che cinge la città e i sepolcri roventi, e io lo
seguo. |
4 |
«O virtù
somma, che per li empi giri
mi volvi», cominciai, «com' a te piace,
parlami, e sodisfammi a' miei disiri. |
|
4 |
"O virtù eccelsa
(Virgilio), che mi conduci, come tu vuoi, attraverso i
cerchi degli empi" presi a dire, "parla ed esaudisci il
mio desiderio. |
7 |
La gente che
per li sepolcri giace
potrebbesi veder? già son levati
tutt' i coperchi, e nessun guardia face». |
|
7 |
Sarebbe possibile vedere i
peccatori che giacciono dentro le tombe? tutti i
coperchi, infatti, sono sollevati, e nessuno fa ad essi
la guardia." |
|
La scenografia dei primi cerchi infernali si ispira ai
grandi fenomeni naturali della terra: l'unico elemento
che distingue la bufera che mai non resta dei lussuriosi
o la pioggia maledetta del terzo cerchio da una bufera o
da una pioggia reali, è la loro durata infinita. Dio si
manifesta appunto attraverso questo carattere di
eternità impresso a forme e movimenti altrimenti
pienamente verosimili, in virtù della loro naturalezza,
anche agli occhi di chi non riesca a vedere nella natura
nulla che la trascenda. La stessa osservazione può
ripetersi per la giostra degli avari e prodighi, che
viene espressamente riallacciata dal Poeta a un
particolare, l'urto delle onde di due mari nello stretto
di Messina, e che, indipendentemente da questo
accostamento, ha, del fenomeno naturale, la rigorosa
periodicità e monotonia.
Ad accrescere l'orrore di questi spettacoli - orrore
immediato e quasi fisico, non ancora pervaso nel
profondo da quella problematica religiosa e morale che
troverà le sue soluzioni più ricche soltanto in un
secondo tempo - contribuisce il commento di grida e
invocazioni con cui i dannati manifestano la
sopravvivenza in loro di un barlume di libertà
spirituale: la libertà del dolore, del rifiuto, della
bestemmia.
Ma nel quinto cerchio la sofferenza delle fangose genti
è muta: gli iracondi si troncano a brano a brano senza
che Dante accenni ad un solo lamento da loro emesso. Il
dramma allegorico, che prelude all'arrivo del messo
celeste e che non è già più traducibile in termini
"naturali" con la stessa facilità con cui lo erano gli
spettacoli dei cerchi superiori, si svolge anch'esso in
uno spazio che, per essere vuoto di suoni, si
arricchisce di risonanze spirituali e parla direttamente
all'anima. Il paesaggio del cerchio degli eretici,
desolato nella sua quasi assoluta orizzontalità e
cosparso di avelli aperti, sembra esso pure immerso nel
silenzio, nonostante il cenno ai duri lamenti di questi
peccatori (Inferno IX, 122 ).
Ma anche qui il silenzio non è se non la condizione in
cui meglio si ascolta la voce di Dio. La campagna
cosparsa di tombe evoca uno scenario da Giudizio
Universale. Anche il particolare, solo in apparenza
secondario, del sentiero angusto che egli deve
percorrere dietro la sua guida, accentua il senso di
solitudine e lo sbigottimento del Poeta. Da tale stato
d'animo nascono gli appellativi, ora solenni ora
affettuosi, con cui Dante si rivolge in quest'apertura
di canto a Virgilio, e tutto il tono sospeso delle sue
parole. |
10 |
E quelli a
me: «Tutti saran serrati
quando di Iosafàt qui torneranno
coi corpi che là sù hanno lasciati. |
|
10 |
E Virgilio: "Tutte le
tombe saranno chiuse quando (nel giorno del Giudizio
Universale) le anime torneranno qui dalla valle di
Giosafàt insieme ai corpi che hanno lasciato in terra. |
13 |
Suo cimitero
da questa parte hanno
con Epicuro tutti suoi seguaci,
che l'anima col corpo morta fanno. |
|
13 |
In questa zona del cerchio hanno il loro luogo di
sepoltura Epicuro e i suoi adepti, i quali credono che
l’anima muoia insieme al corpo. |
|
Il filosofo greco Epicuro (341-270 a. C.) aveva negato
la sopravvivenza dell'anima al corpo, opinione questa,
come scrisse Dante nel Convivio ( Il, VIII, 8), "intra
tutte le bestialitadi... stoltissima, vilissima e
dannosissima". Le sue teorie erano conosciute nel
Medioevo soltanto indirettamente, attraverso gli
scrittori latini, e in modo incompleto; per tale motivo
poterono essere qualificati "epicurei" tutti coloro che
si mostravano indifferenti in materia religiosa. In
particolare i Ghibellini vennero spesso designati come
epicurei. |
16 |
Però a la
dimanda che mi faci
quinc' entro satisfatto sarà tosto,
e al disio ancor che tu mi taci». |
|
16 |
Perciò ben presto dentro
questo stesso cerchio sarà data soddisfazione alla
domanda che mi fai, e anche al desiderio che mi
nascondi". |
19 |
E io: «Buon
duca, non tegno riposto
a te mio cuor se non per dicer poco,
e tu m'hai non pur mo a ciò disposto». |
|
19 |
E io: "Mia
buona guida, io non ti tengo celato il mio animo se non
per parlare poco, e tu stesso mi hai indotto a ciò non
soltanto ora". |
22 |
«O Tosco che
per la città del foco
vivo ten vai così parlando onesto,
piacciati di restare in questo loco. |
|
22 |
"O Toscano che ancora in vita percorri la città
infuocata parlando in modo così decoroso, abbi la
compiacenza di fermarti qui. |
25 |
La tua
loquela ti fa manifesto
di quella nobil patrïa natio,
a la qual forse fui troppo molesto». |
|
25 |
Il tuo modo di parlare rivela che sei nato in quella
nobile terra alla quale forse arrecai troppo danno." |
|
Il dannato che rivolge queste parole a Dante è Manente,
detto Farinata, degli Uberti. Nato a Firenze all'inizio
del secolo XIII, fu dal 1239 capo del partito ghibellino
e come tale ebbe un ruolo di primo piano nel determinare
la cacciata dei Guelfi dalla città nel 1248. Tornati
questi nel 1251, dovette, a sua volta, allontanarsi da
Firenze insieme ai suoi seguaci. Trovò rifugio a Siena,
dove preparò la controffensiva contro il partito
avverso. I Guelfi fiorentini subirono nel 1260 una
sanguinosa disfatta a Montaperti ad opera dei fuorusciti
ghibellini e dei Senesi comandati appunto da Farinata,
Rientrato in patria, vi mori nel 1264. Dopo la sua
morte, e in seguito alla definitiva disfatta del partito
ghibellino in Italia, gli Uberti furono messi al bando
da Firenze e le loro case rase al suolo. Farinata, dopo
la sua morte, fu processato per eresia.
Nel Farinata dantesco i romantici videro soprattutto
l'eroe tutto d'un pezzo, il prodotto di un'epoca ancora
barbarica, quasi un "superuomo" del Medioevo. In realtà
il suo carattere è assai più sfumato, contraddittorio e
umano; proprio in questa umanità è la sua grandezza.
Bene osserva il Romani, a proposito di queste prime
parole rivolte a Dante: "Nel violento impulso di affetto
verso la sua patria, e nel subitaneo crescere e
innalzarsi dell'immagine di lei, Farinata intravede,
forse per la prima volta, di non averla in vita amata
abbastanza, anzi di averle indegnamente recato offesa;
e, in quell'impeto d'amore, l'anima s'apre alla
sincerità, e confessa nobilmente la sua colpa". |
28 |
Subitamente
questo suono uscìo
d'una de l'arche; però m'accostai,
temendo, un poco più al duca mio. |
|
28 |
Questa voce si levò
all’improvviso da uno dei sepolcri; mi avvicinai,
intimorito, un po più a Virgilio. |
31 |
Ed el mi
disse: «Volgiti! Che fai?
Vedi là Farinata che s'è dritto:
da la cintola in sù tutto 'l vedrai». |
|
31 |
Ed egli mi disse:
"Voltati: che cosa fai? Ecco là Farinata che si è
levato: lo vedrai interamente dalla cintola in su ". |
|
Dalla cintola in su tutto 'I
vedrai: il De Sanctis interpretava questo
verso in senso morale, come un equivalente di: "lo
vedrai in tutta la sua grandezza".
Il Barbi ha voluto invalidare questa esegesi, mostrando
come espressioni del tipo "dalla cintola in su" e "dalla
cintola in giù", accompagnate a volte anche dalla
specificazione "tutto", fossero comuni ai tempi di
Dante, per designare "la parte superiore o inferiore del
corpo". Ma uno dei pregi più rilevanti dell'arte del
Poeta sta appunto nel saper conferire un significato
nuovo, più ricco e profondo, ad espressioni che in nulla
sembrano scostarsi dal parlare comune. |
34 |
Io avea già
il mio viso nel suo fitto;
ed el s'ergea col petto e con la fronte
com' avesse l'inferno a gran dispitto. |
|
34 |
Io avevo già fissato il mio sguardo nel
suo; ed egli stava eretto con il petto e con la fronte
quasi avesse l’inferno in grande disprezzo. |
|
La rappresentazione di Farinata che si erge solitario e
immobile in mezzo alla pianura del dolore, ha ispirato
le più suggestive pagine del saggio del De Sanctis;
questi, peraltro, non si è soffermato abbastanza su
quanto di complesso e di tormentato c'è nella figura di
questo eroe, vincitore in terra, ma definitivamente
perdente agli occhi di Chi lo ha giudicato per
l'eternità. Scrive il De Sanctis, a proposito
dell'"ergersi" di Farinata, che questo verbo "è sublime
non per il suo significato diretto, ma come segno ed
espressione d'una grandezza tanto maggiore quanto meno
misurabile, dell'ergersi, dell'innalzarsi dell'anima di
Farinata sopra tutto l'inferno..." |
37 |
E l'animose
man del duca e pronte
mi pinser tra le sepulture a lui,
dicendo: «Le parole tue sien conte». |
|
37 |
E le mani incoraggianti e
sollecite ti Virgilio mi sospinsero fra le tombe verso
quel dannato, con questa esortazione: "Le tue parole
siano misurate". |
40 |
Com' io al
piè de la sua tomba fui,
guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,
mi dimandò: «Chi fuor li maggior tui?». |
|
40 |
Non appena fui ai piedi
della sua tomba, mi osservò un poco, e poi, quasi
sprezzante, mi chiese: "Chi furono i tuoi antenati?" |
|
C'è un grande divario fra il tono appassionato, affabile
e nobilmente ornato della preghiera che Farinata ha poc'anzi
rivolto a Dante e il tono brusco e imperioso con cui gli
pone la domanda circa i suoi antenati. Ma, come ha
giustamente notato il Sansone, "lì Farinata parlava a
quell'ignoto concittadino, a colui che gli rimenava alla
memoria la sua terra, nell'inferno, li dov'è una
distanza immensa ed implacabile da ogni cosa terrena.
Qui si rivolge a un solo determinato Fiorentino, e sta
guardingo come se preavvertisse il nemico". |
43 |
Io ch'era d'ubidir
disideroso,
non gliel celai, ma tutto gliel' apersi;
ond' ei levò le ciglia un poco in suso; |
|
43 |
Io, che desideravo
obbedire, non glieli nascosi, ma tutti glieli indicai;
per cui egli sollevò un poco le ciglia, |
46 |
poi disse:
«Fieramente furo avversi
a me e a miei primi e a mia parte,
sì che per due fïate li dispersi». |
|
46 |
poi disse: "Furono
acerrimi nemici miei e dei miei avi e del mio partito,
tanto che per due volte li debellai". |
|
Farinata bandi due volte da Firenze i Guelfi (nel 1248 e
nel 1260), ma dispersi suggerisce l'idea di una
sconfitta in battaglia (il che, se può essere vero per
la cacciata dei Guelfi nel 1260, in seguito allo scontro
di Montaperti, non lo è certo per quella del 1248).
Scrive il Romani, sempre in merito al tono che assume
questo termine guerresco nelle parole del Ghibellino:
"Farinata non dice: In conseguenza della loro inimicizia
li combattei; ma semplicemente li dispersi: per lui il
combattere i suoi nemici e il disperderli sono una cosa
sola; egli non conosce battaglia senza vittoria". |
49 |
«S'ei fur
cacciati, ei tornar d'ogne parte»,
rispuos' io lui, «l'una e l'altra fïata;
ma i vostri non appreser ben quell' arte». |
|
49 |
"Se furono mandati in esilio, tornarono
da ogni luogo" gli risposi "sia la prima che la seconda
volta; ma i vostri non impararono bene l’arte del
ritornare". |
|
Dante rettifica l'espressione con cui Farinata ha
accennato alla messa al bando degli Alighieri: essi non
furono dispersi, ma soltanto cacciati, mandati in
esilio. Poi, da vero uomo di parte che si trova a dover
difendere l'onore politico della propria famiglia e
l'integrità delle tradizioni domestiche, "gli ritorna
quel plurale [due fiate] distinto in due singolari
[l'una e l'altra fata]; due colpi, l'uno appresso
all'altro; e niente pareggia il sarcasmo dell'ultimo
verso [ma i vostri non appreser ben quell'arte] " ( De
Sanctis). |
52 |
Allor surse
a la vista scoperchiata
un'ombra, lungo questa, infino al mento:
credo che s'era in ginocchie levata. |
|
52 |
A questo
punto si levò dall’apertura scoperchiata un’ombra
accanto a quella di Farinata, visibile dal mento in su:
penso si fosse alzata sulle ginocchia. |
|
L'ombra che interrompe, nel punto della sua più alta
tensione, il dialogo tra Farinata e Dante è quella di
Cavalcante dei Cavalcanti, padre del poeta Guido, il
migliore amico di Dante, che gli dedicò la sua opera
giovanile, la Vita Nova. Cavalcante ebbe in vita fama di
miscredente: in particolare, non avrebbe creduto
all'immortalità dell'anima. Guelfo, dette il suo
consenso al fidanzamento del figlio Guido con Beatrice,
figlia di Farinata, allorché nel 1267 le due opposte
fazioni tentarono una riconciliazione.
La figura di Cavalcante è l'antitesi di quella di
Farinata. La grandezza del capo ghibellino deriva,
infatti, dalla forza con cui egli riesce a dominare il
dolore per la definitiva sconfitta dei suoi, la pena
segreta del suo fallimento umano (identificando patria e
partito, ha creduto di agire per il bene della patria,
mentre non ha fatto altro che opporsi ad essa in nome di
una fazione), e tale forza si riflette nel suo
atteggiamento statuario. Cavalcante, di fronte a questa
statua, è un'ombra, e delle ombre ha la fuggevole
inconsistenza. Come ha notato l'Agliana: "La figura di
Cavalcante sembra dominata dal dubbio sin dal suo primo
apparire. Una condizione d'incertezza è nella sua
positura fisica, nello sguardo che egli rivolge intorno,
nella domanda che pone a Dante". |
55 |
Dintorno mi
guardò, come talento
avesse di veder s'altri era meco;
e poi che 'l sospecciar fu tutto spento, |
|
55 |
Guardò intorno a me, come
se avesse desiderio di vedere se con me c’era qualcun
altro; e dopo che ebbe finito di dubitare, |
58 |
piangendo
disse: «Se per questo cieco
carcere vai per altezza d'ingegno,
mio figlio ov' è? e perché non è teco?». |
|
58 |
tra le lagrime disse: "Se
il tuo alto ingegno ti consente di attraversare la buia
prigione infernale, dov’è mio figlio? perché non è con
te?". |
|
L'ateo Cavalcante crede bastino, per visitare il regno
dei morti, le sole forze umane (altezza d'ingegno);
ignora la dimensione della Grazia. Perché suo figlio
Guido, anch'egli, come l'amico Dante, cultore di studi
filosofici, non è con lui in questo viaggio? Guido
Cavalcanti, più giovane di qualche anno di Dante, fu con
l'Alighieri il più cospicuo rappresentante della scuola
poetica del dolce stil novo. Come studioso di filosofia
egli si interessò soprattutto al pensiero dell'arabo
Averroè. Guelfo bianco, fu esiliato dai Priori, tra i
quali era anche Dante, nel giugno del 1300, a Sarzana.
Mori due mesi dopo. |
61 |
E io a lui:
«Da me stesso non vegno:
colui ch'attende là, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno». |
|
61 |
Ed io: "Non giungo per mio merito:
Virgilio, che là mi aspetta, attraverso questo luogo mi
conduce, se riuscirà a seguirlo, fino a colei (Beatrice,
simbolo della fede) che il vostro Guido ebbe in
dispregio". |
|
Forse cui Guido vostro ebbe a
disdegno: è uno degli endecasillabi più
controversi dell'intero poema. L opinione oggi
prevalente è che in esso Dante contrapponga, al proprio
interesse per la teologia (simboleggiata nella Commedia
da Beatrice), il disprezzo manifestato per questi studi
dall'eretico ( e forse ateo) Guido, seguace in ciò del
padre. Ecco dunque la ragione per la quale il figlio di
Cavalcante non ha potuto intraprendere anche lui il
viaggio nel regno dei morti; questo viaggio non è opera
di una volontà e di una intelligenza umane; esso è stato
voluto in cielo; chi lo compie ha la fede. |
64 |
Le sue
parole e 'l modo de la pena
m'avean di costui già letto il nome;
però fu la risposta così piena. |
|
64 |
Le sue parole e la qualità
del supplizio mi avevano già palesato il nome di questo
peccatore; perciò la mia risposta fu tanto esauriente. |
67 |
Di sùbito
drizzato gridò: «Come?
dicesti "elli ebbe"? non viv' elli ancora?
non fiere li occhi suoi lo dolce lume?». |
|
67 |
Alzatosi di scatto in
piedi gridò: "Come hai detto? egli ebbe? non vive più?
la dolce luce non colpisce più i suoi occhi?" |
70 |
Quando
s'accorse d'alcuna dimora
ch'io facëa dinanzi a la risposta,
supin ricadde e più non parve fora. |
|
70 |
Quando si avvide di un
certo indugio che io facevo prima di rispondergli, cadde
nuovamente indietro e non si mostrò più fuori. |
|
E' bastato un verbo riferito al passato piuttosto che al
presente (ebbe invece di " ha ") perché il padre
angosciato subito pensasse alla morte del suo Guido.
Le tre domande che rivolge a Dante per ottenere un
chiarimento al suo dubbio non trovano risposta
immediata. Non occorre altro perché Cavalcante,
sopraffatto dal dolore, cada come fulminato nella tomba.
Egli ha creduto che il silenzio di Dante significasse:
"Tuo figlio non è più tra i vivi", mentre il Poeta in
realtà, come spiegherà poi a Farinata, era tutto preso
da un altro pensiero: "se Cavalcante ignora che Guido è
ancora in vita, vuol dire che questi dannati non
conoscono il presente, pur conoscendo l'avvenire. Come
può la profezia di Ciacco accordarsi con questa cecità
di Cavalcante nei riguardi degli eventi contemporanei?" |
73 |
Ma quell'
altro magnanimo, a cui posta
restato m'era, non mutò aspetto,
né mosse collo, né piegò sua costa; |
|
73 |
Ma il magnanimo Farinata,
a richiesta del quale mi ero fermato, non cambiò
espressione, né mosse il collo, né chinò il suo fianco; |
76 |
e sé
continüando al primo detto,
«S'elli han quell' arte», disse, «male appresa,
ciò mi tormenta più che questo letto. |
|
76 |
e proseguendo il discorso
di prima, disse: "Se hanno male imparato l’arte del
ritornare, ciò mi procura un dolore più grande di quanto
non faccia la tomba in cui sto a giacere. |
|
Farinata rimane insensibile allo strazio di Cavalcante
perché - come osserva il De Sanctis - "egli non vede e
non ode, perché le parole di Cavalcante giungono al suo
orecchio senza andare sino all'anima, perché la sua
anima è tutta in un pensiero unico, rimastole infisso
come uno strale, l'arte... male appresa, e tutto quello
che avviene fuori di sé, è come non avvenuto per lei".
Ma nell'intermezzo, in cui è racchiuso tutto il dramma
umanissimo di questo morto che, soggetto ai supplizi
infernali, ad altro non pensa che alla sorte del figlio
rimasto sulla terra, l'atteggiamento di Farinata si è
approfondito, si è fatto più intimo e raccolto: abbiamo
lasciato l'uomo di parte per ritrovare solo l'uomo. Un
nuovo dolore si è aggiunto a quelle pene infernali che
egli ostentava poco fa di tenere in nessun conto: il
dolore per l'arte... male appresa. Il superbo Farinata
non ha riguardo adesso di confessare la sua sofferenza
"con un verso fatto sublime dalla terribile antitesi di
due strazi ugualmente sconfinati: ciò mi tormenta più
che questo letto" (Parodi). |
79 |
Ma non
cinquanta volte fia raccesa
la faccia de la donna che qui regge,
che tu saprai quanto quell' arte pesa. |
|
79 |
Ma il volto della donna che qui governa
non si riaccenderà nemmeno cinquanta volte, che tu
stesso apprenderai quanto sia dura l’arte di ritornare
in patria. |
|
L'esilio che qui Farinata predice a Dante è menzionato
indirettamente, nello stile oscuro delle profezie.
Richiamandosi alla mitologia, il Poeta definisce la luna
signora dell'inferno: essa infatti veniva spesso
identificata dagli antichi con Proserpina, moglie di
Plutone, re dell'Ade. Il senso delle parole di Farinata
è questo: " non trascorreranno nemmeno cinquanta mesi
lunari da ora fino al momento in cui dovrai rassegnarti
alla tua condizione di esule " (dall'aprile 1300, anno
in cui avviene l'immaginario viaggio, al giugno 1304,
quando Dante si staccò dai Bianchi, insieme ai quali
aveva fino allora tentato di rientrare in Firenze).
Ancora il Parodi analizza con grande finezza, in
rapporto alla profezia contenuta in questa terzina, il
progressivo umanizzarsi della figura di Farinata:
"mentre nell'annunziare a Dante la sua prossima sventura
dovrebbe provare una soddisfazione o quasi un sollievo,
è costretto a riconoscere che il dolore purtroppo non
risparmia nessuno, onde il colloquio viene ad assumere
un tono sempre più pacato". |
82 |
E se tu mai
nel dolce mondo regge,
dimmi: perché quel popolo è sì empio
incontr' a' miei in ciascuna sua legge?». |
|
82 |
E voglia il cielo che tu
possa ritornare nel mondo dei vivi, dimmi (per questo
augurio che ti faccio): perché il popolo fiorentino è
così spietato in ogni sua legge contro quelli della mia
famiglia?" |
85 |
Ond' io a
lui: «Lo strazio e 'l grande scempio
che fece l'Arbia colorata in rosso,
tal orazion fa far nel nostro tempio». |
|
85 |
Gli risposi: "La
crudelissima strage che tinse del colore del sangue il
fiume Arbia, fa prendere tali decisioni nelle nostre
assemblee". |
|
L'Arbia è il fiume che scorre presso Montaperti. In uno
scritto dell'epoca è detto che nel giorno della
battaglia, tutte le strade, e poggi e ogni rigo d'acqua
pareva un grosso fiume di sangue.
Tali orazion la lar nel nostro
tempio: non è da credere che nelle chiese di
Firenze, come hanno sostenuto alcuni, si tenessero
suppliche di deprecazione contro i discendenti di
Farinata. Tutta l'espressione ha un senso traslato, che
tuttavia "aggiunge qualcosa al nudo senso letterale,
trasfigurandolo: dà la rappresentazione concreta
dell'avversione generale diffusa nel popolo contro gli
Uberti" (Malagoli). |
88 |
Poi ch'ebbe
sospirando il capo mosso,
«A ciò non fu' io sol», disse, «né certo
sanza cagion con li altri sarei mosso. |
|
88 |
Dopo aver sospirato e
scosso la testa, disse: "Non fui io solo a provocare
questa strage né certamente senza un motivo mi sarei
mosso insieme agli altri esuli. |
91 |
Ma fu' io
solo, là dove sofferto
fu per ciascun di tòrre via Fiorenza,
colui che la difesi a viso aperto». |
|
91 |
Ma fui io solo, là dove fu
da tutti tollerato che Firenze venisse rasa al suolo,
colui che la difesi apertamente" |
|
Come tutti
i dannati, anche Farinata, inappellabilmente giudicato
agli occhi di Dio. cerca di addurre ragioni umane per
giustificare il proprio operato di fronte a Dante (a ciò
non fu' io sol... né certe sanza cagion ... ). Ma tutte
queste giustìficazioni passano in seconda linea di
fronte a quello che costituisce il maggior titolo di
Farinata alla riconoscenza dei posteri: l'aver perorato
senza infingimenti la causa della sua città allorché,
nel convegno di Empoli, subito dopo la vittoria di
Montaperti, tutti i Ghibeilini toscani ne decretarono la
distruzione. Fu proprio per l'opposizione di Farinata
che questo spietato provvedimento fu alla fine respinto.
Anche uno storico guelfo come Giovanni Villani ha parole
di elogio per l'atteggiamento preso in quell'occasione
da Farinata. che non esita a paragonare al "buonoantico
Cammillo di Roma" (VI, 81). |
94 |
«Deh, se
riposi mai vostra semenza»,
prega' io lui, «solvetemi quel nodo
che qui ha 'nviluppata mia sentenza. |
|
94 |
"Deh, possa aver pace un
giorno la vostra discendenza" lo pregai, "scioglietemi
(in nome di questo augurio) quel dubbio che in questo
cerchio ha confuso le mie idee. |
97 |
El par che
voi veggiate, se ben odo,
dinanzi quel che 'l tempo seco adduce,
e nel presente tenete altro modo». |
|
97 |
Sembra che
voi prevediate, se intendo bene, quello che il tempo
porta con sé (il futuro), ma per il presente vi trovate
in una condizione diversa." |
100 |
«Noi veggiam,
come quei c'ha mala luce,
le cose», disse, «che ne son lontano;
cotanto ancor ne splende il sommo duce. |
|
100 |
"Noi vediamo"
disse "come colui che ha la vista difettosa, le cose che
sono da noi lontane; di tanto ancora ci illumina Dio. |
103 |
Quando
s'appressano o son, tutto è vano
nostro intelletto; e s'altri non ci apporta,
nulla sapem di vostro stato umano. |
|
103 |
Quando esse si avvicinano
o sono presenti, la nostra mente non ci è di nessun
aiuto; e se qualcun altro non ci porta notizie, non
sappiamo nulla del vostro stato sulla terra. |
|
Quale differenza tra il Farinata che pareva avere
l'inferno in gran dispitto e il Farinata che adesso,
consapevole della sua condizione di dannato, parla con
tanta reverenza di Dio! Questa ultima parte del canto è
stata generalmente giudicata impoetica dai critici, ma a
torto: l'umiltà di Farinata di fronte al sommo duce è il
punto d'approdo necessario di quel processo di interiore
approfondimento, di meditazione sul dolore, che, lungi
dal diminuirne la figura, la completa, dando un
significato etico e religioso alla monumentalità un po'
schematica della sua presentazione iniziale. Anche il
superbo Farinata testimonia la grandezza di Dio. Il
Poeta, che lo ha innalzato su un piedistallo di gloria,
lo ha portato a riconoscere la vanità della sua come di
tutte le glorie umane, ove non siano illuminate dai
valori che trascendono l'umano metro di giudizio. |
106 |
Però
comprender puoi che tutta morta
fia nostra conoscenza da quel punto
che del futuro fia chiusa la porta». |
|
106 |
Puoi pertanto capire come la nostra
conoscenza sarà del tutto offuscata dal momento in cui
(dopo il Giudizio Universale) la porta del futuro si
chiuderà." |
|
Un sottile contrappasso è adombrato nella pena morale
che si aggiunge ai tormenti che straziano gli epicurei
nelle loro arche infuocate: essi, che in vita non hanno
prestato fede che alle cose visibili, presenti davanti
ai loro occhi, ora non possono percepire che il futuro,
gli eventi che infallibilmente si preparano nella
prescienza di Dio. |
109 |
Allor, come
di mia colpa compunto,
dissi: «Or direte dunque a quel caduto
che 'l suo nato è co' vivi ancor congiunto; |
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109 |
Allora, come punto dal
rimorso per una colpa da me compiuta, parlai: "Ora
direte dunque all’ombra che è ricaduta (nel sepolcro)
che suo figlio è ancora unito ai vivi; |
112 |
e s'i' fui,
dianzi, a la risposta muto,
fate i saper che 'l fei perché pensava
già ne l'error che m'avete soluto». |
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112 |
e riferitele che, se
poc’anzi tacqui invece di risponderle, lo feci perché
già stavo pensando al dubbio che mi avete chiarito". |
115 |
E già 'l
maestro mio mi richiamava;
per ch'i' pregai lo spirto più avaccio
che mi dicesse chi con lu' istava. |
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115 |
Ormai Virgilio mi stava
richiamando; perciò con maggior sollecitudine pregai
Farinata che mi facesse i nomi dei suoi compagni di
pena. |
118 |
Dissemi:
«Qui con più di mille giaccio:
qua dentro è 'l secondo Federico
e 'l Cardinale; e de li altri mi taccio». |
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118 |
Mi disse: "In questa parte
del cerchio giaccio con moltissimi altri: qui dentro ci
sono Federico Il, e il Cardinale; e taccio dei
rimanenti". |
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Su Federico Il di Svevia, vissuto e morto in fama di
eretico (anche Dante, che pur mostra di stimarlo,
avvalla nel Convivio questa opinione), uno storico
dell'epoca scrisse che era epicureo e che poneva ogni
sforzo nel cercare di dimostrare, servendosi di passi
della Sacra Scrittura, che l'anima è mortale.
Il Cardinale è il vescovo ghibellino di Bologna,
Ottaviano degli Ubaldini, morto nel 1273.
Gli antichi commentatori sottolineano concordi la sua
miscredenza. A proposito dell'anima sosteneva, riferisce
il Lana , che, seppure esiste, egli l'aveva perduta per
essersi fatto ghibellino. |
121 |
Indi
s'ascose; e io inver' l'antico
poeta volsi i passi, ripensando
a quel parlar che mi parea nemico. |
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121 |
Poi si nascose (nel
sepolcro); ed io mi diressi verso Virgilio, riandando
col pensiero a quella profezia che mi sembrava ostile. |
124 |
Elli si
mosse; e poi, così andando,
mi disse: «Perché se' tu sì smarrito?».
E io li sodisfeci al suo dimando. |
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124 |
Egli s’incamminò; e poi,
mentre procedevamo, mi chìese: "Perché sei così
turbato?" E io risposi alla sua domanda. |
127 |
«La mente
tua conservi quel ch'udito
hai contra te», mi comandò quel saggio;
«e ora attendi qui», e drizzò 'l dito: |
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127 |
"La tua memoria serbi ciò
che di ostile ti è stato predetto" mi ingiunse Virgilio.
"Ed ora fa attenzione a queste parole" ed alzò l’indice: |
130 |
«quando
sarai dinanzi al dolce raggio
di quella il cui bell' occhio tutto vede,
da lei saprai di tua vita il vïaggio». |
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130 |
"quando ti troverai in
presenza della soave luce che si sprigiona da colei
(Beatrice) che vede tutte le cose, apprenderai da lei il
corso della tua vita." |
133 |
Appresso
mosse a man sinistra il piede:
lasciammo il muro e gimmo inver' lo mezzo
per un sentier ch'a una valle fiede, |
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133 |
Poi si diresse verso
sinìstra: ci allontanammo dal muro e procedemmo, verso
la parte centrale del cerchio seguendo un sentiero che
terminava in un baratro |
136 |
che 'nfin là
sù facea spiacer suo lezzo. |
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136 |
il quale faceva giungere
fin lassù il suo puzzo nauseabondo. |