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DIVINA
COMMEDIA: PARAFRASI
INFERNO
CANTO XIV° |
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1 |
Poi che la
carità del natio loco
mi strinse, raunai le fronde sparte
e rende'le a colui, ch'era già fioco. |
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1 |
Poiché l’amore di patria mi riempì di
commozione, raccolsi le fronde disperse, e le restituii
a quell’anima, che ormai era muta. |
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Qui finisce il racconto delle cose vedute nella selva
dei suicidi, cosicché questa terzina si lega idealmente,
per quanto riguarda il contenuto, più che al canto che
inizia, a quello precedente.
Quest'ultimo non poteva tuttavia terminare con una nota
patetica e di raccoglimento (nel verbo strinse sono
presenti le due connotazioni, quella affettuosa e quella
che indica l'intensità, la concentrazione di questo
affetto), senza contraddire il senso intimo del suo
sviluppo. Il tredicesimo canto è infatti il canto
dell'orrore, del paradosso divenuto realtà, del dolore
che non può sfogarsi che per mezzo di un dolore
momentaneamente più vivo (le piante si esprimono
soltanto attraverso le " fenestre " che in esse aprono
le Arpie; Pier delle Vigne è messo nella condizione di
parlare dopo che Dante ha reciso un membro del suo corpo
vegetale), del suicidio che assurge, nelle parole del
fiorentino anonimo, a simbolo della rovina della sua
città. D'altra parte questa terzina iniziale si isola,
sia per l'argomento sia per il tono, anche dal canto di
cui fa parte. Il tema della violenza (Capaneo) le è
estraneo, come le è estraneo quello dell'universale
corruzione da cui si origina il pianto della umanità
peccatrice (Veglio di Creta). Lo Spitzer ha messo in
rilievo il parallelismo tra i due gesti che Dante compie
all'inizio e alla fine dell'episodio dei suicidi: "Dante
fa ammenda al suo atto involontario di aprire ferite,
col suo atto, deliberato e compassionevole, di
ristorarle; l'episodio giunge ad una conclusione con il
suo gesto, che intende placare il turbamento che l'altro
gesto aveva provocato". |
4 |
Indi venimmo
al fine ove si parte
lo secondo giron dal terzo, e dove
si vede di giustizia orribil arte. |
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4 |
Giungemmo quindi al
confine dove il secondo girone si separa dal terzo, e
dove si contempla una spaventosa opera della giustizia. |
7 |
A ben
manifestar le cose nove,
dico che arrivammo ad una landa
che dal suo letto ogne pianta rimove. |
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7 |
Per spiegare bene le cose
qui vedute per la prima volta, dico che arrivammo presso
una pianura che respinge dalla sua superficie ogni forma
di vegetazione. |
10 |
La dolorosa
selva l'è ghirlanda
intorno, come 'l fosso tristo ad essa;
quivi fermammo i passi a randa a randa. |
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10 |
La triste foresta (dei
suicidi) la circonda, come il fiume di sangue circonda
quest’ultima: qui ci arrestammo sul margine. |
13 |
Lo spazzo
era una rena arida e spessa,
non d'altra foggia fatta che colei
che fu da' piè di Caton già soppressa. |
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13 |
Il terreno era una sabbia asciutta e compatta, non
dissimile da quella che fu calpestata un tempo da
Catone. |
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I critici hanno variamente notato l'andamento discorsivo
di questa prima parte del canto. Dante indugia
stranamente qui nella descrizione e nella precisazione.
Come giustamente osserva il Varese, ivi "l'abbondanza
delle pause, delle inflessioni di raccoglimento,
d'indicazione, imprimono sin da principio un senso di
chiarezza, direi di minuziosa logicità: sono punti di
passaggio e d'obbligo, che ci danno tuttavia il segno
della lucidità preoccupata della mente dantesca, nel suo
bisogno di aiutare e non di confondere il lettore".
Per quello che riguarda l'accenno a Catone Uticense,
occorre ricordare che Dante non aveva mai veduto un
deserto. Il riferimento storico (la guerra combattuta in
Libia tra Cesare e i Pompeiani guidati da Catone nel 45
a. C.) serve qui, come nei versi 31 -36, a suggerire per
via indiretta il riferimento reale per uno spettacolo
fantastico. Lo scrupolo della realtà non abbandona mai
Dante; è questo un altro aspetto della serietà del suo
impegno morale e, nello stesso tempo, un elemento
indispensabile alla sua poesia, la quale, quanto più
ritrae l'irreale, tanto più lo convalida attraverso
l'oggettiva fermezza della cosa vista e documentabile.
Il linguaggio, di Dante non è quello del sogno, ma
sempre, anche nel Paradiso, alle soglie
dell'inesprimibile, quello delle distinzioni nette. |
16 |
O vendetta
di Dio, quanto tu dei
esser temuta da ciascun che legge
ciò che fu manifesto a li occhi mei! |
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16 |
O castigo di Dio, quanto
devi essere temuto da chiunque legge ciò che apparve ai
miei occhi! |
19 |
D'anime nude
vidi molte gregge
che piangean tutte assai miseramente,
e parea posta lor diversa legge. |
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19 |
Vidi molte
schiere di dannati indifesi che piangevano tutte con
grande strazio, e appariva imposta a ciascuna una
diversa punizione. |
22 |
Supin giacea
in terra alcuna gente,
alcuna si sedea tutta raccolta,
e altra andava continüamente. |
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22 |
Alcuni (i bestemmiatori) giacevano in terra in posizione
supina; altri (gli usurai) sedevano tutti rannicchiati,
altri ancora (i sodomiti) camminavano senza posa. |
25 |
Quella che
giva 'ntorno era più molta,
e quella men che giacëa al tormento,
ma più al duolo avea la lingua sciolta. |
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25 |
Quelli che camminavano girando intorno erano più
numerosi, mentre quelli che sostenevano il castigo
distesi erano in minor numero, ma più pronti a
manifestare il dolore. |
28 |
Sovra tutto
'l sabbion, d'un cader lento,
piovean di foco dilatate falde,
come di neve in alpe sanza vento. |
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28 |
Sulla distesa dì sabbia,
per tutta la sua ampiezza, scendevano lentamente, larghe
falde di fuoco, come (falde) di neve su una montagna
senza vento. |
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L'idea della pioggia di fuoco è venuta a Dante
probabilmente dalla Bibbia (distruzione di Sodoma,
Genesi XIX, 24). Ma nuovo, e tipicamente dantesco, è
l'accostamento di questa pioggia ignea ad una nevicata.
La precisazione sanza vento suggerisce indirettamente la
lentezza del fenomeno, come rilevava già un antico
commentatore, il Buti: "nevica la neve a falde nell'alpi
quando non è vento; impero che quando è vento, la rompe,
e nevica più minuta". Il verso come di neve in alpe
sanza vento è la rielaborazione di un analogo verso di
Guido Cavalcanti: "e bianca neve scender sanza venti".
Ma, come ha mostrato il Sapegno, mentre nel Cavalcanti
si afferma un gusto decorativo "da gotico fiorito",
gusto che si manifesta attraverso una specificazione
elegante, ma non necessaria, "bianca", in Dante tutto è
ridotto all'essenziale, messo in rapporto con lo
spettacolo innaturale che intende presentarci. Dove,
come nell'inferno, la natura contraddice se stessa,
anche l'arte deve saper trovare i mezzi per esprimere
questa contraddizione.
La forza dell'immagine contenuta in questa terzina nasce
dall'accostamento immediato, senza mezzi toni
interposti, di due termini (foco, neve) che nella nostra
comune percezione si escludono reciprocamente. |
31 |
Quali
Alessandro in quelle parti calde
d'Indïa vide sopra 'l süo stuolo
fiamme cadere infino a terra salde, |
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31 |
Come le fiamme che nelle
calde regioni dell’India Alessandro vide cadere compatte
fino a terra sul suo esercito, |
34 |
per ch'ei
provide a scalpitar lo suolo
con le sue schiere, acciò che lo vapore
mei si stingueva mentre ch'era solo: |
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34 |
e perciò fece calpestare
il terreno dalle schiere, perché il fuoco si spegneva
meglio, finché era isolato, |
37 |
tale
scendeva l'etternale ardore;
onde la rena s'accendea, com' esca
sotto focile, a doppiar lo dolore. |
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37 |
allo stesso modo, scendeva
il fuoco eterno; e perciò la sabbia si infiammava, come
materia infiammabile sotto l’acciarino, per raddoppiare
la sofferenza. |
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Dante attinge le notizie riguardanti Alessandro Magno ad
un passo del trattato sulle meteore di Sant'Alberto
Magno, ma in questo passo appaiono fusi insieme due
eventi descritti separatamente in una lettera attribuita
ad Alessandro e diretta ad Aristotile: una abbondante
nevicata, dopo la quale il re macedone ordinò ai suoi
soldati di calpestare il suolo, e una pioggia di fuoco
dalla quale si ripararono opponendo ad essa i loro
indumenti. |
40 |
Sanza riposo
mai era la tresca
de le misere mani, or quindi or quinci
escotendo da sé l'arsura fresca. |
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40 |
Il movimento frenetico delle misere
mani era incessante, nello scostare dai corpi il fuoco
appena caduto. |
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La tresca è, secondo la definizione del Buti, un "ballo
saltereccio, ove sia grande e veloce movimento e di
molti, inviluppato". Qui il termine è usato in senso
figurato come l'analogo riddi del settimo canto (verso
24). Soltanto che mentre là riddi acquistava rilievo
dallo stile volutamente " aspro " del brano in cui era
inserito (lo preparava un crescendo di rime
intenzionalmente disarmoniche) ed esprimeva un
atteggiamento di sarcastica condanna, qui tresca,
immesso in un contesto rispondente ad altre esigenze
stilistiche, implica soprattutto un sentimento di
commiserazione e di stupito orrore. |
43 |
I'
cominciai: «Maestro, tu che vinci
tutte le cose, fuor che ' demon duri
ch'a l'intrar de la porta incontra uscinci, |
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43 |
Cominciai a parlare:
"Maestro, tu che superi ogni difficoltà, tranne i
diavoli ostinati che ci uscirono incontro mentre stavamo
per entrare attraverso la porta (di Dite), |
46 |
chi è quel
grande che non par che curi
lo 'ncendio e giace dispettoso e torto,
sì che la pioggia non par che 'l marturi?». |
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46 |
chi è quel grande che non
sembra tenere in considerazione le fiamme e giace
sprezzante e torvo, in modo che la pioggia (di fuoco)
non sembra fiaccarlo?" |
49 |
E quel
medesmo, che si fu accorto
ch'io domandava il mio duca di lui,
gridò: «Qual io fui vivo, tal son morto. |
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49 |
E quello stesso accortosi
che chiedevo di lui a Virgilio, gridò: "Come fui da vìvo,
così sono da morto. |
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Chi parla è Capaneo, uno dei sette re che assediarono
Tebe. Già nella Tebaide di Stazio (III, 602, 605, 661)
appare come empio e disprezzatore degli dei. Il poeta
latino narra che, dopo essere salito sulle mura di Tebe,
osò sfidare Bacco ed Ercole, protettori della città, e
infine lo stesso Giove, che, sdegnato, lo fulminò
(Tebaide X, 845 sgg.).
Il par, due volte ripetuto in questa terzina (versi 46 e
48), è stato addotto da alcuni critici a conferma
dell'interpretazione secondo la quale il tratto che
contraddistinguerebbe il personaggio di Capaneo sarebbe
la vanagloria; par starebbe così ad indicare una
contraddizione tra apparenza e realtà, ostentazione di
forza e intima debolezza. In realtà, come altrove in
Dante, il termine ha qui soltanto il significato di "
essere manifesto ", "essere visibile ". Del resto, la
presentazione della figura di Farinata avviene in modo
analogo: com'avesse l'inferno in gran dispitto.
La tesi che vede in Capaneo un personaggio privo di
forza morale, compiaciuto di sé e vacuo, avanzata dal De
Sanctis, è stata ripresa recentemente, tra gli altri,
dall'Apollonio, che riduce il mitico bestemmiatore alla
statura di un eroe da melodramma: "Intona il suo pezzo
canoro, al primo pretesto che gli si presenta: dipana il
suo dire senza sosta, in una unica cadenza di parola e
di canto, d'un fiato... quando il periodo oratorio,
metrico e musicale è al suo culmine, all'acuto, e
accompagnato dal gesto mimico contratto con cui il
protagonista istituisce da solo la battaglia contro
l'antagonista invisibile, chiude con un riso di scherno
proclamandosi da sé vittorioso: non ne potrebbe aver
vendetta allegra". Per altri (Scherillo) Capaneo sarebbe
la "personificazione della forza materiale".
Più nel giusto appare il Croce, allorché avverte in
questa figura "una forza che è qualcosa di più che forza
fisica e materiale, è ancora energia spirituale,
volontà, ma volontà rabbiosa, indomita e ostinata, che,
appunto perché tale, inclina in qualche modo verso la
forza materiale e irrazíonale. Dante lo chiama grande, e
non solo per la prestanza della persona; e nella
risposta di lui: qual io fui vivo, tal son morto, si
sente l'ammirazione, che non è abolita ed è solo
repressa dal rimbrotto morale-religioso, messo in bocca
a Virgilio".
Né meno esatta è la seguente osservazione del Varese: "Capaneo
permane nella sua situazione umana, nel suo peccato, che
era in lui la ribellione, come Francesca nel suo amore
colpevole, nel momento stesso del peccato. Di questo
atteggiamento... Capaneo ha coscienza, unico forse fra
tutti i dannati, appunto perché il suo stesso peccato
consiste in questa coscienza, ed è, in questo senso,
esemplare". |
52 |
Se Giove
stanchi 'l suo fabbro da cui
crucciato prese la folgore aguta
onde l'ultimo dì percosso fui; |
|
52 |
Anche se Giove facesse
lavorare fino all’esaurimento delle forze il suo fabbro
(Vulcano) dal quale adirato prese il fulmine acuminato
con cui mi colpì nell’ultimo giorno della mia vita; |
55 |
o s'elli
stanchi li altri a muta a muta
in Mongibello a la focina negra,
chiamando "Buon Vulcano, aiuta, aiuta!", |
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55 |
anche se facesse stancare
gli altri (i Ciclopi), un gruppo dopo l’altro, nella
nera fucina dentro l’Etna, invocando: "Esperto Vulcano.
Aiuto, aiuto!", |
58 |
sì com' el
fece a la pugna di Flegra,
e me saetti con tutta sua forza:
non ne potrebbe aver vendetta allegra». |
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58 |
così come fece durante la
battaglia di Flegra (combattuta tra i giganti che
tentavano di scalare l’Olimpo e gli dei), e mi
fulminasse con tutta la sua forza, non potrebbe gioire
della sua vendetta". |
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Nel discorso di Capaneo, l'accavallarsi tumultuoso delle
subordinate e degli incisi, se dà l'impressione di una
forza immane e quasi gioiosamente scatenata, che non
conosce limiti, si svolge in realtà per nessi
rigorosissimi ed esprime un forte potere di sintesi e
organizzazione logica. Nel suo tono beffardo non c'è
traccia di quella fiacchezza morale che alcuni hanno
voluto vedervi. Così giustamente osserva il Varese:
"L'ampiezza del periodo serve questa volta alla
concentrazione e a mettere in evidenza, nello sfondo di
questa scena agitata e goffa, la immobilità tetragona di
Capaneo..." La contrapposizione fra il gruppo delle
prime due condizionali (se Giove... o s'elli ... ) e la
terza (e me saetti) è l'espressione sintattica della
irriducibilità di questo grande, che oppone se stesso
inerme a suo onnipotente antagonista. |
61 |
Allora il
duca mio parlò di forza
tanto, ch'i' non l'avea sì forte udito:
«O Capaneo, in ciò che non s'ammorza |
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61 |
Allora Virgilio parlò con
tanta veemenza, come non lo avevo udito mai fino allora:
"O Capaneo, proprio nel fatto che non si modera |
64 |
la tua
superbia, se' tu più punito;
nullo martiro, fuor che la tua rabbia,
sarebbe al tuo furor dolor compito». |
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64 |
la tua superbia, tu sei
maggiormente punito: nessun supplizio, all’infuori della
tua rabbia, sarebbe una sofferenza adeguata al tuo
furore". |
67 |
Poi si
rivolse a me con miglior labbia,
dicendo: «Quei fu l'un d'i sette regi
ch'assiser Tebe; ed ebbe e par ch'elli abbia |
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67 |
Poi si rivolse verso di me
con viso più sereno dicendo: "Quello fu uno dei sette re
che assediarono Tebe; ed ebbe e sembra abbia |
70 |
Dio in
disdegno, e poco par che 'l pregi;
ma, com' io dissi lui, li suoi dispetti
sono al suo petto assai debiti fregi. |
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70 |
Dio in dispregio, e sembra
che poco lo stimi; ma, come gli dissi, i suoi
atteggiamenti di disprezzo sono ornamenti assai
appropriati al suo animo. |
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Il Momigliano nota una certa affinità fra l'episodio di
Capaneo e quello di Filippo Argenti. In senso generico,
sia l'uno sia l'altro prospettano un esempio di superbia
punita, ma il critico ravvisa in essi anche una
somiglianza più stretta: nelle parole di cui Virgilio si
serve per condannare la presunzione di questi dannati,
in cui "ritornano...le rime regi e fregi, e la seconda
sembra aver suggerito tutta l'idea della frase li suoi
dispetti sono al suo petto assai debiti fregi. Identico
appare. inoltre, l'atteggiamento benevolo del maestro
verso Dante. Più che all'episodio di Filippo Argenti,
tuttavia, il rimprovero di Virgilio a Capaneo fa pensare
al discorso con cui il poeta latino apostrofa Pluto: in
esso è già anticipato il concetto dei furore impotente
che tormenta, nell'inferno, sia i dannati che i loro
carnefici. |
73 |
Or mi vien
dietro, e guarda che non metti,
ancor, li piedi ne la rena arsiccia;
ma sempre al bosco tien li piedi stretti». |
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73 |
Seguimi adesso, e stai
attento, anche ora, a non mettere i piedi nella sabbia
bruciata; ma tieni sempre i piedi a contatto col suolo
del bosco". |
76 |
Tacendo
divenimmo là 've spiccia
fuor de la selva un picciol fiumicello,
lo cui rossore ancor mi raccapriccia. |
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76 |
In silenzio giungemmo, nel
punto dove scaturisce dalla selva un fiumicello, il cui
colore rosso ancora mi fa raccapricciare. |
79 |
Quale del
Bulicame esce ruscello
che parton poi tra lor le peccatrici,
tal per la rena giù sen giva quello. |
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79 |
Come dal Bulicame esce un
ruscello che le pettinatrici (della canapa) dividono poi
fra di loro, similmente quello scorreva attraverso la
sabbia. |
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Fin dal XIII secolo la lavorazione della canapa si
svolgeva intorno a Viterbo in piscine che derivavano
l'acqua dal Bulicame, piccolo lago d'acqua sulfurea
bollente, nelle vicinanze della città. Le pettatrici
potrebbero essere qui le donne addette a cardare la
canapa. La lezione peccatrici, che si ritrova nei
manoscritti, non trova conferma nelle testimonianze del
tempo; non risulta in alcun documento che le meretrici
di Viterbo usassero servirsi delle acque del Bulicame
per i loro bagni, come spiegano basandosi su questo
verso, gli antichi commentatori. |
82 |
Lo fondo suo
e ambo le pendici
fatt' era 'n pietra, e ' margini da lato;
per ch'io m'accorsi che 'l passo era lici. |
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82 |
Il suo letto ed entrambe
le sponde erano fatti di pietra, come pure gli argini
laterali; e perciò mi accorsi che lì era il passaggio
(attraverso la sabbia infuocata). |
85 |
«Tra tutto
l'altro ch'i' t'ho dimostrato,
poscia che noi intrammo per la porta
lo cui sogliare a nessuno è negato, |
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85 |
"Fra tutte le altre cose
che ti ho mostrato, dopo che entrammo attraverso la
porta (dell’inferno) il cui ingresso non è precluso a
nessuno, |
88 |
cosa non fu
da li tuoi occhi scorta
notabile com' è 'l presente rio,
che sovra sé tutte fiammelle ammorta». |
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88 |
i tuoi occhi non videro
nessuna cosa notevole come questo corso d’acqua, che
sopra di sé smorza tutte le fiammelle." |
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C'è un contrasto fra l'apparenza modesta di questo
ruscello e la portata universale del suo significato.
Virgilio prepara l'alunno alla grandiosa leggenda che
sta per raccontargli: il suo vocabolario è scelto, non
senza un'ombra di pedanteria; Dante dovrà accogliere le
sue parole come espressione di una verità che non nega,
ma convalida i sistemi dottrinalí da lui appresi nelle
scuole. |
91 |
Queste
parole fuor del duca mio;
per ch'io 'l pregai che mi largisse 'l pasto
di cui largito m'avëa il disio. |
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91 |
Queste furono le parole
della mia guida; perciò la pregai che mi concedesse il
cibo di cui mi aveva dato il desiderio (che mi spiegasse
le cose che, dopo il suo accenno, desideravo sapere). |
94 |
«In mezzo
mar siede un paese guasto»,
diss' elli allora, «che s'appella Creta,
sotto 'l cui rege fu già 'l mondo casto. |
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94 |
"In mezzo al mare si trova
una terra desolata" disse Virgilio allora, "che si
chiama Creta, sotto il cui re un tempo il mondo fu
virtuoso. |
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Sotto il re cretese Saturno il mondo godette della
favolosa "età dell'oro", durante la quale gli uomini
vissero in perfetta pace e in completa felicità (cfr.
Virgilio - Eneide VIII, 319 sgg.).
Anche la rappresentazione dell'isola di Creta un tempo
ricca e ora caduta in rovina, è di origine virgiliana
(Eneide 111, 104 sgg.). |
97 |
Una montagna
v'è che già fu lieta
d'acqua e di fronde, che si chiamò Ida;
or è diserta come cosa vieta. |
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97 |
Vi si trova
una montagna una volta allietata da acque e vegetazione,
il cui nome fu Ida: ora è abbandonata come cosa vecchia. |
100 |
Rëa la
scelse già per cuna fida
del suo figliuolo, e per celarlo meglio,
quando piangea, vi facea far le grida. |
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100 |
Rea la scelse
una volta come nascondiglio sicuro per suo figlio, e per
celarlo meglio, quando piangeva, ordinava di gridare. |
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Rea, moglie di Saturno, per. sottrarre il figlioletto
Giove al padre che voleva divorarlo, lo nascose sul
monte Ida e quando il bambino vagiva, i Coribanti,
seguaci del suo culto (cfr. Virgilio, - Eneide III,
111-113), facevano un grande fragore perché non lo si
udisse. |
103 |
Dentro dal
monte sta dritto un gran veglio,
che tien volte le spalle inver' Dammiata
e Roma guarda come süo speglio. |
|
103 |
Dentro il monte sta eretto un gran
vecchio, che tiene le spalle volte verso Damiata (Damietta,
su una delle foci del Nilo: indica qui l’Oriente) e
guarda Roma come fosse il suo specchio, |
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Il discorso di Virgilio procede. come ha, osservato il
Momigliano, "senza legami sintattici, per tempi
staccati, che isolano via via i luoghi e i fatti in una
stupita lontananza, in un magico silenzio". La favola
del Veglio di Creta, che qui inizia, è poetica
soprattutto nella sua parte iniziale, dove prevale il
senso del mistero, come afferma anche il Croce.
L'idea profonda che è alla base dell'allegoría del
Veglio è il legame che unisce il peccato al dolore, il
mondo in cui il peccato si compie a quello in cui esso è
punito. Dante fonde in questa leggenda un passo della
Bibbia e uno di Ovidio.
Nel Libro di Daniele (II, 31-33) è detto della statua
apparsa in sognò a Nabucodonosor: essa appare fatta di
materiali sempre più vili a mano a mano che lo sguardo
del re babilonese la percorre dalla testa ai piedi.
Nelle Metamorfosi (I, 89-150) il progressivo decadere
dell'umanità dallo stato di innocenza è adombrato nel
mito delle "quattro età dell'uomo": l'aurea, l'argentea,
quella del rame, quella del ferro. |
106 |
La sua testa
è di fin oro formata,
e puro argento son le braccia e 'l petto,
poi è di rame infino a la forcata; |
|
106 |
Il suo capo è fatto di oro
puro, le braccia e il petto sono di puro argento, poi è
di rame fino al punto in cui le gambe si biforcano; |
109 |
da indi in
giuso è tutto ferro eletto,
salvo che 'l destro piede è terra cotta;
e sta 'n su quel, più che 'n su l'altro, eretto. |
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109 |
da questo punto in giù è
tutto di ferro scelto, eccetto il piede destro che è di
terracotta; e si appoggia più su questo che sull’altro
piede. |
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Stabilito che la statua del Veglio simboleggia il
decadimento del genere umano, l'interpretazíone più
plausibile di questa allegoria è che i metalli di cui la
statua è formata, alludano alle " età dell'uomo "
elencate da Ovidio. In particolare, la parte meno nobile
di essa, quella dalla forcata in giù, indicherebbe l'era
della massima corruzione. Nel piede di ferro
occorrerebbe allora vedere l'Impero, e in quello di
terracotta la Chiesa che si è arrogata il potere
temporale ed erroneamente, secondo Dante, pretende di
essere la suprema autorità politica in terra. |
112 |
Ciascuna
parte, fuor che l'oro, è rotta
d'una fessura che lagrime goccia,
le quali, accolte, fóran quella grotta. |
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112 |
Ogni parte, fuorché quella
d’oro, è incisa da una fessura che stilla lagrime, le
quali, raccolte insieme, perforano la roccia. |
115 |
Lor corso in
questa valle si diroccia;
fanno Acheronte, Stige e Flegetonta;
poi sen van giù per questa stretta doccia, |
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115 |
Esse precipitano di roccia
in roccia in questo abisso: formano l’Acheronte, lo
Stige e il Flegetonte; poi scendono attraverso questo
stretto canale |
118 |
infin, là
dove più non si dismonta,
fanno Cocito; e qual sia quello stagno
tu lo vedrai, però qui non si conta». |
|
118 |
fino al punto ove più non
si scende: formano il Cocito; e che aspetto abbia quella
palude, lo vedrai; perciò adesso non ne parlo." |
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Cocito è lo stagno ghiacciato che occupa il nono
cerchio; in esso sono immersi i traditori e lo 'mperador
del doloroso regno, Lucifero, che tradì la fiducia in
lui riposta da Dio.
L'origine dei fiumi infernali è un elemento nuovo che
non si trova nei modelli biblico e classico, che hanno
ispirato l'allegoria dei Veglio. Dante voleva, come
scrive lo Steiner, "che il dolore, in quanto è
conseguenza dei peccato, fosse restituito a colui che
del peccato è la prima origine". Perciò il pianto
dell'umanità intera "cinge l'inferno, lo attraversa,
diventa strumento della punizione di quei tristi che lo
hanno fatto versare più copioso ai loro simili, ma
infine scende a cercare nel profondo di quello il
signore d'ogni malizia e al ripugnante contatto di esso
si muta in ghiaccio e costituisce così i ceppi eterni
del superbo che ha scatenato nel mondo il peccato e la
morte, e che fu agli uomini causa prima di infelicità".
L'allegoria dei Veglio di Creta e la teoria dei fiumi
infernali non hanno soltanto un valore strutturale (in
quanto ci mettono al corrente della topografia
infernale), ma anche e soprattutto poetico, nella misura
in cui si concretano in una solenne, accorata
meditazione sul corso della storia umana. Quello
simboleggiato nella figura del Veglio di Creta e nella
teoria sulla formazione dei fiumi infernali è tuttavia
soltanto l'aspetto negativo - indispensabile, ma non
definitivo - del pensiero di Dante sulla storia: cardine
di questo pensiero è infatti la provvidenzialità divina,
la ferma fede nel trionfo del bene e della razionalità,
oltre ogni ingiustizia e dolore. |
121 |
E io a lui:
«Se 'l presente rigagno
si diriva così dal nostro mondo,
perché ci appar pur a questo vivagno?». |
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121 |
E io: "Se questo
fiumicello scaturisce quindi dalla terra, perché ci si
mostra soltanto su questo margine?" |
124 |
Ed elli a
me: «Tu sai che 'l loco è tondo;
e tutto che tu sie venuto molto,
pur a sinistra, giù calando al fondo, |
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124 |
E Virgilio: "Tu sai che
questo luogo ha forma circolare; benché, scendendo verso
il fondo, tu ti sia inoltrato parecchio procedendo
sempre a sinistra, |
127 |
non se'
ancor per tutto 'l cerchio vòlto;
per che, se cosa n'apparisce nova,
non de' addur maraviglia al tuo volto». |
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127 |
non hai ancora compiuto un
giro intero: perciò, se appare una cosa nuova, essa non
deve apportare un’espressione di stupore sul tuo volto". |
130 |
E io ancor:
«Maestro, ove si trova
Flegetonta e Letè? ché de l'un taci,
e l'altro di' che si fa d'esta piova». |
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130 |
E io ancora: "Maestro,
dove si trovano il Flegetonte e il Letè? poiché di uno
di questi non parli, e dell’altro dici che ha origine da
questa pioggia (di lagrime)". |
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Il Flegetonte è il fiume di sangue bollente in cui sono
puniti i violenti contro il prossimo; il Letè scorre
sulla vetta del monte del purgatorio (dove è il paradiso
terrestre) e fa perdere alle anime che si sono pentite,
e sono sul punto di ascendere al cielo, la memoria delle
loro colpe. |
133 |
«In tutte
tue question certo mi piaci»,
rispuose, «ma 'l bollor de l'acqua rossa
dovea ben solver l'una che tu faci. |
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133 |
"In tutte le tue domande
riscuoti certamente la mia approvazione" rispose; "ma il
ribollire dell’acqua rossa doveva ben risolvere uno dei
due quesiti che proponi. |
136 |
Letè vedrai,
ma fuor di questa fossa,
là dove vanno l'anime a lavarsi
quando la colpa pentuta è rimossa». |
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136 |
Vedrai il Letè, ma fuori
di questo abisso, là dove le anime vanno a detergersi
quando ogni peccato di cui si sono pentite è
cancellato." |
139 |
Poi disse: «Omai
è tempo da scostarsi
dal bosco; fa che di retro a me vegne:
li margini fan via, che non son arsi, |
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139 |
Quindi disse: "Ormai è
tempo di allontanarsi dal bosco; fa in modo di seguire i
miei passi: gli argini, che non sono bruciati dal fuoco,
indicano la strada, |
142 |
e sopra loro
ogne vapor si spegne». |
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142 |
e sopra di loro ogni
fiamma si spegne". |
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