|
DIVINA
COMMEDIA: PARAFRASI
INFERNO
CANTO XV° |
 |
 |
 |
 |
1 |
Ora cen
porta l'un de' duri margini;
e 'l fummo del ruscel di sopra aduggia,
sì che dal foco salva l'acqua e li argini.
|
|
1 |
Ora ci porta una delle due salde sponde; e il vapore del
ruscello fa schermo, in modo da riparare dalle fiamme
l’acqua e gli argini. |
4 |
Quali
Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia,
temendo 'l fiotto che 'nver' lor s'avventa,
fanno lo schermo perché 'l mar si fuggia; |
|
4 |
Come la diga che i
Fiamminghi, temendo la marea che si scaglia contro di
loro, innalzano tra Wissant e Bruges perché il mare si
ritiri, |
7 |
e quali
Padoan lungo la Brenta,
per difender lor ville e lor castelli,
anzi che Carentana il caldo senta: |
|
7 |
e come quella che i
Padovani (innalzano) lungo il corso del Brenta, per
proteggere le loro città e i loro borghi fortificati,
prima che la Carinzia (comprendeva anche la Valsugana
dove nasce il Brenta) senta il caldo (che, sciogliendo
le nevi, fa ingrossare i fiumi), |
10 |
a tale
imagine eran fatti quelli,
tutto che né sì alti né sì grossi,
qual che si fosse, lo maestro félli. |
|
10 |
in tal modo erano
costruiti quegli argini, benché l’artefice, chiunque
egli fosse stato, non li avesse fatti né così alti né
così larghi. |
|
Nell'impegno di dar consistenza visiva e verosimiglianza
alle scene da lui immaginate, Dante spesso non si
contenta di un solo termine di riferimento, ma raffronta
il dato fantastico a diversi aspetti della realtà a noi
più consuete. La prima di queste due similitudini
grandiosa e cupa; i suoni stessi suggeriscono la lotta
senza quartiere l'uomo e il mare, veduto come un mostro
scatenato. Di fronte all'impeto alla paura espressi in
s'avventa e fuggia è posto il semplice, disadorno
impersonale fanno, quasi a significare che la forza
dell'uomo inerme è nella sua operosità e nel suo essere
sociale. La seconda similitudine, più iíposata precisa
(l'avversario da combattere non è l'oceano misterioso e
lontano, ma un fiume noto al Poeta), evoca, qui per
contrasto, nel momento in cui dopo il lungo letargo
invernale le nevi sciolgono, un clima dolce e sereno. |
13 |
Già eravam
da la selva rimossi
tanto, ch'i' non avrei visto dov' era,
perch' io in dietro rivolto mi fossi, |
|
13 |
Già ci eravamo allontanati dalla selva tanto, che non
avrei veduto dove essa era, anche se io mi fossi voltato
indietro, |
16 |
quando
incontrammo d'anime una schiera
che venian lungo l'argine, e ciascuna
ci riguardava come suol da sera |
|
16 |
quando incontrammo un
gruppo di anime che camminavano lungo l’argine, e ognuna
ci osservava come ci si scruta di sera |
19 |
guardare uno
altro sotto nuova luna;
e sì ver' noi aguzzavan le ciglia
come 'l vecchio sartor fa ne la cruna. |
|
19 |
nel periodo
del novilunio; e aguzzavano lo sguardo verso di noi
avvicinando l’una all’altra le palpebre così come il
vecchio sarto fa (nello sforzo di introdurre il filo)
nella cruna dell’ago. |
|
Due immagini tratte dalla nostra esperienza più comune
suggeriscono, più che l'oscurità del luogo, la
difficoltà (una pena che si aggiunge al loro consueto
dolore) che hanno queste anime di riconoscere forme e
aspetti del mondo, e la loro tesa attenzione. La prima
si ispira a due passi dell'Eneide (VI, 268 sgg. e 452
sgg.), ma non ha nulla della solennità distaccata del
suo modello; è un momento di vita colto nella sua più
fresca e felice immediatezza. L'accenno alla nuova luna
(innocente dunque, appena nata) nel buio di questo
cerchio, dove la sola luce è quella crudele della
pioggia di fuoco che solca l'aria, propone il tema della
nostalgia per il mondo dei vivi, ribadito, con maggiore
insistenza che altrove, nell'episodio di Brunetto Latini
che qui ha inizio. Soltanto alcune trasparenze notturne
dei cieli del Leopardi hanno, la casta evidenza di
questa evocazione.
La seconda immagine "ci introduce decisamente
nell'atmosfera del canto. Troveremo più innanzi un
Brunetto paterno rispetto a Dante, e dunque anziano, ma
non descritto propriamente come vecchio: se la nostra
fantasia lo vede tale, ciò si deve anche alla
suggestione che su essa opera questa similitudine
iniziale; e sulla tenerezza che la figura di Brunetto ci
ispirerà, nella sua debolezza umiliata, influisce certo
anche questa immagine del vecchio tremante sartore"
(Bosco). |
22 |
Così
adocchiato da cotal famiglia,
fui conosciuto da un, che mi prese
per lo lembo e gridò: «Qual maraviglia!». |
|
22 |
Osservato in tal modo da questa schiera, fui
riconosciuto da uno, che afferrò l’orlo della mia veste
e gridò: "Quale sorpresa!" |
25 |
E io, quando
'l suo braccio a me distese,
ficcaï li occhi per lo cotto aspetto,
sì che 'l viso abbrusciato non difese |
|
25 |
E io, allorché tese il suo braccio verso di me, fissai
lo sguardo in quei lineamenti bruciati, in modo che il
volto ustionato non impedì |
28 |
la
conoscenza süa al mio 'ntelletto;
e chinando la mano a la sua faccia,
rispuosi: «Siete voi qui, ser Brunetto?». |
|
28 |
alla mia mente di
riconoscerlo; e chinando il mio viso verso il suo,
risposi: "Qui vi trovate, ser Brunetto?" |
|
La domanda è breve, scarna, il suo altissimo potenziale
affettivo può passare inosservato, l'accento batte sul
qui, in posizione di forte rilievo prima della seconda
cesura, e sul ser che ad esso si giustappone: l'uomo da
tutti onorato in terra, il maestro di sapienza e di
rettitudine, il politico esperto è, nell'al di là, tra i
peccatori lerci, secondo la definizione che poi (verso
108) egli stesso darà di un vizio infamante. Gli
scrittori dell'antichità classica avevano sempre cercato
di moderare, entro una cornice di decoro formale, gli
aspetti più dolorosi della condizione umana. Dante non
ha queste preoccupazioni. Egli esprime, con una violenza
priva di riscontri nella letteratura mondiale, il
contrasto tra il nostro modo di manifestarci agli occhi,
dotati di vista insufficiente, dei nostri simili e il
nostro apparire agli occhi di Dio. |
31 |
E quelli: «O
figliuol mio, non ti dispiaccia
se Brunetto Latino un poco teco
ritorna 'n dietro e lascia andar la traccia». |
|
31 |
E quello: "Figliolo, non ti rincresca
il fatto che Brunetto Latini torni un po’ indietro con
te e abbandoni la schiera". |
|
Brunetto Latini, nato a Firenze intorno al 1220, fu uomo
di lettere (scrisse in francese i Lívres du Trésor,
enciclopedia della scienza medievale, e un breve
poemetto didascalico in italiano, il Tesoretto; tradusse
le opere retoriche di Cicerone), notaio (di qui la
qualifica di ser) e cancelliere del comune. Partecipò
alla vita politica militando tra i Guelfi. Morì nel
1294.
Nelle parole che Brunetto rivolge in questa terzina al
suo discepolo di un tempo "cozzano insieme - come scrive
il Parodi - mirabilmente contraddittorie e concordi, la
preghiera e l'accorato rimprovero, l'angoscioso
riconoscimento dell'umiliazione presente e l'allusione
al tempo così diverso che fu, e questa culmina in quel
nome pronunciato lentamente, e per intero. Brunetto
Latini, che dice tante cose, ed è soprattutto una
malinconica e velata ma energica affermazione della
propria dignità personale, offuscata ma non in tutto
perduta". |
34 |
I' dissi
lui: «Quanto posso, ven preco;
e se volete che con voi m'asseggia,
faròl, se piace a costui che vo seco». |
|
34 |
Gli dissi: "Ve ne prego di tutto cuore;
e se volete che mi sieda con voi, lo farò, se la cosa
incontra l’approvazione di costui insieme al quale
cammino". |
|
Brunetto ha pregato Dante di permettergli di percorrere
un tratto del cammino insieme a lui; ma il tono della
sua preghiera esprimeva dolorosa incertezza: il suo
antico discepolo non Io avrebbe rinnegato? Nella sua
risposta Dante sottolinea la sua immutata venerazione
(quanto posso, ven preco; e se volete ... ), si fa umile
egli stesso, pone il notaio fiorentino sullo stesso
piano di Virgilio (faròl, se piace ...). |
37 |
«O figliuol»,
disse, «qual di questa greggia
s'arresta punto, giace poi cent' anni
sanz' arrostarsi quando 'l foco il feggia. |
|
37 |
"Figlio", disse, "chiunque
di questa schiera si ferma per un attiimo, giace poi per
cento anni senza poter difendersi quando la pioggia di
fuoco lo colpisce. |
40 |
Però va
oltre: i' ti verrò a' panni;
e poi rigiugnerò la mia masnada,
che va piangendo i suoi etterni danni». |
|
40 |
Perciò continua a
procedere: io ti camminerò accanto; poi raggiungerò la
mia schiera, che sconta dolorosamente la sua pena
eterna." |
43 |
Io non osava
scender de la strada
per andar par di lui; ma 'l capo chino
tenea com' uom che reverente vada. |
|
43 |
Io non osavo scendere
dall’argine (della strada) per camminare al suo stesso
livello; ma tenevo la testa china come chi cammina pieno
di riverenza. |
|
A questo punto ha termine la parte introduttiva
dell'episodio. Le parole pronunciate sin qui da Brunetto
Latini, così sommesse e dignitose al tempo stesso, fanno
di lui un personaggio al quale va tutta la nostra
simpatia; la riverenza dimostratagli dal Poeta lo
innalza al di sopra dei suoi compagni di pena e ci fa
sentire che siamo in presenza di un non comune ingegno e
di una forte personalità. E' stata così preparata la
parte centrale dell'episodio, nella quale l'indignazione
di Dante per l'ingratitudine dei Fiorentini troverà,
proprio nelle parole di Brunetto Latini, e per la prima
volta nel poema, le espressioni del suo stile più alto e
immaginoso: quello profetico. |
46 |
El cominciò:
«Qual fortuna o destino
anzi l'ultimo dì qua giù ti mena?
e chi è questi che mostra 'l cammino?». |
|
46 |
Egli cominciò a parlare:
"Quale caso o quale volere divino ti conduce quaggiù
prima dell’ultimo giorno (prima della morte)? e chi è
costui che indica la strada?" |
49 |
«Là sù di
sopra, in la vita serena»,
rispuos' io lui, «mi smarri' in una valle,
avanti che l'età mia fosse piena. |
|
49 |
"Lassù, nel mondo
luminoso" gli risposi "mi perdetti in una valle, prima
che la parabola della mia vita fosse giunta al suo
culmine. |
52 |
Pur ier
mattina le volsi le spalle:
questi m'apparve, tornand' ïo in quella,
e reducemi a ca per questo calle». |
|
52 |
Soltanto ieri mattina l’ho
lasciata: costui mi si mostrò nel momento in cui stavo
per rientrare in essa, e mi riconduce a casa (sulla
retta via) attraverso questo cammino." |
|
Dante cerca quasi di mettere in ombra, per reverenza
verso il suo antico maestro, i propri meriti e racconta
l'antefatto dei suo viaggio con dimessa semplicità (là
su di sopra... in una valIe-... e reducemi a ca ... ).
Nell'episodio di Brunetto Latini il vero protagonista è
Dante. Argomento dell'incontro è il destino del Poeta,
la sua persecuzione ad opera dei concittadini. Le parole
del notaio fiorentino, nella parte centrale
dell'episodio, esprimono anch'esse la passione civile di
Dante. Lo stile è qui l'opposto di quello che, nel canto
tredicesimo, caratterizzava le effusioni di un
personaggio intimamente incoerente, egli pure vittima
dell'odio politico, Pier delle Vigne. Lì un discorrere
raffinato ma contraddittorio, concettoso e fiorito, qui
la semplicità delle cose evidenti e corpose, dei simboli
elementari e perenni (la valle, la stella, il porto, il
monte, il macigno ecc.). |
55 |
Ed elli a
me: «Se tu segui tua stella,
non puoi fallire a glorïoso porto,
se ben m'accorsi ne la vita bella; |
|
55 |
Ed egli: "Se tu segui
l’astro che ti guida, non puoi non approdare alla
gloria, se non errai nel mio giudizio mentre ero tra i
vivi; |
58 |
e s'io non
fossi sì per tempo morto,
veggendo il cielo a te così benigno,
dato t'avrei a l'opera conforto. |
|
58 |
e se io non fossi morto
tanto presto, vedendo il cielo a te così favorevole, ti
avrei incoraggiato e sostenuto nella tua opera. |
|
La profezia di Brunetto si articola in due tempi. Nel
primo è predetto al Poeta, genericamente, un futuro di
gloria; nel secondo, che fa seguito alla espressione del
suo desiderio che il vecchio maestro fosse ancora in
vita (è il momento in cui Dante, non più impacciato
dalla necessità di convincere Brunetto della propria
venerazione nei suoi confronti, manifesta liberamente la
piena del suo affetto), si accenna, con maggiore dovizia
di particolari e di riferimenti, all'odio dei Fiorentini
per Dante, conseguenza del suo disinteressato operare.
L'immagine della stella che guida il Poeta nella sua
vita (ripresa, nella terzina successiva, da quella del
cielo a lui benigno) poggerebbe, per alcuni, su un
presupposto astrologico. Dante è nato nel segno dei
Gemelli, dagli astrologi ritenuto favorevole allo studio
delle arti liberali, in quanto, come scrive un antico
commentatore, l'Ottimo, "significatore di scrittura, e
di scienza e di cognoscibilitade". Il presupposto
astrologico che pur non è da escludersi, non appare
tuttavia indispensabile.
Per il Bosco questa immagine non è astrologica, ma, come
risulta dall'immagine che la completa, quella del porto,
soltanto nautica.
"La stella è quella che guida i naviganti: se la
seguono, questi giungono al loro porto. Brunetto dice
insomma a Dante: se seguirai la tua stella, se non
devierai dal tuo cammino, se terrai il timone della tua
vita dritto verso la meta che ti sei prefissa, non
potrai mancarla." |
61 |
Ma quello
ingrato popolo maligno
che discese di Fiesole ab antico,
e tiene ancor del monte e del macigno, |
|
61 |
Ma quel popolo ingrato e
perverso che anticamente scese da Fiesole, e ancora
conserva l’indole della rupe e della pietra, |
64 |
ti si farà,
per tuo ben far, nimico;
ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi
si disconvien fruttare al dolce fico. |
|
64 |
diventerà, per il tuo
retto agire, tuo nemìco: ed è giusto, poiché il dolce
fico non deve produrre i suoi frutti in mezzo ai sorbi
aspri. |
|
Secondo una leggenda diffusa nel Medioevo, Firenze era
stata fondata dai Romani subito dopo la distruzione di
Fiesole, che aveva aiutato Catilina nella sua ultima
disperata impresa. La nuova città sarebbe stata
popolata, secondo questa leggenda, in parte con abitanti
di Fiesole, in parte con cittadini romani. Dante
attribuisce qui le miserie della sua patria alla natura,
ancora barbara ai suoi tempi, dei discendenti dei
Fiesolani. Anche il Villani (Cronaca I, 38) vede
l'origine delle discordie intestine di Firenze nella
convivenza entro la stessa cerchia di mura "di due
popoli così contrari e nemici e diversi di costumi, come
furono gli nobili Romani virtudiosi, e Fiesolani ruddi e
aspri di guerra". La rozzezza di cui parla il Villani,
in Dante è condensata in un'immagine che ripropone, in
forma nuova ed energica, e nel tono di popolare saggezza
che è caratteristico di questa parte del canto, il tema
tradizíonale dell'insensibilità della natura inorganica:
tiene ancor del monte e del macigno. Di fronte alla
pervicacia del rifiuto opposto dal popolo maligno ad
ogni forma dì educazìone spirituale, di ingentilimento
dei costumi, si profila, nella terzina successiva, il
doloroso contrasto fra i sorbi selvatici (i Fiorentini
incivili) e il dolce fico (Dante). L'immagine è di
ispirazione biblica, e nello stile biblico, come avverte
il Marzot, "le piante e i frutti sono piuttosto idee che
cose, e perciò entrano meglio nel linguaggio del
proverbiare".
Nelle profezie della Commedia la realtà, che nelle
similitudini è colta sempre nella sua immediatezza,
anche là dove il riferimento letterario appare evidente,
si carica di un solenne peso di pensieri, si circonda di
echi che vanno al di là del visibile e, più
genericamente, al di là dell'esperienza storica nel suo
complesso. |
67 |
Vecchia fama
nel mondo li chiama orbi;
gent' è avara, invidiosa e superba:
dai lor costumi fa che tu ti forbi. |
|
67 |
Un antico detto nel mondo dei vivi li
definisce ciechi; è gente avara, invidiosa e superba: fa
in modo di mantenerti immune dai loro costumi. |
|
Un antico
detto accusava di cecità i Fiorentini per essersi
lasciati ingannare dal re goto Totila, che, dopo essersi
detto loro amico, ne distrusse la città, oppure, secondo
altri, per aver accettato come buone due colonne
spezzate che i Pisani inviarono loro, avvolte in panno
scarlatto, come ricompensa per l'aiuto dato da Firenze a
Pisa in una spedizione alle Baleari. La citazione di
questo proverbio si accorda con il tono generale della
profezia di Brunetto Latini, espressa nelle forme
vigorose dei linguaggio popolaresco. |
70 |
La tua
fortuna tanto onor ti serba,
che l'una parte e l'altra avranno fame
di te; ma lungi fia dal becco l'erba. |
|
70 |
La tua sorte ti riserva
tanto onore, che sia l’uno che l’altro partito (sia i
Neri che i Bianchi) vorranno divorarti; ma l’erba sarà
lontana dal caprone, |
73 |
Faccian le
bestie fiesolane strame
di lor medesme, e non tocchin la pianta,
s'alcuna surge ancora in lor letame, |
|
73 |
Le belve discese da
Fiesole facciano foraggio di loro medesime (si divorino
fra di loro), e non tocchino l’albero, se in mezzo alla
loro sozzura se ne eleva ancor uno, |
76 |
in cui
riviva la sementa santa
di que' Roman che vi rimaser quando
fu fatto il nido di malizia tanta». |
|
76 |
nel quale riviva il sacro
seme di quei Romani che lì si fermarono allorché si
costituì il covo di tanta malvagità ". |
|
Come rileva il Rossi, il discorso di Brunetto Latini,
cominciato "con largo movimento oratorio", esprime, nei
versi 65-66 una mordace ironia, per traboccare quindi
"in accenti di scherno e di ingiuria (versi 67-68) e in
frasi e immagini di rude gagliardia popolaresca (versi
69-72)", e placarsi infine "nella ampia trama di un
solenne e risonante periodo (versi 73-78)", in cui
Dante, nato da stirpe romana, giganteggia in mezzo alle
risse dei suoi concittadini. La logica dei fatti è, in
questa profezia, adombrata in una trama di richiami
analogici, attraverso i quali i simboli si legano fra
loro. Alla compattezza indifferenziata del mondo
minerale (monte, macigno) fa seguito la varietà delle
forme vegetali e animali: i lazzi sorbi contrastano col
dolce fico, l'immagine dell'erba suggerisce quella del
becco malefico che la bruca, continuandosi poi in pianta
e sementa, cui si contrappone strame. |
79 |
«Se fosse
tutto pieno il mio dimando»,
rispuos' io lui, «voi non sareste ancora
de l'umana natura posto in bando; |
|
79 |
"Se la mia preghiera fosse
stata interamente esaudita" gli risposi, " voi non
sareste ancora morto (dell’umana natura posto in bando:
esiliato dalla vita umana). |
82 |
ché 'n la
mente m'è fitta, e or m'accora,
la cara e buona imagine paterna
di voi quando nel mondo ad ora ad ora |
|
82 |
poiché nella mia memoria è
impresso, e adesso mi addolora, il caro e buon aspetto
paterno che avevate quando in vita di tanto in tanto |
85 |
m'insegnavate come l'uom s'etterna:
e quant' io l'abbia in grado, mentr' io vivo
convien che ne la mia lingua si scerna. |
|
85 |
mi insegnavate come l’uomo
acquista gloria imperitura: e quanto (il vostro aspetto)
mi sia gradito, è giusto che si veda attraverso le mie
parole. |
88 |
Ciò che
narrate di mio corso scrivo,
e serbolo a chiosar con altro testo
a donna che saprà, s'a lei arrivo. |
|
88 |
Quello che mi raccontate
sul corso della mia vita lo annoto nella memoria, e lo
conservo per farlo interpretare insieme con un’altra
predizione (la profezia di Farinata) da una donna (Beatrìce)
che ne sarà capace, se sarò in grado di arrivare fino a
lei. |
91 |
Tanto vogl'
io che vi sia manifesto,
pur che mia coscïenza non mi garra,
ch'a la Fortuna, come vuol, son presto. |
|
91 |
Questo soltanto voglio che
sappiate: sono preparato ai colpi della Fortuna,
comunque voglia colpirmi, purché la mia coscienza non mi
rimproveri. |
94 |
Non è nuova
a li orecchi miei tal arra:
però giri Fortuna la sua rota
come le piace, e 'l villan la sua marra». |
|
94 |
Una tale promessa non è
nuova al mio udito: perciò la Fortuna giri pure la sua
ruota come vuole, e il contadino la sua zappa." |
|
Nella risposta di Dante a Brunetto alla malinconia dei
ricordi fa seguito un sentimento più deciso,
vigorosamente scandito nella sua dichiarazione di essere
pronto a raccogliere la sfida della Fortuna. Esso
prorompe alfine impaziente nel motto che accomuna, fatte
oggetto di una medesima sdegnosa indifferenza, le
misteriose operazioni della Fortuna all'innocuo lavoro
del contadino. Il tema della Fortuna, già trattato
ampiamente nel canto degli avari e prodighi, è qui
ripreso, ma in una prospettiva mutata. Mentre nella
digressione di Virgilio del canto settimo la Fortuna è
veduta nel suo aspetto impersonale ed astratto, come la
reggitrice delle sorti di tutti gli uomini, qui appare
invece come colei che volontariamente insidia il corso
della nostra vita e che, in quanto tale, deve essere
affrontata a viso aperto. La Fortuna non è onnipotente
sostiene il Poeta basta la coscienza del dovere compiuto
per poterla affrontare. |
97 |
Lo mio
maestro allora in su la gota
destra si volse in dietro e riguardommi;
poi disse: «Bene ascolta chi la nota». |
|
97 |
Virgilio si
volse allora indietro verso destra, e mi fissò; poi
disse: "Ascolta con profitto una cosa chi sa
ricordarla". |
100 |
Né per tanto
di men parlando vommi
con ser Brunetto, e dimando chi sono
li suoi compagni più noti e più sommi. |
|
100 |
Nondimeno
continuo a camminare parlando con ser Brunetto, e chiedo
chi siano i suoi compagni più celebri e più egregi. |
103 |
Ed elli a
me: «Saper d'alcuno è buono;
de li altri fia laudabile tacerci,
ché 'l tempo saria corto a tanto suono. |
|
103 |
Ed egli: "E’ bene
apprendere qualcosa intorno ad alcuni (di loro); degli
altri sarà cosa lodevole non fare menzione, poiché il
tempo non basterebbe a un discorso così lungo. |
106 |
In somma
sappi che tutti fur cherci
e litterati grandi e di gran fama,
d'un peccato medesmo al mondo lerci. |
|
106 |
Sappi in breve che furono
tutti ecclesiastici e dotti di grande valore e di grande
rinomanza, insozzati in vita da un medesimo peccato. |
109 |
Priscian sen
va con quella turba grama,
e Francesco d'Accorso anche; e vedervi,
s'avessi avuto di tal tigna brama, |
|
109 |
Con quella folla infelice
se ne vanno Prisciano e Francesco d’Accorso; e se avessi
avuto desiderio di guardare una tale sozzura, |
112 |
colui potei
che dal servo de' servi
fu trasmutato d'Arno in Bacchiglione,
dove lasciò li mal protesi nervi. |
|
112 |
avresti potuto vedere in
essa colui che dal pontefice fu trasferito da Firenze a
Vicenza, dove lasciò la sua vita peccaminosa. |
|
Fra i dotti e gli ecclesiastici che fanno parte della
sua schiera, Brunetto ne menziona tre soli, senza
indugiare peraltro in una loro caratterizzazione; solo a
proposito dell'ultimo, definito genericamente tigna
(malattia ripugnante della pelle), un particolare
incisivo e grottesco (li mal protesi nervi); allude al
vizio di cui si macchiò.
I tre sono: Prisciano di Cesarea, autore delle
Institutiones gramaticae, vissuto nel sesto secolo dopo
Cristo, Francesco d'Accorso (c. 1225-1294), docente di
diritto all'università di Bologna e di Oxford, e Andrea
de' Mozzi, vescovo di Firenze, trasferito poi a Vicenza
(nel 1295) da Bonifacio VIII.
L'espressione servo de' servi (servus servorum Dei), con
cui i pontefici sogliono designare se stessi, è forse
qui usata, trattandosi di Bonifacio VIII, in senso
ironico. |
115 |
Di più
direi; ma 'l venire e 'l sermone
più lungo esser non può, però ch'i' veggio
là surger nuovo fummo del sabbione. |
|
115 |
Parlerei più a lungo; ma
il camminare e il parlare non possono essere prolungati,
poiché vedo laggiù levarsi nuova polvere dalla distesa
sabbiosa. |
118 |
Gente vien
con la quale esser non deggio.
Sieti raccomandato il mio Tesoro,
nel qual io vivo ancora, e più non cheggio». |
|
118 |
Si avvicina una schiera
alla quale non devo unirmi: ti sia raccomandato il mio
Tesoro nel quale sopravvivo, e non chiedo altro". |
|
Tutti i dannati si preoccupano della fama che hanno
lasciato fra gli uomini. E' il loro modo più tipico di
partecipare ancora alla vita. In Brunetto c'è però
qualcosa di più: la certezza di sopravvivere attraverso
un'opera di cultura. Del suo Tesoro parla come di una
persona cara, sottolineando che gli appartiene (mio...
nel qual io vivo ancora). Anche qui, non diversamente
che nella prima domanda rivolta dal Poeta al suo antico
maestro, una carica affettiva fortissima si traduce in
una estrema semplicità di espressione. |
121 |
Poi si
rivolse, e parve di coloro
che corrono a Verona il drappo verde
per la campagna; e parve di costoro |
|
121 |
Poi si voltò, e sembrò uno
di quelli che a Verona corrono nella campagna
(gareggiando per vincere) il drappo verde; e sembrò |
124 |
quelli che
vince, non colui che perde. |
|
124 |
quello che tra costoro
vince, non quello che perde. |
|
Nei dintorni di Verona, come in quelli di altre città
italiane, si correva il palio, gara di velocità che
prendeva il nome dal drappo che il vincitore otteneva in
premio; l'ultimo arrivato riceveva invece un gallo ed
era oggetto di scherno da parte degli spettatori. Dante,
volendo indicare la rapidità con cui Brunetto si
allontana da lui per raggiungere la sua schiera, lo
paragona al vincitore del palio. Ma l'ultimo verso
sembra quasi distaccarsi dagli altri e alludere al
riscatto della figura di Brunetto, per virtù di poesia,
dalla colpa infame che lo costringe tra i dannati. |
|
|
|
 |
 |
 |
 |
|