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DIVINA
COMMEDIA: PARAFRASI
INFERNO
CANTO XIX° |
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1 |
O Simon
mago, o miseri seguaci
che le cose di Dio, che di bontate
deon essere spose, e voi rapaci |
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1 |
O mago Simone, o suoi sciagurati seguaci, che gli uffici
sacri, che devono essere uniti alla bontà (dati e
ricevuti da chi è buono), voi avidamente |
4 |
per oro e
per argento avolterate,
or convien che per voi suoni la tromba,
però che ne la terza bolgia state. |
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4 |
prostituite per denaro; è
giusto che adesso sia proclamata la vostra condanna,
poiché vi trovate nella terza bolgia. |
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In un passo degli Atti degli Apostoli (VIII, 9-20) si
narra che Simone, il quale praticava l’arte magica in
Samaría, offrì del denaro agli apostoli Pietro e
Giovanni in cambio del potere di comunicare ai fedeli,
attraverso l’imposizione delle mani, lo Spirito Santo.
Ma San Pietro gli disse: "Va in perdizione tu e il tuo
denaro, perché tu hai creduto che il dono di Dio si
potesse acquistare col denaro!". Dal mago Simone prese
nome di "simonia" l’atto di comprare o vendere quelle
che Dante chiama qui le cose di Dio: cariche
ecclesiastiche e sacramenti. Nel Medioevo la simonia fu
a volte usata dai pontefici come strumento politico, per
accrescere il potere temporale del papato. Occorre
notare tuttavia che Dante considera la simonia in un
senso molto lato, poiché egli condanna come tale non
solo la compravendita dei beni spirituali, ma anche il
nepotismo e tutta la politica di alcuni papi del suo
tempo, colpevoli, ai suoi occhi, di trascurare le cose
sacre per brama di dominio e di ricchezza. In queste due
terzine lo stile è quello profetico e i richiami alle
Sacre Scritture sono evidenti. Poiché il legame che
unisce le cose di Dio ai buoni è il solo legame giusto,
legittimo, esso si configura come "matrimonio" (spose);
poiché il legame che le unisce ai cattivi, a coloro che
se ne servono per acquistare, ricchezze e prestigio, è
iniquo, illecito, esso si configura come " adulterio " o
" lenocinio " (avolterate). Nella Bibbia e poi in tutta
la letteratura di ispirazione biblica queste immagini
sono frequenti e di grande efficacia, ‘ poiché
trasferiscono concetti astratti in un ambito di
esperienze semplici, ma fondamentali, in cui tutti
possiamo riconoscerci. |
7 |
Già eravamo,
a la seguente tomba,
montati de lo scoglio in quella parte
ch'a punto sovra mezzo 'l fosso piomba. |
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7 |
Già eravamo saliti, nella
bolgia seguente, su quel tratto del ponte che sovrasta
perpendicolarmente proprio la parte mediana della
bolgia. |
10 |
O somma
sapïenza, quanta è l'arte
che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo,
e quanto giusto tua virtù comparte! |
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10 |
O sapienza infinita,
quanta forza creativa dimostri in cielo, in terra e
nell’inferno, e con quanta giustizia il tuo potere
distribuisce premi e castighi! |
13 |
Io vidi per
le coste e per lo fondo
piena la pietra livida di fóri,
d'un largo tutti e ciascun era tondo. |
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13 |
Notai sulle pareti e sul fondo la roccia scura piena di
buchi, tutti della stessa ampiezza e tutti circolari. |
16 |
Non mi
parean men ampi né maggiori
che que' che son nel mio bel San Giovanni,
fatti per loco d'i battezzatori; |
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16 |
Non mi sembravano meno
larghi né più ampi di quelli che si trovano nel
Battistero di San Gìovanni, creati perché in essi
prendessero posto coloro che somministravano il
battesimo; |
19 |
l'un de li
quali, ancor non è molt' anni,
rupp' io per un che dentro v'annegava:
e questo sia suggel ch'ogn' omo sganni. |
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19 |
uno dei
quali, non molti anni fa, fu da me spezzato a causa di
uno che era sul punto di morirvi soffocato: e questa sia
testimonianza, che tolga dall’errore ogni persona. |
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Stando a quanto qui dice il Poeta e alle spiegazioni dei
primi commentatori, nel Battistero di San Giovanni erano
stati costruiti, intorno al fonte, battesimale, alcuni
piccoli pozzi, in cui prendevano posto i preti che
celebravano il battesimo. Essi in tal modo stavano al
riparo dalla folla che, nei due giorni dell’anno in cui
a Firenze si usava battezzare (la vigilia dì Pasqua e la
vigilia di Pentecoste), si accalcava numerosa intorno a
loro e potevano, più facilmente immergere i bambini
nell’acqua.
Altri commentatori interpretano peró battezzatori come
"fonti battesimali". Il Pagliaro, sulla scorta di una
testimonianza dell’Ottimo e di un disegno trovato in un
antico codice, propende per questa seconda accezione e
suggerisce, al fine di rendere chiara l’espressione
fatti per luogo de’ battezzatori, di dare a luogo il
senso di "spazio vuoto", in modo che essa venga a
significare "fatti come spazio vuoto, cavità, vasca dei
battezzatoi". |
22 |
Fuor de la
bocca a ciascun soperchiava
d'un peccator li piedi e de le gambe
infino al grosso, e l'altro dentro stava. |
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22 |
Fuori dell’apertura sporgevano sopra ogni buco i piedi e
parte delle gambe, fino alla coscia, di un dannato, e il
resto dei corpo era conficcato dentro. |
25 |
Le piante
erano a tutti accese intrambe;
per che sì forte guizzavan le giunte,
che spezzate averien ritorte e strambe. |
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25 |
Entrambe le piante dei piedi di tutti questi peccatori
erano cosparse di fiamme; e perciò le loro
articolazioni, si agitavano con tanta forza, che
avrebbero spezzato funi di vimini e di erbe. |
28 |
Qual suole
il fiammeggiar de le cose unte
muoversi pur su per la strema buccia,
tal era lì dai calcagni a le punte. |
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28 |
Come le fiamme che
consumano gli oggetti unti ne sfiorano soltanto la
superficie più esterna, così avveniva sulle piante di
quei piedi dalle calcagna alle punte (delle dita). |
31 |
«Chi è
colui, maestro, che si cruccia
guizzando più che li altri suoi consorti»,
diss' io, «e cui più roggia fiamma succia?». |
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31 |
"Maestro, chi è colui che
manifesta il suo dolore agitando più degli altri suoi
compagni di sorte" io domandai, "e che una fiamma più
viva consuma?" |
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La similitudine dei versi 28-29 richiama quella dello
stizzo verde dell’episodio di Pier delle Vigne. Ambedue
hanno la funzione di rendere credibile, avvicinandolo
alla realtà più umìle e, in apparenza, insignificante,
un particolare aspetto - forse il più tragico - delle
pene infernali: quello che ci mostra il linguaggio
ridotto a manifestazione fisiologica, portato sul piano
della più evidente materialità (nel canto tredicesimo
troviamo il binomio inscindibile parole e sangue; qui,
nella grottesca scenografia della terza bolgia, al verso
45, sì piangeva con la zanca). Osserva il De Sanctis:
Quest’uomo pensa e sente per mezzo dei piedi che soli
paiono di fuori, e simile ad un cieco che ha la vista
nel tatto, i suoi cinque sensi sono concentrati nel
piede e se sente dolore della fiamma che gli succia la
carne, egli piange, piange con la zanca; e se sente
dispetto, il suo dispetto esprime torcendo i piedi; é il
gesto del piede sostituito al gesto della testa e delle
mani . Succia si riferisce al termine paragonato (il
peccatore conficcato nel foro, o, più precisamente, le
piante dei suoi piedi), ma è suggerito dal termine di
paragone (le cose unte) se la fiamma assorbisse gli
umori delle membra del paziente" (Casini-Barbi). |
34 |
Ed elli a
me: «Se tu vuo' ch'i' ti porti
là giù per quella ripa che più giace,
da lui saprai di sé e de' suoi torti». |
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34 |
E Virgilio: "Se desideri
che io ti accompagni laggiù scendendo da quell’argine
che è più basso (più giace: è là via più interna della
bolgia, che è più bassa di quella esterna perché il
piano di Malebolge declina verso il pozzo centrale),
apprenderai da lui chi fu e quali furono i suoi
peccati". |
37 |
E io: «Tanto
m'è bel, quanto a te piace:
tu se' segnore, e sai ch'i' non mi parto
dal tuo volere, e sai quel che si tace». |
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37 |
E io: "Tutto quello che
piace a te mi è gradito: tu sei quello che comanda, e
sai che non mi allontano dalla tua volontà, e conosci
quello che, da parte mia, è taciuto". |
40 |
Allor
venimmo in su l'argine quarto;
volgemmo e discendemmo a mano stanca
là giù nel fondo foracchiato e arto. |
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40 |
Giungemmo allora sul
quarto argine: ci dirigemmo e scendemmo verso sinistra
giù nel fondo pieno di fori e malagevole da
attraversare, |
43 |
Lo buon
maestro ancor de la sua anca
non mi dipuose, sì mi giunse al rotto
di quel che si piangeva con la zanca. |
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43 |
Virgilio non mi pose a
terra dal suo fianco, finché non mi accostò al foro di
colui che tanto intensamente manifestava il proprio
dolore con la gamba. |
46 |
«O qual che
se' che 'l di sù tien di sotto,
anima trista come pal commessa»,
comincia' io a dir, «se puoi, fa motto». |
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46 |
"Chiunque tu sia, che hai
la parte superiore del corpo in basso, anima malvagia
conficcata come un palo", presi a dire, "se ti è
possibile, parla." |
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La pena dei simoniaci riflette - come ha mostrato il
D’Ovidio - un rigoroso contrappasso: "i simoniaci,
cupidi, mirarono alla terra, fonte dell’oro e di tutti i
beni materiali, terreni, dimenticando interamente il
cielo a cui avrebbero dovuto tener sempre volti gli
occhi; ebbene, la loro pena è per l’appunto d’essere ora
infissi a terra, e al cielo tener volti i piedi, tirar’
calci al cielo anche nella vita futura... Il simoniaco
capovolse l’ufficio suo traendo vantaggi materiali per
l’appunto, dalle cose spirituali, dando esempi che erano
il preciso opposto di quelli che l’uomo di chiesa
avrebbe dovuti dare; ed è capovolto! Avrebbe dovuto
aspirare alla aureola del santo, e un nimbo di fuoco gli
succia i piedi: un’aureola a rovescio!" La pena dei
simoniaci presenta alcune affinità con quella degli
eretici: tra l’altro, agli avelli degli eretici
corrispondono i fori dei simoniaci, mentre, tanto nel
sesto cerchio che nella terza bolgia, il fuoco, simbolo
dello Spirito Santo, tormenta coloro i quali contro lo
Spirito Santo maggiormente hanno peccato. Ma, accanto
alle affinità, occorre notare le differenze: mentre gli
eretici sono distesi nei loro sepolcri (la gente che per
li sepolcri giace) e possono, sia pure per poco,
cambiare la loro posizione (Farinata si erge, Cavalcante
si leva in ginocchio), i simoniaci sono imprigionati a
testa in giù come pali confitti in terra (di qui lo
straordinario rilievo che assume il movimento delle loro
gambe); il fuoco, che fa da cornice grandiosa alle tombe
degli eretici, nella terza bolgia si limita a sfiorare
le piante dei piedi dei simoniaci come cose unte
qualsiasi. |
49 |
Io stava
come 'l frate che confessa
lo perfido assessin, che, poi ch'è fitto,
richiama lui per che la morte cessa. |
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49 |
lo stavo nella posizione del frate che
raccoglie la confessione del sicario spergiuro, il
quale, dopo essere stato confitto in terra, lo richiama,
in modo che allontana la morte. |
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Il termine assessin è di origine araba e fu introdotto
in Occidente dopo le Crociate. Gli Assassini erano una
setta musulmana, i cui membri, legati da un giuramento
di obbedienza assoluta al loro capo, il Veglio della
Montagna, e sotto l’influsso di una droga (l’hascisc),
commettevano ogni sorta di misfatti. In Italia ai tempi
di Dante la parola indicava colui che uccide per danaro.
Come ha mostrato il Paglíaro, l’aggettivo perfido che
qualifica al verso 50, assessin, è riferito, con il
significato di " infedele ", " traditore ", al "sicario,
il quale venga meno all’obbligo dei silenzio, che egli,
si presume, ha contratto nell’atto di ricevere il suo
ignobile mandato". Errata sarebbe quindi
l’interpretazione di coloro che attribuiscono a cessa il
valore di "allontana, differisce, sia pur di pochi
istanti, la morte" (Sapegno). Il sicario che rivela al
confessore il nome del proprio mandante non si limita a
prolungare, in base a quest’analisi del Pagliaro, la
propria vita di alcuni istanti, ma la salva. Cessa non
può quindi avere altro significato che quello di "
allontana definitivamente ".
I sicari erano condannati nel Medioevo alla "
propagginazione ": venivano cioè sepolti vivi con la
testa in giù. |
52 |
Ed el gridò:
«Se' tu già costì ritto,
se' tu già costì ritto, Bonifazio?
Di parecchi anni mi mentì lo scritto. |
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52 |
Ed egli gridò: "Sei già qui dritto in
piedi, sei già qui dritto in piedi, Bonifacio? Il libro
del futuro mi ha ingannato di molti anni. |
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Il dannato che parla è Giovanni Gaetano Orsini, papa dal
1277 al 1280 col nome di Niccolò III. Ecco come lo
descrive un antico commentatore, il Lana: "Per acquistar
moneta non si vedea stanco né sazio di vendere e di
alienare le cose spirituali per le temporali,
commettendo continuo simonia, in per quello che ogni suo
atto si drizzava ad avere pecunia; e questo volea per
far grandi quelli di casa sua e sé nel mondo". Niccolò
III scambia Dante per Bonifacio VIII, il pontefice
destinato a prendere il suo posto all’entrata del foro
dei papi simoniaci e si meraviglia che sia arrivato in
anticipo sulla data prevista (Bonifacio VIII, asceso al
soglio pontificio nel 1294, morì nel 1303, tre anni dopo
l’immaginario viaggio di Dante nell’oltretomba, avvenuto
nella primavera del 1300). Bonifacio VIII è considerato
da Dante il principale responsabile delle sciagure di
Firenze (sostenne il partito dei Neri che costrinse il
Poeta all’esilio). In più luoghi della Commedia la
figura di questo pontefice, chiamato da Dante a render
conto delle sue colpe politiche non meno che delle sue
infrazioni alla legge di Dio, grandeggia come quella di
un genio del male. Di lui scrive uno storico guelfo, il
Villani (Cronaca VIII, 6): "pecunioso fu molto per
aggrandire la Chiesa e’ suoi parenti, non facendo
coscienza di guadagno, che tutto dicea gli era licito
quello ch’era della Chiesa". Il grande tema di questo
canto è quello del capovolgimento del rapporto tra
valori umani (la ricchezza, il potere) e valori divini
(la bontate del verso 2). Esso è evidente non solo nella
posizione dei simoniaci, conficcati a testa in giù nelle
loro buche, ma anche nel rapporto che si istituisce fin
da principio fra Dante e Niccolò III. "Laggiù dove tutto
è capovolto, è capovolta, vorremmo dire, anche la
gerarchia: il papa in giù, a confessarsi e lasciarsi
sgridare; in su, un semplice laico. attingendo autorità
dal suo zelo generoso, lo sgrida e vitupera, curvo verso
i piedi d’un papa non per baciarglieli ma per udire la
trista confessione e fargli giungere i debiti
rimproveri."(D’Ovidio) |
55 |
Se' tu sì
tosto di quell' aver sazio
per lo qual non temesti tòrre a 'nganno
la bella donna, e poi di farne strazio?». |
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55 |
Sei tu così presto sazio di quei beni
materiali per i quali non esitasti ad impadronirti con
l’inganno della Chiesa, e poi a prostituirla?" |
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Dante mostra di dar credito alle dicerie che correvano
sull’elezione al pontificato di Bonifacio VIII. Questi,
secondo tali voci, aveva indotto Celestino V ad abdicare
e si era fatto eleggere ricorrendo alla frode e
all’intimidazione. |
58 |
Tal mi fec'
io, quai son color che stanno,
per non intender ciò ch'è lor risposto,
quasi scornati, e risponder non sanno. |
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58 |
Io divenni come quelli
che, per il fatto che non comprendono la risposta che
viene data loro, restano come confusi, e non sanno
rispondere. |
61 |
Allor
Virgilio disse: «Dilli tosto:
"Non son colui, non son colui che credi"»;
e io rispuosi come a me fu imposto. |
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61 |
Allora Virgilio disse:
"Digli subito: "Non sono quello, non sono quello che
credi" "; e io risposi come mi fu ordinato. |
64 |
Per che lo
spirto tutti storse i piedi;
poi, sospirando e con voce di pianto,
mi disse: «Dunque che a me richiedi? |
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64 |
Per questo il dannato
contorse quanto più poteva i piedi; poi, sospirando e
con voce lamentosa, mi disse: "Allora, cosa vuoi sapere
da me? |
67 |
Se di saper
ch'i' sia ti cal cotanto,
che tu abbi però la ripa corsa,
sappi ch'i' fui vestito del gran manto; |
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67 |
Se a tal punto ti importa
conoscere chi io sia, da essere disceso dall’argine per
questo motivo, sappi che io fui rivestito del manto
papale. |
70 |
e veramente
fui figliuol de l'orsa,
cupido sì per avanzar li orsatti,
che sù l'avere e qui me misi in borsa. |
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70 |
e fui davvero degno della
famiglia degli Orsini, alla quale appartenni, a tal
punto desideroso di rendere potenti gli altri membri
della mia famiglia, che nel mondo misi nella borsa le
ricchezze, e qui me stesso. |
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Niccolò III non rivela se non indirettamente la propria
identità, attraverso una perifrasi che ha lo scopo di
mettere in luce come egli fosse avido di beni materiali
e propenso a favorire in tutti i modi i membri della sua
famiglia: e veramente fui figliuol dell’orsa. L’orso era
ritenuto animale ingordo e amantissimo della prole. |
73 |
Di sotto al
capo mio son li altri tratti
che precedetter me simoneggiando,
per le fessure de la pietra piatti. |
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73 |
Sotto la mia testa, nelle
crepe della roccia stanno appiattiti, dopo esser stati
trascinati fin li, gli altri (papi) che mi precedettero
nel peccato di simonia. |
76 |
Là giù
cascherò io altresì quando
verrà colui ch'i' credea che tu fossi,
allor ch'i' feci 'l sùbito dimando. |
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76 |
Anch’io precipiterò laggiù
allorché giungerà colui che io ritenevo tu fossi. quando
ti rivolsi l’improvvisa domanda. |
79 |
Ma più è 'l
tempo già che i piè mi cossi
e ch'i' son stato così sottosopra,
ch'el non starà piantato coi piè rossi: |
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79 |
Ma più lungo è il tempo in
cui mi sono bruciato i piedi e sono stato così
capovolto, di quello in cui egli starà confitto con i
piedi arsi dalle fiamme: |
82 |
ché dopo lui
verrà di più laida opra,
di ver' ponente, un pastor sanza legge,
tal che convien che lui e me ricuopra. |
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82 |
poiché dopo di lui verrà
da occidente un papa senza rispetto delle leggi umane e
divine, dalla condotta ancor più riprovevole, tale da
dover ricoprire sia lui (Bonifacio VIII) sia me. |
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Il nuovo pontefice destinato ad occupare l’imboccatura
del foro dei papi simoniaci dopo Bonifacio VIII e a
ricoprire col suo corpo sia il corpo di quest’ultimo sia
quello di Niccolò III (che saranno in tal modo spinti in
basso, verso le fessure che finiranno per occupare
definitivamente, nel profondo della roccia) è Bertrand
de Got, originario della Guascogna e arcivescovo di
Bordeaux (ecco perché Niccolò III dice che verrà... di
ver ponente), pontefice dal 1305 al 1314 col nome di
Clemente V. Ebbe fama di uomo "molto cupido di moneta e
simoniaco, che ogni beneficio per denari s’avea in sua
corte" (Villani - Cronaca IX, 59). |
85 |
Nuovo Iasón
sarà, di cui si legge
ne' Maccabei; e come a quel fu molle
suo re, così fia lui chi Francia regge». |
|
85 |
Sarà un novello Giasone, del quale si
possono avere notizie nel libro dei Maccabei; e come nei
confronti di Giasone il suo sovrano si mostrò debole,
così si mostrerà debole, nei confronti di questo papa,
il re di Francia". |
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Nel secondo libro dei Maccabei (IV, 7-14) è detto che
Giasone, dopo aver ottenuto, con una promessa di danaro,
il sommo sacerdozio degli Ebrei dal re di Siria Antioco
Epifane, si attirò l’odio di tutti per la sua vita empia
e dissoluta. Sia Giasone sia Clemente V, secondo il
Poeta, ottennero la suprema carica sacerdotale,
rispettivamente nella religione ebraica e in quella
cristiana, per l’eccessiva condiscendenza dei loro re.
Si diceva infatti che Bertrand de Got fosse asceso al
pontificato per il forte appoggio avuto dal re di
Francia Filippo il Bello, al quale aveva promesso,
secondo quanto riferisce il Villani (Cronaca VIII, 80),
ampie concessioni e, tra l’altro, l’uso di "tutte le
decime del reame per cinque anni". Dante si limita qui a
preannunziarne l’arrivo nella bolgia dei simoniaci, alla
quale è destinato. ma le colpe più gravi di cui questo
papa si macchiò agli occhi del Poeta, e delle quali si
parla in altri luoghi della Commedia, furono il
trasferimento della sede pontificia da Roma ad Avignone
(1309) e l’opposizione alla politica di Arrigo VII,
sceso in Italia nel 1310 a ristabilire l’autorità
imperiale. |
88 |
Io non so
s'i' mi fui qui troppo folle,
ch'i' pur rispuosi lui a questo metro:
«Deh, or mi dì: quanto tesoro volle |
|
88 |
Io non so se a questo
punto fui troppo temerario (perché, pur essendo dannato,
l’interlocutore era un pontefice), dal momento che gli
risposi proprio in questo modo : " Orsù, dimmi adesso:
quanta ricchezza pretese |
91 |
Nostro
Segnore in prima da san Pietro
ch'ei ponesse le chiavi in sua balìa?
Certo non chiese se non "Viemmi retro". |
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91 |
Gesù Cristo da San Pietro
prima di mettere in suo potere le chiavi (del regno dei
cieli)? Sicuramente non gli chiese se non: "Seguimi". |
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I versi 91-92 si riferiscono al seguente passo del
Vangelo di Matteo (XVI, 18-19) : "Ed io dico a te, che
tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia
Chiesa, e le porte dell’inferno mai prevarranno contro
di lei. E a te darò le chiavi del regno dei cieli: e
qualunque cosa avrai legata sulla terra, sarà legata
anche nei cieli; e qualunque cosa avrai sciolta sulla
terra, sarà sciolta anche nei cieli". |
94 |
Né Pier né
li altri tolsero a Matia
oro od argento, quando fu sortito
al loco che perdé l'anima ria. |
|
94 |
Né Pietro né gli altri apostoli si
fecero consegnare da Mattia oro e argento, allorché
questi ottenne in sorte di occupare il posto perduto dal
malvagio Giuda Iscariota. |
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Negli Atti degli Apostoli (I, 13-26) è detto che dopo il
suicidio di Giuda Iscariota fu tratto a sorte il nome di
colui che avrebbe dovuto occuparne il posto e "la sorte
cadde su Mattia, che fu aggregato agli undici apostoli". |
97 |
Però ti sta,
ché tu se' ben punito;
e guarda ben la mal tolta moneta
ch'esser ti fece contra Carlo ardito. |
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97 |
Perciò stattene dove sei, poiché sei
giustamente punito; e custodisci con attenzione il
denaro sottratto con l’inganno, che ti rese audace
contro Carlo. |
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Niccolò III osteggiò in vari modi la politica di Carlo I
d’Angiò, ma non è chiaro a quale fatto specifico intenda
riferirsi il Poeta quando accenna alla mal tolta moneta.
Secondo una notizia, rivelatasi poi infondata, questo
pontefice avrebbe accettato, per denaro, di appoggiare
la congiura che preparò la rivolta dei Vespri Siciliani,
la quale però, scoppiò due anni dopo la morte del papa.
Tuttavia può darsi che la espressione usata da Dante al
verso 98 alluda soltanto alle rendite dei territori
della Chiesa, delle quali Niccolò III si appropriò
indebitamente e che ne aumentarono il potere rendendolo
ardito contro Carlo d’Angiò. |
100 |
E se non
fosse ch'ancor lo mi vieta
la reverenza de le somme chiavi
che tu tenesti ne la vita lieta, |
|
100 |
E se non
fosse per il fatto che ancora me lo impedisce il
rispetto dovuto alle chiavi, simbolo della dignità
pontificale, che tu avesti in tuo potere nella vita
terrena, |
103 |
io userei
parole ancor più gravi;
ché la vostra avarizia il mondo attrista,
calcando i buoni e sollevando i pravi. |
|
103 |
ricorrerei a parole ancora
più aspre; poiché la vostra avidità corrompe il mondo,
calpestando i buoni ed elevando (alle cariche più alte,
per simonia) i cattivi. |
106 |
Di voi
pastor s'accorse il Vangelista,
quando colei che siede sopra l'acque
puttaneggiar coi regi a lui fu vista; |
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106 |
A voi, pontefici, pensò
l’evangelista (San Giovanni), allorché quella che siede
sulle acque fu da lui veduta fornicare con i re, |
109 |
quella che
con le sette teste nacque,
e da le diece corna ebbe argomento,
fin che virtute al suo marito piacque. |
|
109 |
quella che nacque con le
sette teste, e trasse vigore dalle dieci corna, finché
al suo sposo fu cara la virtù. |
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Nell’Apocalisse (XVII, 1 sgg.) San Giovanni narra di
aver avuto la visione della "gran meretrice, che è
assisa sopra le vaste acque, con la quale hanno
fornicato i re della terra, e che ha inebriati gli
abitanti della terra col vizio della sua lussuria" e di
aver veduto, nel deserto, "una donna seduta sopra una
bestia di color rosso scarlatto, coperta di nomi
blasfemi, con sette teste e dieci corna". Per San
Giovanni la "gran meretrice" è la Roma pagana. Essa
"siede sopra le vaste acque", intendendo per acque "i
popoli, le moltitudini, le nazioni e le lingue"
(Apocalisse XVII, 15); con questa espressione San
Giovanni vuole probabilmente rilevare che le fondamenta
del potere di Roma sono instabili. Anche la bestia sulla
quale siede la donna veduta nel deserto simboleggia
Roma. "Le sette teste sono i sette monti sui quali sta
assisa la donna." (Apocalisse XVII, 9) "Le dieci corna..
sono dieci re, che non han ricevuto ancora il regno."
(Apocalisse XVII, 12) Dante, sviluppando liberamente il
passo biblico, identifica la donna (colei che siede) con
la bestia (quella che con le sette teste nacque) e si
serve di questa allegoria per designare la Roma dei
papi, quella Roma che divenne cristiana (e, in quanto
cristiana, nacque, cominciò a vivere) per opera dei
sette sacramenti (le sette teste) e prese alimento, e
quindi forza, dai dieci comandamenti (diece corna), fin
quando il papa (suo marito) non la contaminò con la
simonia, spingendola, per avidità di beni terreni, a
prostituirsi con i principi della terra, partecipando
alle lotte per il potere. |
112 |
Fatto
v'avete dio d'oro e d'argento;
e che altro è da voi a l'idolatre,
se non ch'elli uno, e voi ne orate cento? |
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112 |
Dell’oro e dell’argento
avete fatto il vostro Dio: e quale altra differenza c’è
tra voi e gli idolatri, se non quella che, per ogni
idolo che essi adorano. voi (in quanto adoratori dei
denaro, di ogni pezzo d’oro e d’argento) ne adorate un
numero sterminato? |
115 |
Ahi,
Costantin, di quanto mal fu matre,
non la tua conversion, ma quella dote
che da te prese il primo ricco patre!». |
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115 |
Ahi, Costantino, di quanto
male fu cagione, non la tua conversione (alla fede
cristiana), ma quella donazione che ricevette da te il
primo papa che fu ricco!" |
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Secondo una leggenda, ritenuta nel Medioevo verità
storica e confutata soltanto nel quindicesimo secolo
dall’umanista Lorenzo Valla, Costantino donò,
convertendosi al Crístianesimo, la città di Roma a papa
Silvestro I, ponendo così le basi del potere temporale
dei papi. Dante contesta nella Monarchia il valore
giuridico di questa donazione, sostenendo che nessun
imperatore può avere il diritto di alienare una parte
dell’Impero, non essendo questo proprietà personale di
un singolo, e, rifacendosi al Vangelo, ammonisce che la
Chiesa non può accettare alcun bene temporale (III, X e
XIII). |
118 |
E mentr' io
li cantava cotai note,
o ira o coscïenza che 'l mordesse,
forte spingava con ambo le piote. |
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118 |
E, mentre gli facevo
sentire simili parole, fosse rabbia o rimorso ciò che lo
tormentava, scalciava violentemente con entrambi i
piedi. |
121 |
I' credo ben
ch'al mio duca piacesse,
con sì contenta labbia sempre attese
lo suon de le parole vere espresse. |
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121 |
Credo davvero che a
Virgilio piacesse (quello che avevo detto), tanto
soddisfatta era l’espressione con la quale prestò
attenzione, per tutta la durata del mio discorso, alle
parole veraci da me pronunciate. |
124 |
Però con
ambo le braccia mi prese;
e poi che tutto su mi s'ebbe al petto,
rimontò per la via onde discese. |
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124 |
Perciò mi prese con
entrambe le braccia; e dopo avermi sollevato all’altezza
del petto, risalì per il cammino dal quale era disceso. |
127 |
Né si stancò
d'avermi a sé distretto,
sì men portò sovra 'l colmo de l'arco
che dal quarto al quinto argine è tragetto. |
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127 |
Né si stancò di tenermi
abbracciato strettamente, finché non mi ebbe portato nel
punto più alto del ponte che serve da passaggio dal
quarto al quinto argine. |
130 |
Quivi
soavemente spuose il carco,
soave per lo scoglio sconcio ed erto
che sarebbe a le capre duro varco. |
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130 |
Qui depose dolcemente il
carico, dolcemente sul ponte irto di sporgenze e ripido
che rappresenterebbe anche per le capre un passaggio
malagevole. |
133 |
Indi un
altro vallon mi fu scoperto. |
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133 |
Di lì mi si aprì davanti
un’altra bolgia. |
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