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DIVINA
COMMEDIA: PARAFRASI
INFERNO
CANTO XXI° |
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1 |
Così di
ponte in ponte, altro parlando
che la mia comedìa cantar non cura,
venimmo; e tenavamo 'l colmo, quando |
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1 |
In tal modo giungemmo da un ponte all’altro (da quello
della quarta bolgia a quello della quinta), discorrendo
di cose che il mio poema non si propone di prendere in
considerazione; e ci trovavamo sul culmine del ponte,
allorché |
4 |
restammo per
veder l'altra fessura
di Malebolge e li altri pianti vani;
e vidila mirabilmente oscura. |
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4 |
ci fermammo per vedere
l’altra cavità di Malebolge e gli altri lamenti inutili;
e la vidi straordinariamente buia. |
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Con il termine comedìa, già usato alla fine del canto
XVI (verso 128), Dante designa generalmente il proprio
poema, perché, come è detto nel De Vulgari Eloquentia (II,
IV, 56) e nella lettera indirizzata dal Poeta a
Cangrande della Scala (XIII, 29), è scritto in uno stile
che non è quello tragico, proprio dei componimenti
medievali chiamati "canzoni", e perché la vicenda in
esso narrata ha un lieto fine. Lo stile tragico, secondo
quello che afferma Dante, si basa su di una rigorosa
scelta degli argomenti e delle parole: è uno stile
aristocratico; la tragedia, in questa accezione
medievale, può trattare solo argomenti elevati e li deve
trattare servendosi di un linguaggio selezionato. La
commedia invece non ha limitazioni di argomento né di
linguaggio. Nel poema di Dante gli argomenti più umili
sono trattati con la stessa serietà con cui sono
affrontati i più sublimi. Si è parlato perciò, molto
opportunamente, a proposito di Dante, di "plurilinguismo"
o "poliglottìa... dei generi letterari" (Contini), o di
"mescolanza di stili" (Auerbach). A questo proposito
deve essere notato che proprio col canto XXI si apre,
nella cupa atmosfera infernale, un intermezzo che è
stato generalmente definito comico e che è improntato ad
un forte realismo. Il linguaggio stilizzato, che è stato
proprio di Dante giovane, appare qui del tutto
dimenticato. Al posto delle raffinate atmosfere dei
dolce stil novo, che si riproporranno approfondite in
alcuni passi della seconda e della terza cantica,
troviamo, nei canti XXI e XXII dell’Inferno, una
spregiudicatezza nel trattare la propria materia che
avvicina Dante ai poeti giocosi e realistíci del suo
tempo, come, tanto per fare un nome, Cecco Angiolieri. |
7 |
Quale ne l'arzanà
de' Viniziani
bolle l'inverno la tenace pece
a rimpalmare i legni lor non sani, |
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7 |
Come nell’arsenale dei
Veneziani durante l’inverno bolle la pece che aderisce e
incolla e che serve a spalmare di nuovo le loro navi
danneggiate, |
10 |
ché navicar
non ponno - in quella vece
chi fa suo legno novo e chi ristoppa
le coste a quel che più vïaggi fece; |
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10 |
poiché non possono
navigare; e invece di navigare chi si costruisce una
nave nuova e chi chiude con la stoppa le falle apertesi
nelle fiancate di quella che ha fatto più viaggi; |
13 |
chi ribatte
da proda e chi da poppa;
altri fa remi e altri volge sarte;
chi terzeruolo e artimon rintoppa - : |
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13 |
chi dà colpi di martello a prua e chi a poppa; altri
fabbricano remi ed altri attorcigliano la canapa per
farne funi; alcuni rattoppano la vela minore e altri
quella maggiore, |
16 |
tal, non per
foco ma per divin' arte,
bollia là giuso una pegola spessa,
che 'nviscava la ripa d'ogne parte. |
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16 |
così, non a causa del
fuoco, ma per opera di Dio, bolliva laggiù una pece
densa, che aderiva viscosamente dappertutto alle pareti
della bolgia. |
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La similitudine tra la bolgia mirabilmente oscura - più
oscura delle altre, per la presenza in essa della pece -
e l’arzanà de’ Viniziani, tutta contenuta nei versi 7-9,
si dilata poi in un quadro che "è come un preludio che
annunzia e in qualche modo anticipa la vasta commedia
che sta per cominciare" (Sapegno). Per il Croce le
comparazioni in Dante hanno a volte vita autonoma,
indipendentemente dalla funzione che è loro assegnata
dal contesto in cui sono inserite, e che è quella di
chiarire o rendere più evidente l’oggetto paragonato.
Sono cioè delle "piccole liriche", delle poesie a sé
stanti. "E tale è questa dell’arsenale, del famoso
arsenale, dei Veneziani, tutta piena del sentimento del
lavoro che ferve, della preparazione per l’opera che si
svolgerà. E’ l’inverno, la navigazione è sospesa o meno
attiva, si guadagna tempo col racconciare i legni
danneggiati e col costruirne di nuovi: le diverse opere
sono accennate l’una dietro l’altra, rapidamente,
ottenendo l’effetto. di esprimere quel lavoro dal ritmo
celere, vario e concorde, faticoso e allegro, che ha
innanzi a sé la lieta visione del prossimo fendere
sicuri l’aperto mare a traffico e acquisto di ricchezze. |
19 |
I' vedea
lei, ma non vedëa in essa
mai che le bolle che 'l bollor levava,
e gonfiar tutta, e riseder compressa. |
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19 |
Io scorgevo questa pece, ma in essa
non scorgevo se non le bolle che il bollore sollevava, e
la vedevo gonfiarsi tutta quanta, ed abbassarsi come
premuta. |
22 |
Mentr' io là
giù fisamente mirava,
lo duca mio, dicendo «Guarda, guarda!»,
mi trasse a sé del loco dov' io stava. |
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22 |
Mentre io guardavo con attenzione
nel fondo della bolgia, Virgilio, dicendomi: "Sta in
guardia, sta in guardia!", mi tirò a sé dal luogo in cui
mi trovavo. |
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Virgilio attira l’attenzione di Dante sullo spettacolo
che sta per cominciare e che avrà per protagonisti i
diavoli. Mai nella Commedia Dante si allontana tanto da
alcune caratteristiche che sembrano essenziali al suo
modo di concepire e di esprimersi (la staticità dei suoi
personaggi, la sobrietà dei loro gesti, alle quali
corrisponde una concentrazione estrema dei sentimenti),
come nella descrizione di questa bolgia, dove al posto
delle figure isolate e ferme troviamo ovunque, come ha
rilevato il Bosco, massa e movimento. Secondo un
giudizio del Momigliano, che ricalca in parte,
sviluppandola, una formulazione critica del De Sanctis,
a mano a mano che Dante si inoltra nell’inferno e "che
la prepotenza della personalità si viene attenuando,
sulle scene a personaggi singoli vengono predominando le
scene di schiere e le scene di sfondo". Nella commedia,
ricca di colpi di scena, di contrattempi e di soluzioni
impreviste, che si svolge lungo tutto l’arco dei canti
dal XXI al XXIII, ritroviamo moduli compostivi propri
della novellistica medievale, qui ricreati con un senso
dell’intreccio ed una vivacità che non si riscontrano
neppure nel Boccaccio, autore che, se da un lato appare
assai più smaliziato di Dante, non ha, del poeta della
Commedia, la schiettezza con cui questi si pone di
fronte alla realtà. |
25 |
Allor mi
volsi come l'uom cui tarda
di veder quel che li convien fuggire
e cui paura sùbita sgagliarda, |
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25 |
Allora mi voltai come colui che è impaziente di vedere
il pericolo al quale deve sfuggire, e che un’improvvisa
paura indebolisce, |
28 |
che, per
veder, non indugia 'l partire:
e vidi dietro a noi un diavol nero
correndo su per lo scoglio venire. |
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28 |
il quale, per il fatto che
guarda, non rimanda la sua fuga; e vidi sopraggiungere
alle nostre spalle un diavolo nero che correva sul
ponticello roccioso. |
31 |
Ahi quant'
elli era ne l'aspetto fero!
e quanto mi parea ne l'atto acerbo,
con l'ali aperte e sovra i piè leggero! |
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31 |
Ahi, quanto era feroce
nell’aspetto! e quanto mi sembrava crudele
nell’atteggiamento, con le ali spiegate e leggiero nel
suo avanzare! |
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Nel
ritratto di questo diavolo, che sfiora appena la terra,
avanzando leggiero quasi volasse "tutto è secco,
nervoso, tagliente: anche la rabbia con cui il demonio
non tiene ma ghermisce. E il punto in cui il peccatore è
ghermito, cioè là ove i piedi si congiungono alla gamba
e i tendini si rilevano nella loro forza, è detto il
nerbo; che dà l’immagine di quei tendini, ma proprio
cogliendone la " forza"" (Grabher). Da notare come in
questo ritratto i tratti più salienti, quelli che meglio
definiscono l’aspetto fisico, e, attraverso questo, il
carattere, del diavol nero, sono messi in rilievo alla
fine dei versi: fero, acerbo, leggiero. L’inversione
sintattica del verso 30 contribuisce, insieme al ritmo
che a questo endecasillabo deriva dall’inusitata cesura,
al senso di movimento impaziente che caratterizza la
scena. Questo diavolo ha una sua nobiltà di
atteggiamenti e un suo vigore - impliciti nel suo essere
dedito senza riserve alla funzione che gli è stata
assegnata (quella di trasportare i dannati) - che
saranno del tutto assenti nei vanagloriosi e volubili
custodi della bolgia che tenteranno prima di impedire il
viaggio dei due pellegrini, poi di ingannarli. |
34 |
L'omero suo,
ch'era aguto e superbo,
carcava un peccator con ambo l'anche,
e quei tenea de' piè ghermito 'l nerbo. |
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34 |
Un dannato gravava con
entrambi i fianchi la sua spalla, che era appuntita e
sporgente, ed egli ne teneva stretta la caviglia. |
37 |
Del nostro
ponte disse: «O Malebranche,
ecco un de li anzïan di Santa Zita!
Mettetel sotto, ch'i' torno per anche |
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37 |
Dal ponte su cui ci
trovavamo disse: "O Malebranche (è il nome dei diavoli
di questa bolgia), ecco uno degli anziani di Lucca
(città devota a Santa Zita) ! Immergetelo completamente
(nella pece), poiché io torno di nuovo |
40 |
a quella
terra, che n'è ben fornita:
ogn' uom v'è barattier, fuor che Bonturo;
del no, per li denar, vi si fa ita». |
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40 |
in quella città in cui
questi peccatori abbondano: in essa ognuno è barattiere,
escluso Bonturo; in essa per danaro il no è trasformato
in sì". |
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Gli "anziani" erano, a Lucca e in altre città italiane,
i magistrati che governavano il comune, insieme al
podestà e al capitano del popolo. Il peccato di
baratteria, di cui si macchiarono i dannati di questa
bolgia, corrisponde, sul piano dei rapporti fra laici, a
quello che è il peccato di simonia nell’ambito della
gerarchia ecclesiastica ed equivale all’incirca a quel
delitto che oggi è contemplato dal codice penale come "
corruzione di pubblico ufficiale ". Ai tempi di Dante
l’accusa di baratteria, frequentissima, era un’arma di
cui si servivano gli uomini politici per colpire i loro
avversari.
Nella sentenza che lo condannò all’esilio Dante stesso
fu accusato di baratteria. Qui quest’accusa viene
indirettamente ritorta contro coloro che l’hanno
formulata. Lucca, infatti, era in Toscana una roccaforte
dei Neri, di quella fazione cioè del partito guelfo che
ebbe in Firenze nella consorteria dei Donati i suoi
rappresentanti più cospicui e in Corso Donati il suo
capo violento e senza scrupoli. Ai Donati e agli altri
Neri fiorentini si deve la cacciata dei Bianchi da
Firenze nel 1302 e l’esilio del Poeta. L’esclusione dal
novero dei barattieri di Bonturo Dati, uomo politico che
a Lucca fu a capo della parte popolare e che poi dovette
riparare nel 1313 a Firenze, dove trovò buone
accoglienze da parte dei Neri, è ironica. Bonturo Dati
fu infatti celebre a Lucca proprio come barattiere. |
43 |
Là giù 'l
buttò, e per lo scoglio duro
si volse; e mai non fu mastino sciolto
con tanta fretta a seguitar lo furo. |
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43 |
Lo gettò laggiù, e tornò
indietro sul ponte roccioso; e nessun mastino liberato
dalla catena fu mai così veloce nell’inseguire il ladro. |
46 |
Quel s'attuffò,
e tornò sù convolto;
ma i demon che del ponte avean coperchio,
gridar: «Qui non ha loco il Santo Volto! |
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46 |
Quello sprofondò, e
riemerse raggomitolato; ma i diavoli che stavano
nascosti sotto il ponte, gridarono: "Qui non c’è il
Santo Volto: |
49 |
qui si nuota
altrimenti che nel Serchio!
Però, se tu non vuo' di nostri graffi,
non far sopra la pegola soverchio». |
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49 |
qui si nuota diversamente
che nel Serchio! Perciò, se vuoi evitare le nostre
unghiate, non sporgerti al di sopra della pece". |
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L’anonimo barattiere di Lucca - che peraltro secondo
alcuni sarebbe un certo Martin Bottaio, la cui morte
avvenne nel periodo in cui Dante immagina di trovarsi
nella quinta bolgia - dopo essere stato scagliato nella
pece bollente, ne riemerge convolto. Questo termine è
suscettibile di diverse interpretazioni. Se lo si prende
nella accezione di " impeciato ", riscontrabile in
alcuni scrittori del Trecento, allora occorre intendere
che i diavoli, stabilita un’affinità fra il volto nero,
perché imbrattato di pece, di questo dannato, e il volto
di un antico crocifisso di legno nero venerato a Lucca
nella basilica di San Martino, si rivolgono al convolto
per dirgli: "qui non si usa far l’ostensione del Santo
Volto; non è il caso che tu mostri fuori della pece il
tuo muso nero" (Barbi). Se invece si dà a convolto il
significato di "raggomitolato", " con la schiena
inarcata ", in modo che la posizione del dannato possa
far pensare a quella di una persona che preghi in
ginocchio, occorre intendere che i diavoli lo
scherniscono per questo atteggiamento. L’espressione,
qui non ha luogo il Santo Volto, dovrebbe allora essere
interpretata così: "E’ inutile che ti inginocchi! Qui
non ci sono sacre immagini da venerare". |
52 |
Poi
l'addentar con più di cento raffi,
disser: «Coverto convien che qui balli,
sì che, se puoi, nascosamente accaffi». |
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52 |
Dopo averlo trafitto con innumerevoli
uncini, dissero: "Qui dovrai darti da fare coperto
(dalla pece), in modo da arraffare, se ti riesce, di
nascosto". |
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La baratteria, in quanto reato, veniva esercitata di
nascosto. Ora i diavoli esortano questo barattiere,
nell’imporgli di non far sopra la pegola soverchio, a
vedere se mai gli riesca di arraffare qualche ricchezza,
come faceva sulla terra, nascostamente, cioè sotto la
superficie della distesa di pece. Il sarcasmo è messo in
rilievo dal dubbio espresso nell’inciso se puoi, col
quale i diavoli sollevano se stessi da qualsiasi
responsabilità in rapporto all’affermazione da loro
fatta: vorrà dire che, se il dannato non riuscirà ad
arraffare nella pece alcuna ricchezza, la colpa sarà
stata unicamente sua; non ne sarà stato capace, non avrà
potuto. Un Impiego analogo dell’inciso se puoi è quello
usato da Dante nel rivolgersi a Niccolò III: se puoi, fa
motto (Inferno XIX, 48). |
55 |
Non
altrimenti i cuoci a' lor vassalli
fanno attuffare in mezzo la caldaia
la carne con li uncin, perché non galli. |
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55 |
Non diversamente i cuochi fanno
immergere dai loro inservienti la carne nella pentola
con gli uncini, in modo che non venga a galla. |
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Nelle leggende medievali l’inferno era spesso descritto
come una cucina in cui si affaccendavano, in veste di
cuochi, i diavoli. Così, nel De Babilonia civitate
infernali di Giacomino da Verona il cuoco Belzebù serve
in tavola al sovrano dell’inferno l’anima di un
peccatore, arrostita "come un bel porco al fogo";
tuttavia questo cibo non soddisfa il suo padrone, perché
non cotto abbastanza. "Ma Dante riduce la tradizione
realistica ad immagine: un’immagine... che mostra il
distacco del Poeta dalla scena raccapricciante, nello
stesso tempo, precisa i limiti di quel mondo
diabolico."(Scolari) |
58 |
Lo buon
maestro «Acciò che non si paia
che tu ci sia», mi disse, «giù t'acquatta
dopo uno scheggio, ch'alcun schermo t'aia; |
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58 |
Virgilio mi disse: "Perché
non si veda che tu ci sei, nasconditi giù, dietro una
sporgenza rocciosa, che ti offra qualche riparo; |
61 |
e per nulla
offension che mi sia fatta,
non temer tu, ch'i' ho le cose conte,
perch' altra volta fui a tal baratta». |
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61 |
e non lasciarti prendere
dal timore, per nessuna offesa che mi venga arrecata,
poiché io so come stanno le cose, e già un’altra volta
mi trovai in una simile baruffa". |
64 |
Poscia passò
di là dal co del ponte;
e com' el giunse in su la ripa sesta,
mestier li fu d'aver sicura fronte. |
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64 |
Poi passò oltre
l’estremità del ponte; e non appena arrivò sul sesto
argine, gli fu necessario avere un atteggiamento
risoluto. |
67 |
Con quel
furore e con quella tempesta
ch'escono i cani a dosso al poverello
che di sùbito chiede ove s'arresta, |
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67 |
Con lo stesso impeto e lo
stesso frastuono con cui i cani si avventano contro il
mendicante il quale chiede l’elemosina subito nel punto
in cui si è fermato, |
70 |
usciron quei
di sotto al ponticello,
e volser contra lui tutt' i runcigli;
ma el gridò: «Nessun di voi sia fello! |
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70 |
i diavoli uscirono da
sotto il ponticello, e puntarono contro di lui tutti gli
uncini; ma egli gridò: "Nessuno di voi abbia cattive
intenzioni! |
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La similitudine dei cani richiama
quella del mastino dei versi 44-45, ma qui l’attenzione
del Poeta si ferma su quello che da un punto di vista
logico costituisce soltanto un elemento secondario. Di
fronte allo scatenarsi dei cani, sottolineato
dall’insistenza (con quel... e con quella) con la quale
il loro impeto viene dapprima indicato nella sua
astratta genericità (furore) e poi veduto nel suo
concreto, plastico manifestarsi (tempesta), spicca,
isolandosi inerme, la figura dei poverello, di cui sono
messi in luce il dolore e l’umiliazíone attraverso una
semplice determinazione avverbiale: di subito. Per un
attimo Dante si è distratto dalla commedia volgare che
si svolge sotto i suoi occhi. Il pericolo corso dal
maestro ha ridestato in lui la sua umanità più profonda. |
73 |
Innanzi che
l'uncin vostro mi pigli,
traggasi avante l'un di voi che m'oda,
e poi d'arruncigliarmi si consigli». |
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73 |
Prima che i vostri uncini
mi colpiscano, si faccia avanti uno di voi e mi ascolti,
e dopo si prenda la deliberazione di uncinarmi". |
76 |
Tutti
gridaron: «Vada Malacoda!»;
per ch'un si mosse - e li altri stetter fermi -
e venne a lui dicendo: «Che li approda?». |
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76 |
Gridarono tutti: "Si
faccia avanti Malacoda!"; per cui uno avanzò, e gli
altri stettero fermi, e quello si avvicinò a Virgilio
dicendo: "Che gli giova?" |
|
I diavoli sono convinti che a nulla serviranno le parole
che Virgilio rivolgerà ad uno di essi. Ma, per pura
malignità, prima di suppliziarlo, consentono ad
ascoltarne le ragioni. Il loro capo Malacoda esprime
questa sicurezza condiscendente e spavalda. |
79 |
«Credi tu,
Malacoda, qui vedermi
esser venuto», disse 'l mio maestro,
«sicuro già da tutti vostri schermi, |
|
79 |
"Credi, Malacoda, di
vedermi giunto sin qui" disse Virgilio "al riparo fino
ad ora da tutte le vostre opposizioni, |
82 |
sanza voler
divino e fato destro?
Lascian' andar, ché nel cielo è voluto
ch'i' mostri altrui questo cammin silvestro». |
|
82 |
senza la volontà di Dio e
il destino favorevole? Lasciaci andare, poiché è voluto
da Dio che io faccia da guida a qualcuno (Dante) per
questo orrido cammino." |
85 |
Allor li fu
l'orgoglio sì caduto,
ch'e' si lasciò cascar l'uncino a' piedi,
e disse a li altri: «Omai non sia feruto». |
|
85 |
Allora la tracotanza lo
abbandonò a tal punto, che lasciò cadere l’uncino ai
suoi piedi, e rivolto agli altri disse: "Dal momento che
le cose stanno così, non sia ferito". |
|
Malacoda, tanto certo della propria superiorità sullo
sconosciuto capitato nella bolgia dove lui è padrone,
scopre in se stesso un vinto dopo le parole di Virgilio:
il suo orgoglio cade, così come di mano gli casca
l’uncino. Il parallelismo tra atteggiamento esteriore e
stato d’animo è sottolineato dalla strettissima affinità
fra i due verbi, di cui l’uno non rappresenta che una
lieve variante dell’altro. |
88 |
E 'l duca
mio a me: «O tu che siedi
tra li scheggion del ponte quatto quatto,
sicuramente omai a me ti riedi». |
|
88 |
E Virgilio: "O tu che stai
appiattato tra le rocce del ponte, torna ormai presso di
me senza timore". |
91 |
Per ch'io mi
mossi e a lui venni ratto;
e i diavoli si fecer tutti avanti,
sì ch'io temetti ch'ei tenesser patto; |
|
91 |
Perciò io mi avviai, e
velocemente mi avvicinai a lui; e i diavoli avanzarono
tutti quanti, tanto che temetti che non avrebbero
rispettato il patto; |
94 |
così vid' ïo
già temer li fanti
ch'uscivan patteggiati di Caprona,
veggendo sé tra nemici cotanti. |
|
94 |
così vidi una volta essere
presi dal timore i soldati che uscivano dal castello di
Caprona dopo aver raggiunto un accordo sulla loro resa,
vedendosi in mezzo a tanti nemici. |
|
Il castello pisano di Caprona fu espugnato nell’agosto
del 1289 dalle milizie della lega guelfa di Toscana,
formate in prevalenza da Lucchesi e Fiorentini. Dante
prese parte a questa spedizione. I soldati di Pisa,
arresisi dopo otto giorni di assedio, ebbero in cambio
salva la vita. In questa similitudine è rievocato il
momento in cui i difensori di Caprona, dopo la resa,
uscivano dal castello, senza sapere se i nemici
avrebbero serbato fede ai patti. Di qui il loro timore. |
97 |
I'
m'accostai con tutta la persona
lungo 'l mio duca, e non torceva li occhi
da la sembianza lor ch'era non buona. |
|
97 |
lo mi
avvicinai con tutto il mio corpo a Virgilio, e non
distoglievo lo sguardo dal loro aspetto, che non era
benevolo. |
100 |
Ei chinavan
li raffi e «Vuo' che 'l tocchi»,
diceva l'un con l'altro, «in sul groppone?».
E rispondien: «Sì, fa che gliel' accocchi». |
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100 |
Essi
abbassavano gli uncini e: "Vuoi che lo tocchi" dicevano
fra loro "sulla schiena?" E rispondevano: "Sì, fa in
modo di assestargli un colpo!" |
103 |
Ma quel
demonio che tenea sermone
col duca mio, si volse tutto presto
e disse: «Posa, posa, Scarmiglione!». |
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103 |
Ma il diavolo che stava
discorrendo con Virgilio, con grande prontezza si voltò,
e disse: "Fermo, fermo, Scarmiglione!" |
106 |
Poi disse a
noi: «Più oltre andar per questo
iscoglio non si può, però che giace
tutto spezzato al fondo l'arco sesto. |
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106 |
Quindi, rivolto a noi,
disse: "Non è possibile proseguire su questa fila di
ponti rocciosi, poiché il sesto ponte giace sul fondo
(della bolgia) ridotto in frantumi. |
109 |
E se
l'andare avante pur vi piace,
andatevene su per questa grotta;
presso è un altro scoglio che via face. |
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109 |
E se tuttavia desiderate
proseguire, andate su per questa roccia (l’argine che
separa la quinta dalla sesta bolgia); vicino vi è
un’altra serie di ponti che consente il passaggio. |
112 |
Ier, più
oltre cinqu' ore che quest' otta,
mille dugento con sessanta sei
anni compié che qui la via fu rotta. |
|
112 |
Ieri, cinque ore più tardi
di quest’ora, si compirono 1266 anni da quando la strada
franò in questo punto. |
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Col suo discorso che contiene una parte di verità (la
fila dei ponti rocciosi si interrompe effettivamente
sulla sesta bolgia) e una parte di menzogna (non esiste
infatti un’altra fila di ponti ancora intatta) Malacoda,
il quale non si è rassegnato a sottomettersi ai voleri
dei cielo, cerca di prendersi su Virgilio una rivincita
dello smacco che il poeta latino gli ha fatto subire.
Per avvalorare quel che dice, fa sfoggio di grande
esattezza (versi 112-114). Il modo di parlare di
Malacoda esprime vanità e sufficienza. Egli si sente
fiero di apparire un capo agli occhi dei due estranei
che pure fino a poco fa stava per lacerare col suo
uncino e nello stesso tempo gioisce all’idea di
ingannarli.
Il ponte sulla sesta bolgia è crollato nel momento della
morte di Cristo, cioè 1266 anni e un giorno meno cinque
ore (essendo la morte avvenuta, secondo il Vangelo di
Luca che Dante nel Convivio mostra di seguire, verso
mezzogiorno del venerdì santo) prima delle sette
antimeridiane del sabato santo del 1300, ora in cui i
due poeti si trovano nella quinta bolgia. Dante riteneva
che Cristo fosse morto a 34 anni, poiché ne calcolava
l’età a partire dall’Incarnazione invece che dalla
Natività. |
115 |
Io mando
verso là di questi miei
a riguardar s'alcun se ne sciorina;
gite con lor, che non saranno rei». |
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115 |
Io mando in quella
direzione qualcuno di questi miei sottoposti, per
osservare se mai qualche dannato esce (dalla pece):
andate con loro, poiché non saranno cattivi". |
118 |
«Tra'ti
avante, Alichino, e Calcabrina»,
cominciò elli a dire, «e tu, Cagnazzo;
e Barbariccia guidi la decina. |
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118 |
"Vieni avanti, Alichino, e
Calcabrina", prese a dire, "e tu, Cagnazzo; e
Barbariccia sia a capo dei dieci. |
121 |
Libicocco
vegn' oltre e Draghignazzo,
Cirïatto sannuto e Graffiacane
e Farfarello e Rubicante pazzo. |
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121 |
Venga anche Libicocco e
Draghignazzo, Ciriatto munito di zanne e Graffiacane e
Farfarello e il rabbioso Rubicante. |
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Secondo il Torraca, alcuni almeno dei nomi di questi
diavoli derivano dalla storpiatura di nomi di
contemporanei del Poeta. Ma indipendentemente da questa
origine, quasi tutti riecheggiano uno o più nomi comuni.
Così Alichino, che deriva da Hellequin, nome di un
diavolo che appare spesso in leggende francesi,
suggerisce una vaga affinità col sostantivo ali; nel
canto successivo vedremo che questo diavolo finirà per
precipitare nella pece proprio per essersi troppo fidato
della potenza delle sue ali. Calcabrina appare ai
commentatori antichi come "colui che calpesta la
rugiada" (calcans pruinam). Cagnazzo può voler dire "
grosso cane " o, meglio, "livido", "paonazzo". Il
significato di Barbariccia è evidente, come pure quello
di Graffiacane, Malacoda, Scarmiglione. Draghignazzo,
sempre secondo Benvenuto, significherebbe "grosso
drago", mentre Ciriatto deve essere ricollegato alla
parola greca choiros, che significa "porco". Libicocco,
secondo il Parodi, risulterebbe da un incrocio fra i
nomi di due venti, il libeccio e lo scirocco. Farfarello
era nell’immaginazione popolare un folletto; Rubicante,
nel colore rosso che il nome evoca, rifletterebbe la sua
indole rabbiosamente bizzarra. |
124 |
Cercate 'ntorno
le boglienti pane;
costor sian salvi infino a l'altro scheggio
che tutto intero va sovra le tane». |
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124 |
Ispezionate tutt’intorno
le bollenti peci: questi siano incolumi fino all’altra
fila di ponti che varcano le bolge senza interrompersi." |
127 |
«Omè,
maestro, che è quel ch'i' veggio?»,
diss' io, «deh, sanza scorta andianci soli,
se tu sa' ir; ch'i' per me non la cheggio. |
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127 |
"Ahimè, maestro, che è
quello che vedo?" dissi. "Ti prego, andiamo via di qui
soli senza guida, se tu conosci il cammino; poiché, per
quel che mi riguarda, non ne ho bisogno. |
130 |
Se tu se' sì
accorto come suoli,
non vedi tu ch'e' digrignan li denti
e con le ciglia ne minaccian duoli?». |
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130 |
Se tu sei perspicace
adesso come di solito, non vedi che digrignano i denti,
e con gli occhi minacciano di procurarci dolori?" |
133 |
Ed elli a
me: «Non vo' che tu paventi;
lasciali digrignar pur a lor senno,
ch'e' fanno ciò per li lessi dolenti». |
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133 |
E Virgilio: "Non voglio
che tu abbia timore: lascia che digrignino come a loro
piace meglio, poiché essi lo fanno per i bolliti che
soffrono". |
136 |
Per l'argine
sinistro volta dienno;
ma prima avea ciascun la lingua stretta
coi denti, verso lor duca, per cenno; |
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136 |
Voltarono a sinistra
sull’argine; ma prima ciascuno di loro, rivolto al capo
che li guidava, aveva stretto, per un segnale, la lingua
con i denti; |
139 |
ed elli avea
del cul fatto trombetta. |
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139 |
ed egli aveva fatto uno
sconcio suono di tromba. |
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Nell’ultima parte del canto l’allocuzione di Malacoda ai
diavoli ha impresso alla poesia un ritmo eroicomico; a
mano a mano una contraddizione si è venuta sempre più
chiaramente delineando fra la sostanza elementare e
grossolana dei sentimenti dei diavoli e il desiderio del
loro capo di farli apparire diversi da quelli che sono,
all’altezza cioè dei loro interlocutori per
ragionevolezza e maturità di pensiero. Questa
contraddizione, ribadita nello stile dall’impiego di
forme proprie della poesia epica (ad esempio la
congiunzione - e - che ricorre ben sette volte
nell’appello che dei suoi fidi fa Malacoda, non ha nei
versi 118-123 una funzione sintattica, ma serve soltanto
a far maggiormente spiccare, isolandoli, i nomi dei
dieci privilegiati), culmina nella trovata del segnale
di partenza del plotone assegnato come scorta ai due
pellegrini. Nonostante le arie che si è dato Malacoda, i
suoi soldati non sono disciplinati. Non prendono nulla
sul serio, fuorché una cosa: lo scherzo. Il massimo
della disciplina e della concordia lo raggiungono qui,
in questo epilogo di canto, proprio perché l’ordíne che
devono eseguire (il segnale) coincide interamente con la
loro vocazione alla beffa pesante e oscena. |
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