1 |
Io vidi già
cavalier muover campo,
e cominciare stormo e far lor mostra,
e talvolta partir per loro scampo; |
|
1 |
Io vidi un tempo cavalieri mettersi in marcia, e
iniziare l’assalto e fare evoluzioni durante le parate,
e a volte ritirarsi per mettersi in salvo; |
4 |
corridor
vidi per la terra vostra,
o Aretini, e vidi gir gualdane,
fedir torneamenti e correr giostra; |
|
4 |
vidi soldati a cavallo sul
vostro suolo, o Aretini, e vidi fare incursioni
devastatrici, scontrarsi le squadre nei tornei e
cimentarsi i singoli nei duelli; |
7 |
quando con
trombe, e quando con campane,
con tamburi e con cenni di castella,
e con cose nostrali e con istrane; |
|
7 |
a volte con trombe, e a
volte con campane, con tamburi e con segnali dalle
fortezze, e con strumenti nostri e forestieri; |
10 |
né già con
sì diversa cennamella
cavalier vidi muover né pedoni,
né nave a segno di terra o di stella. |
|
10 |
ma certamente mai con un
così insolito zufolo vidi partire cavalieri o fanti, o
nave ad un segnale dato dalla riva o indicato da una
costellazione. |
|
Questa scena, come molte di quelle con cui si aprono i
canti di Malebolge, costituisce un quadro a sé, ben
delimitato nel flusso della narrazione.
La similitudine dell’arzanà de’ Vinizíani, posta
all’inizio del canto precedente, risultava più
strettamente legata al contenuto di questo, poiché in
essa erano anticipati alcuni dei motivi di maggior
rilievo della quinta bolgia: l’oscurità accentuata dal
colore della pece, l’irrequietezza di diavoli e dannati,
l’attenzione dei Poeta rivolta ai gruppi e all’azione,
più che ai singoli e all’indagine etico-psicologica. La
scena ariosa che introduce al racconto nel canto XXII,
così contrastante con l’atmosfera infernale
nell’evocazione di vasti spazi e’ nell’insistente
richiamo a movimenti di moltitudini disciplinate e
concordi, fa spicco più decisamente nel tessuto di
raggiri e di primitive cupidigie che caratterizza
l’episodio dei barattieri. Va ancora notato che mentre
la similitudine dell’arzanà de’ Viniziani riallaccia la
pena di questi peccatori ad un mondo di instancabile
operosità artigiana, il quadro delle precise evoluzioni
di eserciti, che funge da preludio al secondo tempo
della commedia di questa bolgia, ricollega lo sconcio
comportamento dei diavoli ad un mondo di virtù
pittoresche e feudali, per cui non a torto il Croce ha
scorto in esso un’amplificazione in chiave eroicomica de
motivo accennato alla fine del canto precedente. Per il
Sapegno questa apertura di canto avrebbe una funzione
catartica; servirebbe cioè ad "alleggerire e nobilitare,
per via d’arte, una materia grossa e triviale", a
"schiarire e aereare un’atmosfera pesante e afosa".
Il Sanguineti scorge in essa invece un’intenzione
opposta: "non di alleggerire e di nobilitare si tratta,
ma anzi di approfondire e degradare, sia pure per via di
contrasto", per cui "l’apparente abbandono inaugurale
del bene fissato luogo drammatico del cenno si risolve
in una dilatazione esasperata dei suo significato
espressivo: non " liberazione " dunque da una materia
grossa e pesante, ma calco severo, ma accentuazione
rigida e intensa". La struttura stilistíca di queste
terzine, basata su di una "giustapposizione analítica
d’immagini" (Marti), che trova il suo riscontro nella
serie degli infiniti presenti, è tipica di certa poesia
realistica del tempo. |
13 |
Noi andavam
con li diece demoni.
Ahi fiera compagnia! ma ne la chiesa
coi santi, e in taverna coi ghiottoni. |
|
13 |
Noi procedevamo con i dieci diavoli:
ah, paurosa compagnia! ma in chiesa si sta con i santi,
e nell’osteria con i furfanti. |
|
Dante enuncia la sua rassegnazione ad accettare l’infida
compagnia dei diavolì con una frase di sapore
proverbiale, simile a quella che si ritrova in un passo
di un romanzo popolare del ‘200, la Tavola Ritonda: "qui
si afferma la parola usata, che dice così: gli
mercatanti hanno botteghe, e gli bevitori hanno taverne,
e’ giuocatori hanno taolieri, e ogni simile con simile". |
16 |
Pur a la
pegola era la mia 'ntesa,
per veder de la bolgia ogne contegno
e de la gente ch'entro v'era incesa. |
|
16 |
La mia attenzione era
rivolta costantemente alla pece, per osservare ogni
aspetto della bolgia e della moltitudine che in essa era
bruciata. |
19 |
Come i
dalfini, quando fanno segno
a' marinar con l'arco de la schiena
che s'argomentin di campar lor legno, |
|
19 |
Come i
delfini, quando, inarcando il dorso, avvertono i marinai
d’ingegnarsi a salvare la loro nave, |
22 |
talor così,
ad alleggiar la pena,
mostrav' alcun de' peccatori 'l dosso
e nascondea in men che non balena. |
|
22 |
così talvolta, per alleviare la sofferenza, qualcuno dei
dannati esponeva la schiena, e la celava più rapido del
lampo. |
|
Secondo una credenza molto diffusa nel Medioevo i
delfini avvertono i marinai dell’avvicinarsi della
tempesta inarcando le schiene e saltando sopra il pelo
dell’acqua. |
25 |
E come a
l'orlo de l'acqua d'un fosso
stanno i ranocchi pur col muso fuori,
sì che celano i piedi e l'altro grosso, |
|
25 |
E come i ranocchi stanno sull’orlo dell’acqua di un
fossato col solo muso fuori, in modo da nascondere le
zampe e il resto del corpo, |
28 |
sì stavan d'ogne
parte i peccatori;
ma come s'appressava Barbariccia,
così si ritraén sotto i bollori. |
|
28 |
così i peccatori stavano
da ogni parte; ma non appena Barbariccia si avvicinava,
subito si ritiravano sotto la pece bollente. |
|
In una sua analisi del canto XXII il Chiappelli nota
come in esso "annullata nella pece, l’immagine dell’uomo
se appare, non è che in gesti animaleschi, in attitudini
mostruose. Il bisogno di un momentaneo refrigerio non ne
trae a galla i volti, ma le schiene inarcate nel guizzo
del delfini; se sono le teste che emergono, la
sofferenza e l’ansietà le trasformano in teste di
rana... Queste grosse figurazioni plastiche in cui
appaiono deformati i peccatori son scelte specialmente
fra gli anfibi". Di qui il critico prende l’avvio per
istituire una contrapposizione fra il modo in cui sono
concepiti i diavoli e quello in cui sono concepiti i
dannati. I suggerimenti impliciti in questo modulo
interpretativo non sono accettati dal Del Beccaro, il
quale osserva che nella bolgia dei barattieri si
stabilisce. tra dannati e diavoli, "una sorta di osmosi
o per lo meno uno scambio di termini per cui avviene di
assistere al capovolgimento della situazione stessa e
degli atteggiamenti psicologici che ne derivano: da
ingannatori ad ingannati, con reazioni che presentano
evidenti analogie". |
31 |
I' vidi, e
anco il cor me n'accapriccia,
uno aspettar così, com' elli 'ncontra
ch'una rana rimane e l'altra spiccia; |
|
31 |
Vidi, e ancora il mio
cuore ne prova sgomento, uno di loro stare in attesa,
così come accade che una rana resta ferma e un’altra
spicca il salto; |
34 |
e Graffiacan,
che li era più di contra,
li arruncigliò le 'mpegolate chiome
e trassel sù, che mi parve una lontra. |
|
34 |
e Graffiacane che più
degli altri gli stava di fronte, gli afferrò con
l’uncino i capelli impeciati e lo sollevò, in modo che
mi sembrò, una lontra. |
|
Il paragone della lontra esprime, secondo il Chiappelli,
"l’impotenza dell’animale catturato" ed ha un fortissimo
rilievo plastico. Il Malagoli annota: "Bellissima
immagine del calcato realismo infernale, che si
riconnette al convolto del canto precedente ed emerge in
contrasto col realismo semplice e comune della
rappresentazione delle rane che se ne stanno sull’orlo
del fosso". L’ApolIonio definisce il verso 36 "stupendo,
lentissimo e grottescamente trionfale" ed aggiunge: "il
disegno della lontra lucida e umida, che lo rompe, con
uno squarcio nero, vale un commento orchestrale, in
un’opera buffa". |
37 |
I' sapea già
di tutti quanti 'l nome,
sì li notai quando fuorono eletti,
e poi ch'e' si chiamaro, attesi come. |
|
37 |
Io conoscevo già il nome
di tutti quanti i diavoli. poiché li avevo con tanta
cura annotati quando vennero scelti, e poi avevo fatto
attenzione al modo in cui si chiamavano l’un l’altro. |
40 |
«O Rubicante,
fa che tu li metti
li unghioni a dosso, sì che tu lo scuoi!»,
gridavan tutti insieme i maladetti. |
|
40 |
"O Rubicante, fa in modo
di mettergli addosso gli artigli, in modo da scuoiarlo!
" urlavano concordi i malvagi. |
43 |
E io:
«Maestro mio, fa, se tu puoi,
che tu sappi chi è lo sciagurato
venuto a man de li avversari suoi». |
|
43 |
E io: "Maestro, cerca, se
puoi, di sapere chi è lo sventurato caduto in balìa dei
suoi nemici". |
46 |
Lo duca mio
li s'accostò allato;
domandollo ond' ei fosse, e quei rispuose:
«I' fui del regno di Navarra nato. |
|
46 |
Virgilio gli si
avvicinò fermandosi al suo fianco; gli chiese di dove
fosse, e quello rispose: "Io fui nativo del regno di
Navarra. |
49 |
Mia madre a
servo d'un segnor mi puose,
che m'avea generato d'un ribaldo,
distruggitor di sé e di sue cose. |
|
49 |
Mia madre, che mi aveva
generato da un furfante, suicida e scialacquatore, mi
mise al servizio di un signore. |
52 |
Poi fui
famiglia del buon re Tebaldo;
quivi mi misi a far baratteria,
di ch'io rendo ragione in questo caldo». |
|
52 |
Fui in seguito alla corte
del valente re Tebaldo: qui mi diedi ad esercitare la
baratteria; del quale peccato rendo conto in questo
bollore". |
|
Il barattiere che, lustro di pece e tenuto sospeso a
mezzaria da Graffiacane con l’uncino, dichiara la sua
origine e la sua vicenda terrena è un non meglio
identificato Giampolo o Ciampolo. Osserva il Del Beccaro
che Ciampolo, il quale ha prontamente intuito che,
parlando, potrà ritardare lo strazio che i diavoli si
preparano a fare di lui, "si afferra disperato
all’occasione dell’indugio e con linguaggio fratto, che
ben confessa lo spavento, dà contro di sé e di altri
compagni di pena, di sé innanzi tutto come frutto di una
torbida vicenda di vizio, quasi che un irrevocabile
destino lo abbia segnato fin dalla nascita". Tebaldo Il,
re di Navarra dal 1253 al 1270, ebbe fama di sovrano
munifico, giusto e clemente. |
55 |
E Cirïatto,
a cui di bocca uscia
d'ogne parte una sanna come a porco,
li fé sentir come l'una sdruscia. |
|
55 |
E Ciriatto, al quale dalla
bocca sporgeva da ogni parte una zanna come a un
cinghiale, gli fece sentire come una di esse lacerava. |
58 |
Tra male
gatte era venuto 'l sorco;
ma Barbariccia il chiuse con le braccia
e disse: «State in là, mentr' io lo 'nforco». |
|
58 |
Il topo era capitato tra
gatte cattive; ma Barbariccia lo circondò con le
braccia, e disse: " State lontani, finché lo tengo
stretto". |
|
Il terrore del dannato ha risvegliato la crudeltà dei
diavoli: Ciriatto lo azzanna. Ma più che sulla crudeltà
dei custodi di questa bolgia, Dante insiste, in questo
come nel canto precedente, sulla loro irrequietezza,
sulla mobilità dei loro istinti e atteggiamenti, sulla
loro indisciplina. Barbariccia, al quale il suo capo
Malacoda ha affidato il compito di guidare il plotone
dei dieci diavoli e di accompagnare Dante e Virgilio,
cerca di affermare la propria autorità di capo e
l’efficienza del manipolo da lui comandato. Come ha
osservato il Sozzi, nel contrasto fra la sua
"autorevolezza teorica, nominale e velleitaria" e la sua
"esautorazione ad opera degli indocili sudditi" trova la
sua espressione una delle note di maggior risalto comico
del canto. |
61 |
E al maestro
mio volse la faccia;
«Domanda», disse, «ancor, se più disii
saper da lui, prima ch'altri 'l disfaccia». |
|
61 |
E rivolse il viso a
Virgilio: "Chiedi ancora" disse "se desideri sapere
altro da lui, prima che qualcuno ne faccia scempio". |
64 |
Lo duca
dunque: «Or dì: de li altri rii
conosci tu alcun che sia latino
sotto la pece?». E quelli: «I' mi partii, |
|
64 |
Allora Virgilio: "Dimmi
dunque: degli altri malvagi che stanno sotto la pece,
conosci qualcuno che sia italiano ? " E quello: "Io mi
allontanai, |
67 |
poco è, da
un che fu di là vicino.
Così foss' io ancor con lui coperto,
ch'i' non temerei unghia né uncino!». |
|
67 |
poco fa, da uno che fu di
quelle parti: potessi ancora essere sotto la pece con
lui! non avrei infatti da temere artiglio né uncino". |
|
Si ripete qui la scena dei versi 55-57. Basta che
Ciampolo accenni (verso 54) alla propria pena o
manifesti terrore per la sorte che i diavoli gli
rIserbano perché questi, in ciò assai più simili ad
animali che ad esseri consapevoli di fare il male,
sentano insorgere in loro irresistibile la crudeltà. Il
rapporto che si stabilisce tra loro e l’impegolato
Navarrese, per tutto il tempo che quest’ultimo rimane
appeso per i capelli all’uncino di Graffiacane, è
mirabilmente definito, con espressione pregnante e di
sapore popolaresco, dal verso 58: tra male gatte era
venuto il sorco. Crudeltà dunque da parte dei diavoli,
ma, giova ripetere, crudeltà scarsamente illuminata
dalla consapevolezza di sé, facile a distrarsi,
determinata dagli umori del momento e subordinata a
quello che è il tratto più saliente dei carattere di
questi custodi infernali: il gusto della beffa, dello
scherzo fine a se stesso. |
70 |
E Libicocco
«Troppo avem sofferto»,
disse; e preseli 'l braccio col runciglio,
sì che, stracciando, ne portò un lacerto. |
|
70 |
E Libicocco "Troppo abbiamo pazientato
nell'attesa dei vostri discorsi", disse; e siccome la
Giustizia deve seguire il suo corso, gli afferrò il
braccio col runciglio, così che, trascinandolo, gli
portò via un brandello. |
73 |
Draghignazzo
anco i volle dar di piglio
giuso a le gambe; onde 'l decurio loro
si volse intorno intorno con mal piglio. |
|
73 |
Pure Draghignazzo lo volle colpire giù
nelle gambe; per cui il loro capo si volse tutto intorno
con espressione adirata. |
|
Il Momigliano così mette in luce il carattere eroicomico
di questa terzina: è maestoso; mal piglio è minaccioso;
intorno intorno è pesante come il ballonzolare di una
massa bruta: il complesso è un ritratto grottesco
sbozzato con due tratti di penna". Il termine che
maggiormente spicca in questa terzina è decurio: questo
latinismo, togato e solenne, riferito a Barbariccia,
suona come una presa in giro, ne esprime tutta la vanità
e la prosopopea. |
76 |
Quand' elli
un poco rappaciati fuoro,
a lui, ch'ancor mirava sua ferita,
domandò 'l duca mio sanza dimoro: |
|
76 |
Quando costoro si furono
un po’ quietati, Virgilio senza indugio domandò a lui,
che ancora osservava la sua ferita: |
79 |
«Chi fu
colui da cui mala partita
di' che facesti per venire a proda?».
Ed ei rispuose: «Fu frate Gomita, |
|
79 |
"Chi fu quello dal quale
dici che facesti male a separarti per avvicinarti alla
riva?" Ed egli rispose: "Fu frate Gomita, |
82 |
quel di
Gallura, vasel d'ogne froda,
ch'ebbe i nemici di suo donno in mano,
e fé sì lor, che ciascun se ne loda. |
|
82 |
quello di Gallura,
ricettacolo d’ogni inganno, il quale ebbe in suo potere
i nemici del suo signore, e li trattò in maniera tale
che ognuno se ne compiace. |
85 |
Danar si
tolse e lasciolli di piano,
sì com' e' dice; e ne li altri offici anche
barattier fu non picciol, ma sovrano. |
|
85 |
Prese denaro, e li lasciò
andare liberi con procedimento sommario, così come egli
stesso dice; e anche neglì altri incarichi non fu
barattiere da poco, ma sommo. |
|
Frate Gomita fu, secondo gli antichi commentatori,
vicario di Ugolino Visconti di Pisa, che governò col
titolo di giudice, dal 1275 al 1296, la Gallura. La
Sardegna era stata divisa dai Pisani in quattro- "
giudicati ", dei quali quello di Gallura occupava la
parte nord-orientale dell’isola.
Frate Gomita, secondo quanto qui riferisce Dante, diede
la libertà, dietro compenso in denaro, ai nemici del suo
signore che aveva fatto prigionieri. L’espressione di
piano mostra che questo barattiere "conversando col suo
compagno di pena e di peccati intorno alle cose di
Sardegna, ancora nella pece si vanta della bella frode
compiuta con tutte le forme legali" (Casini-Barbi). |
88 |
Usa con esso
donno Michel Zanche
di Logodoro; e a dir di Sardigna
le lingue lor non si sentono stanche. |
|
88 |
Sta spesso con lui messer Michele
Zanche di Logudoro; e le loro lingue, nel parlare della
Sardegna, non avvertono mai la stanchezza. |
|
Michele Zanche governò il giudicato di Logudoro
(Sardegna nord-orientale) per incarico di re Enzo,
figlio dell’imperatore Federico Il. Fu ucciso a
tradimento da uno dei suoi generi, il genovese Branca
D’Oria. |
91 |
Omè, vedete
l'altro che digrigna;
i' direi anche, ma i' temo ch'ello
non s'apparecchi a grattarmi la tigna». |
|
91 |
Ahimè, guardate l’altro diavolo che
digrigna i denti; parlerei ancora, ma temo che quello si
prepari a graffiarmi". |
|
"Un nuovo timbro - scrive il Chiappelli - risuona in
quel condizionale posto subdolamente nel cuore dei
ricorso: i’ direi anche ... : il timbro dell’astuzia. Il
frodatore non si sente più solo; l’idea degli altri
innumerevoli peccatori che potrebbero emergere modifica
il suo rapporto coi diavoli e coi poeti. Le forze che
componevano la tensione narrativa cominciano a
trasformarsi mentre la pressione minacciosa dei demoni è
costante, al terrore nel dannato si aggiunge la forza "
astuzia "." |
94 |
E 'l gran
proposto, vòlto a Farfarello
che stralunava li occhi per fedire,
disse: «Fatti 'n costà, malvagio uccello!». |
|
94 |
E il grande capo, rivolto a Farfarello
che stralunava gli occhi pronto a colpire, disse:
"Tirati in là, uccellaccio". |
|
L’accostamento, nell’ambito di questa, terzina, di un
modo di dire solenne (l’, gran proposto) e di
un’espressione realistíca e brutale (fatti ‘n costà,
malvagio uccello) ne determina la fondamentale comicità.
Da notare anche Ia tensione che si viene a stabilire fra
il qualitativo gran e il diminutivo Farfarello.
Dall’alto della sua boria Barbariccia vede nel suo
sottoposto un essere privo di intelligenza, niente più,
che un animale (uccello). Ma, sotto apparenze che
vogliono essere più vili, anche il gran proposto
partecipa dello stesso sentire primitivo e sommario
degli altri diavoli. |
97 |
«Se voi
volete vedere o udire»,
ricominciò lo spaürato appresso,
«Toschi o Lombardi, io ne farò venire; |
|
97 |
"Se voi
desiderate vedere o ascoltare" riprese a dire quindi
quello spaventato "Toscani o Lombardi, io ne farò
arrivare; |
100 |
ma stieno i
Malebranche un poco in cesso,
sì ch'ei non teman de le lor vendette;
e io, seggendo in questo loco stesso, |
|
100 |
ma che i
Malebranche si tengano un po’ in disparte, in modo che
essi non temano le loro punizioni; ed io, stando in
questo stesso luogo, |
103 |
per un ch'io
son, ne farò venir sette
quand' io suffolerò, com' è nostro uso
di fare allor che fori alcun si mette». |
|
103 |
per uno solo che sono, ne
farò venire parecchi quando fischierò, come è nostra
abitudine fare allorché qualcuno di noi si tira fuori." |
|
Ciampolo è deciso a trovare un espediente per sottrarsi
allo scempio che i Malebranche si preparano a fare di
lui. Ma egli sa abilmente dissimulare il suo progetto di
fuga. "L’allontanamento dei diavoli, il vero scopo del
suo discorso, è sepolto in un’abbondanza d’offerte, e
attenuato in tutti i modi con la forma del verbo scelto
(stieno i Malebranche) invece di un imperativo o di una
richiesta diretta, con l’avverbio un poco, con la
locuzione in cesso, cioè " nascosti quasi per gioco "; e
poi con l’intera proposizione esplicativa sì ch’ei non
teman delle lor vendette; e infine con le nuove
promesse." (Chiappelli) |
106 |
Cagnazzo a
cotal motto levò 'l muso,
crollando 'l capo, e disse: «Odi malizia
ch'elli ha pensata per gittarsi giuso!». |
|
106 |
Cagnazzo a queste parole
alzò il muso, scrollando la testa, e disse: "Senti, I’astuzia
che ha escogitato per tuffarsi giù!" |
109 |
Ond' ei, ch'avea
lacciuoli a gran divizia,
rispuose: «Malizioso son io troppo,
quand' io procuro a' mia maggior trestizia». |
|
109 |
Per cui egli, che
conosceva raggiri in abbondanza, rispose: "Sono fin
troppo astuto, dal momento che causo maggior dolore ai
miei compagni". |
112 |
Alichin non
si tenne e, di rintoppo
a li altri, disse a lui: «Se tu ti cali,
io non ti verrò dietro di gualoppo, |
|
112 |
Alichino non si trattenne
e, in contrasto con gli altri demoni gli disse: "Se tu
ti immergi, io non ti inseguirò correndo, |
115 |
ma batterò
sovra la pece l'ali.
Lascisi 'l collo, e sia la ripa scudo,
a veder se tu sol più di noi vali». |
|
115 |
ma volerò sulla pece: si
abbandoni la sommità dell’argine, e l’argine stesso sia
a noi riparo, per vedere se tu da solo sei più abile di
noi". |
118 |
O tu che
leggi, udirai nuovo ludo:
ciascun da l'altra costa li occhi volse,
quel prima, ch'a ciò fare era più crudo. |
|
118 |
O lettore, saprai di un
gioco strano ogni diavolo rivolse lo sguardo verso la
parte opposta dell’argine; e per primo quello (Cagnazzo)
che era stato il più restio a fare ciò. |
|
Dante si rivolge al lettore con una espressione che
riecheggia il modo in cui si rivolgevano al pubblico i
giullari. Questi cercavano di attirarne l’attenzione
mettendo in rilievo la novità degli argomenti da loro
trattati. Dante sfrutta qui effetti comici del tipo più
basso, al fine di sottolineare lo stato di degradazione
in cui si trovano accomunati dannati e tormentatori
della quinta bolgia. L’interpretazione che il Croce dà
di questo passo riesce abbastanza persuasiva nel
determinare lo stato d’animo con il quale Dante
considera lo spettacolo: "Plebeo è lo spettacolo, e
Dante ride, ma non come plebe che si affiati con plebe,
bensì sempre come lui, Dante, che getta lo sguardo su
quell’aspetto dell’umanità, di un’umanità che è quasi
fanciullescamente sfrenata e chiasseggìante, e non
permette la seria indignazione, e nemmeno la ripugnanza
che si vela il volto, ma anzi eccita all’osservazione
curiosa e al riso, per la stravaganza stessa e
l’enormità di ciò che si osserva, e che esce da ogni
gentile e civile consuetudine". |
121 |
Lo Navarrese
ben suo tempo colse;
fermò le piante a terra, e in un punto
saltò e dal proposto lor si sciolse. |
|
121 |
Il Navarrese scelse bene
l’attimo a lui favorevole; puntò i piedi a terra, e di
colpo saltò e si liberò dal loro capo. |
124 |
Di che
ciascun di colpa fu compunto,
ma quei più che cagion fu del difetto;
però si mosse e gridò: «Tu se' giunto!». |
|
124 |
Di ciò ognuno si sentì
colpevole, ma maggìormente quello che era stato causa
dello sbaglio; perciò si slanciò e gridò: "Tu sei
preso!" |
127 |
Ma poco i
valse: ché l'ali al sospetto
non potero avanzar; quelli andò sotto,
e quei drizzò volando suso il petto: |
|
127 |
Ma a poco gli servì perché
le (sue) ali non poterono avere la meglio, sulla paura
(del Navarrese): quello s’immerse, e questo volando
diresse verso l’alto il petto: |
130 |
non
altrimenti l'anitra di botto,
quando 'l falcon s'appressa, giù s'attuffa,
ed ei ritorna sù crucciato e rotto. |
|
130 |
non diversamente l’anitra
si tuffa nell’acqua all’improvviso, quando si avvicina
il falcone, e questo se ne torna su indispettito"e
spossato. |
|
Il barattiere è riuscito nel suo intento: si è liberato,
ricorrendo ad un inganno, dai diavoli. Inerme, è
riuscito ad avere ragione della loro forza e del loro
numero. "Ma si noti che anche quando ha la meglio egli
non esce dalla mostruosità animalesca nella quale si è
venuto evolvendo. La sua vittoria... è frutto di un
falso intelletto, di un istinto di frode che somiglia,
ma non è l’intelligenza. La lontra passiva che dondolava
nella mano del cacciatore, il sorco terrorizzato tra le
male gatte, la bestia tignosa e querula, rimane’una
bestia; è il palmipede che si tuffa di colpo e per viltà
che sì butta giù senza 1 grazia" (Chiappelli). |
133 |
Irato
Calcabrina de la buffa,
volando dietro li tenne, invaghito
che quei campasse per aver la zuffa; |
|
133 |
Ma Caicabrina adirato per
la beffa, lo seguì volando, preso dal desiderio che il
Navarrese si salvasse per aver modo di azzuffarsi con
Alichino; |
136 |
e come 'l
barattier fu disparito,
così volse li artigli al suo compagno,
e fu con lui sopra 'l fosso ghermito. |
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136 |
e non appena il barattiere
fu scomparso, immediatamente rivolse gli artigli contro
Il suo compagno, e con lui si avvínghiò sopra lo stagno. |
139 |
Ma l'altro
fu bene sparvier grifagno
ad artigliar ben lui, e amendue
cadder nel mezzo del bogliente stagno. |
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139 |
Ma l’altro fu davvero un
rapace sparviero nell’artigliarlo a dovere, e caddero
entrambi nel mezzo della palude bollente. |
142 |
Lo caldo
sghermitor sùbito fue;
ma però di levarsi era neente,
sì avieno inviscate l'ali sue. |
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142 |
Il calore immediatamente
li separò; ma uscirne era impossibile, a tal punto
avevano le ali invischiate. |
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L’animata narrazione che ha avuto per oggetto diavoli e
dannatì della quinta bolgia culmina in una rissa fra
diavoli causata dall’astuzia di un dannato. Ma nessuno
dei due contendenti può considerarsi vincitore; è la
pece, lo strumento muto della giustizia divina, il vero
trionfatore di questo singolare scontro. Per una sorta
di bizzarro contrappasso tocca ora ai tormentatori
subire la sorte riservata alle loro vittime. "I cuochi
sono diventati lessi a loro volta." (Bosco) |
145 |
Barbariccia,
con li altri suoi dolente,
quattro ne fé volar da l'altra costa
con tutt' i raffi, e assai prestamente |
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145 |
Barbariccia crucciato
insieme agli altri suoi compagni, ordinò che quattro
volassero fin sull’altra sponda con tutti i loro uncini,
e questi, molto velocemente |
148 |
di qua, di
là discesero a la posta;
porser li uncini verso li 'mpaniati,
ch'eran già cotti dentro da la crosta. |
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148 |
di qua, di là, calarono
nel posto indicato: tesero gli uncini in direzione degli
invischiati, che erano già bruciati sotto la pelle
diventata dura |
151 |
E noi
lasciammo lor così 'mpacciati. |
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151 |
e noi li abbandonammo
mentre si trovavano in queste difficoltà. |