|
DIVINA
COMMEDIA: PARAFRASI
INFERNO
CANTO XXVI° |
 |
 |
 |
 |
1 |
Godi,
Fiorenza, poi che se' sì grande
che per mare e per terra batti l'ali,
e per lo 'nferno tuo nome si spande! |
|
1 |
Gioisci, Firenze, poiché sei così famosa, che voli per
mare e per terra, e il tuo nome si diffonde per
l’inferno! |
4 |
Tra li
ladron trovai cinque cotali
tuoi cittadini onde mi ven vergogna,
e tu in grande orranza non ne sali. |
|
4 |
Tra i ladri incontrai
cinque tuoi cittadini di tale condizione che ne sento
vergogna, e tu Firenze non ne sali in grande onore. |
7 |
Ma se presso
al mattin del ver si sogna,
tu sentirai, di qua da picciol tempo,
di quel che Prato, non ch'altri, t'agogna. |
|
7 |
Ma se nelle prime ore del
mattino si sogna il vero (si credeva nel Medioevo che i
sogni fatti all’alba fossero annunciatori di verità), tu
proverai tra breve quello che Prato, per non dire di
altri, ti augura. |
10 |
E se già
fosse, non saria per tempo.
Così foss' ei, da che pur esser dee!
ché più mi graverà, com' più m'attempo. |
|
10 |
E se ciò fosse già
avvenuto, non sarebbe troppo presto: così fosse già
avvenuto, dal momento che deve pur accadere! perché sarò
più duro da sopportare, quanto più invecchio. |
|
L’immagine grandiosa di Firenze che batte l’ali -
espressione crudamente visiva,che riporta al concreto il
metaforico " volare " della fama - richiama quella di
Gerione, nella presentazione che ne fa Virgilio
all’inizio del canto XVII: che passa i monti, e rompe i
muri e l’armi... Non diversamente da Gerione, Firenze è
qui veduta, in una raffigurazione apocalittica, come una
incarnazione del male, il cui campo d’azione è
l’universo intero. Ma mentre l’apertura del canto XVII
(e quella del XIX, che ha in comune con l’esordio del
XXVI la forma dell’invettiva) è soltanto tragicamente
grandiosa, il sentimento che anima le terzine iniziali
del canto dei consiglieri fraudolenti è più complesso e
contraddittorio: nei confronti della sua città amore e
rancore convivono dolorosamente nel cuore del Poeta. Nel
verso 12 i commentatori antichi vedevano soltanto
l’espressione dell’impazienza di vedere punita Firenze
per le sue scelleratezze, una sete inappagata di
giustizia interpretando: " quanto più invecchio, tanto
più mi sarà grave che tardi ad esser soddisfatta la mia
ansia di vendetta". Questa interpretazione non rende
tuttavia conto della sofferta ammissione del verso
precedente, per cui, come ha rilevato il Fubini, una
sola spiegazione sembra possibile: "più tarda sarà la
giusta vendetta più grande sarà il dolore del Poeta, il
quale la sa necessaria, la desidera anche, ma è pur
sempre figlio della sua città e vecchio maggiormente ne
sentirà il colpo". Sempre del Fubini è la seguente
felice definizione della unità tonale e stilistica di
questa apertura di canto: "più ancora che per se stessi,
questi versi ci s’impongono per il loro svilupparsi
l’uno dall’altro, per quel passaggio graduale dalla
invettiva sarcastica dell’inizio alla confessione finale
di debolezza e di amore, che fa di qu esto esordio
un’unità poetica in sé piena e compiuta, quasi un
sonetto diremmo, anche per la sua misura, un grande
sonetto dell’esule che fissa in forma definitiva il
sentimento e il giudizio suo sulla sua città".Per quanto
riguarda l’allusione a Prato del verso 9, essa è stata
intesa in senso generico "secondo un motto che dice che
l’uno vicino vorrebbe vedere cieco l’altro" (Ottimo), o
in rapporto a qualche circostanza specifica: la
maledizione lanciata contro Firenze dal cardinale
Niccolò da Prato nel 1304, dopo il fallimento della sua
missione di " paciaro ", o la rivolta di Prato contro il
governo dei Neri, domata dai Fiorentini nel giugno del
1309. |
13 |
Noi ci
partimmo, e su per le scalee
che n'avea fatto iborni a scender pria,
rimontò 'l duca mio e trasse mee; |
|
13 |
C’incamminammo, e Virgilio risalì per la scala formata
dalle sporgenze rocciose che prima ci erano servite per
scendere, e mi portò con lui; |
16 |
e
proseguendo la solinga via,
tra le schegge e tra ' rocchi de lo scoglio
lo piè sanza la man non si spedia. |
|
16 |
e mentre proseguivamo
nella via solitaria, tra le pietre e i massi del ponte
il piede non riusciva ad avanzare senza l’aiuto delle
mani. |
19 |
Allor mi
dolsi, e ora mi ridoglio
quando drizzo la mente a ciò ch'io vidi,
e più lo 'ngegno affreno ch'i' non soglio, |
|
19 |
Allora mi
addolorai, e ora nuovamente mi addoloro allorché rivolgo
il pensiero a ciò che vidi, e tengo a freno il mio
ingegno più di quello che non sia solito fare, |
22 |
perché non
corra che virtù nol guidi;
sì che, se stella bona o miglior cosa
m'ha dato 'l ben, ch'io stessi nol m'invidi. |
|
22 |
perché non vada troppo senza la guida della virtù, in
modo che, se un benefico influsso astrale o la grazia
divina mi ha dato il dono dell’ingegno, io stesso non me
lo tolga. |
|
I peccatori dell’ottava bolgia sono generalmente
definiti " consiglieri fraudolenti " sulla base di
un’espressione del canto XXVII (verso 116): perché diede
il consiglio frodolento. In realtà, come ha ben visto il
Fubini, essi sono piuttosto coloro "che il prossimo
hanno ingannato non per trarne ricchezza o piacere, ma
per la grandezza propria o del loro partito o della loro
patria, i politici, i machiavellici, coloro che stettero
più sulla volpe che in sul lione ", per citare un modo
proverbiale reso famoso dal Machiavelli".Il vizio punito
in questa bolgia non ha nulla di volgare o di abietto;
esso "nasce dal non tenere nei giusti limiti
l’eccellenza dell’ingegno" (Sapegno); proprio per questo
può rappresentare una tentazione per chi, come Dante, ha
veduto (Convivio) nell’attuazione delle capacità
dell’intelletto un fine supremo, proprio per questo il
Poeta premette, alla presentazione della pena dei
consiglieri fraudolenti, una implicita condanna del loro
peccato. Chiarificatrice, per capire il significato che
rivestono i versi 19-24, appare la seguente osservazione
del D’Ovidio: " Dante nell’esilio diventò un uomo di
corte, un negoziatore politico; e il consigliar frodi e
ordire inganni sarebbe potuto divenire per lui un
peccato professionale, un vizio del mestiere". |
25 |
Quante 'l
villan ch'al poggio si riposa,
nel tempo che colui che 'l mondo schiara
la faccia sua a noi tien meno ascosa, |
|
25 |
Quante lucciole il contadino che si riposa sul colle,
durante la stagione in cui il sole rimane più a lungo
all’orizzonte, |
28 |
come la
mosca cede a la zanzara,
vede lucciole giù per la vallea,
forse colà dov' e' vendemmia e ara: |
|
28 |
allorché alle mosche
succedono le zanzare, vede giù per la valle, dove gli
sembra di scorgere le sue vigne e i suoi campi, |
31 |
di tante
fiamme tutta risplendea
l'ottava bolgia, sì com' io m'accorsi
tosto che fui là 've 'l fondo parea. |
|
31 |
di altrettante fiamme
splendeva tutta l’ottava bolgia, così come fui in grado
di vedere non appena giunsi al centro del ponte da dove
era visibile il fondo. |
|
Questa similitudine si ricollega idealmente, "all’altro
capo dello stesso arco tematico" (Mattalia), a quella
del villanello (canto XXIV, versi 7-15) ed ha con essa
in comune, oltre al tema, anche l’andamento sintattico e
stilistico: determinazioni temporali indicate per via di
perifrasi (qui la stagione: nel tempo che colui...; e
l’ora: come la mosca... ) che sfociano in un quadro
semplice e compatto (nel canto XXIV: veggendo il mondo
aver cangiata faccia; qui: vede lucciole giù per la
vallea ) . In questo quadro la similitudine, espressione
dello sforzo dell’uomo di inquadrare in una struttura
logica ogni fenomeno, si contrappone alla felice
innocenza del divenire della natura. Da notare la
funzione che ha il forse (verso 30 ) nel trasferire lo
spettacolo cui assiste il villan dalla sfera delle
determinazioni oggettive a quella di un mondo soggettivo
di affetti e di preoccupazioni. Il contadino cerca di
riconoscere le forme dei campi a lui familiari, ma è
costretto, dal buio che si fa sempre più fitto, a
limitarsi a delle supposizioni ( forse ), mentre, al
posto di un mondo contenuto entro limiti certi e che
l’umano volere può assoggettare ai suoi fini, si
sostituisce una danza di punti luminosi, non sottomessa
in apparenza ad alcun ordine. |
34 |
E qual colui
che si vengiò con li orsi
vide 'l carro d'Elia al dipartire,
quando i cavalli al cielo erti levorsi, |
|
34 |
E come colui che si
vendicò per mezzo degli orsi vide il carro di Elia nel
momento in cui si staccò da terra, quando i cavalli si
impennarono verso il cielo, |
37 |
che nol
potea sì con li occhi seguire,
ch'el vedesse altro che la fiamma sola,
sì come nuvoletta, in sù salire: |
|
37 |
tanto che non lo poteva
seguire con gli occhi, in modo da non vedere altro che
la sola fiamma salire in alto, come una piccola nuvola. |
40 |
tal si move
ciascuna per la gola
del fosso, ché nessuna mostra 'l furto,
e ogne fiamma un peccatore invola. |
|
40 |
Così nel fondo della
bolgia si muove ogni fiamma, poiché nessuna fa vedere
quello che essa contiene, e ogni fiamma nasconde un
dannato. |
|
La perifrasi del verso 34 designa Eliseo, discepolo del
profeta Elia. Secondo quanto narra la Bibbia (II Re II,
11-12; 23-24) Eliseo assistette all’ascesa in cielo, su
un carro di fuoco, di Elia. Essendo poi stato schernito
da una turba di ragazzi, ed avendoli maledetti, due
orsi, sbucati da una foresta vicina, lo vendicarono
uccidendone quarantadue. Tuttavia Dante ricrea il dato
libresco con la consueta potenza e freschezza di visione
fantastica, nel particolare dei cavalli che s’impennano
al volo... e della nuvoletta" (Sapegno). Il verso 36, in
particolare, sottolinea vigorosamente l’irrompere del
miracolo nel corso naturale degli eventi. |
43 |
Io stava
sovra 'l ponte a veder surto,
sì che s'io non avessi un ronchion preso,
caduto sarei giù sanz' esser urto. |
|
43 |
Stavo sul ponte diritto in
piedi per guardare, così che se non mi fossi afferrato a
una sporgenza, sarei precipitato anche senza essere
urtato. |
46 |
E 'l duca
che mi vide tanto atteso,
disse: «Dentro dai fuochi son li spirti;
catun si fascia di quel ch'elli è inceso». |
|
46 |
E Virgilio, che mi vide
così intento a guardare, disse: "Le anime stanno dentro
i fuochi; ciascuna è avvolta dalla fiamma che la
brucia". |
49 |
«Maestro
mio», rispuos' io, «per udirti
son io più certo; ma già m'era avviso
che così fosse, e già voleva dirti: |
|
49 |
"Maestro", risposi, "per
il fatto che lo sento dire da te sono più sicuro, ma già
pensavo che fosse così, e già volevo domandarti: |
52 |
chi è 'n
quel foco che vien sì diviso
di sopra, che par surger de la pira
dov' Eteòcle col fratel fu miso?». |
|
52 |
chi c’è dentro a quella
fiamma che avanza così divisa nella parte superiore, che
sembra levarsi dal rogo dove Eteocle fu posto col
fratello?" |
|
Secondo quanto narrano Stazio e Lucano, i due figli di
Edipo, Eteocle e Polinice (sui quali gravava la
maledizione di una nascita incestuosa, in seguito alla
quale Edipo si era accecato e la maledizione dello
stesso padre che essi avevano scacciato da Tebe), dopo
essersi uccisi l’un l’altro in combattimento, furono
posti su uno stesso rogo, ma la fiamma che da esso si
innalzò si divise in due, come per testimoniare la
sopravvivenza del loro odio oltre la morte. |
55 |
Rispuose a
me: «Là dentro si martira
Ulisse e Dïomede, e così insieme
a la vendetta vanno come a l'ira; |
|
55 |
Mi rispose: "Dentro a
quella fiamma sono tormentati Ulisse e Diomede, e così
insieme subiscono la punizione di Dio, come insieme si
esposero alla sua ira; |
58 |
e dentro da
la lor fiamma si geme
l'agguato del caval che fé la porta
onde uscì de' Romani il gentil seme. |
|
58 |
e dentro alla loro fiamma
si espia l’insidia del cavallo che aprì la porta dalla
quale uscì Enea, il nobile progenitore dei Romani. |
61 |
Piangevisi
entro l'arte per che, morta,
Deïdamìa ancor si duol d'Achille,
e del Palladio pena vi si porta». |
|
61 |
In essa si espia l’astuzia
a causa della quale, anche ora che è morta, Deidamia
continua a lamentarsi di Achille, e si soffre il castigo
a causa del Palladio". |
|
Ulisse e Diomede si trovano in una medesima fiamma
perché parteciparono insieme ad alcune imprese. Prima
della guerra di Troia si recarono nelI’isola di Sciro
per indurre Achille, che la madre Teti aveva lì nascosto
per tenerlo lontano dalla guerra, a partecipare alla
spedizione che si stava allestendo. Travestiti da
mercanti, gli mostrarono alcune armi, risvegliando in
lui l’amore per la guerra. Achille li seguì,
abbandonando nell’isola Deidamia, figlia del re Licomede,
da lui in precedenza sedotta.Durante la guerra di Troia
i due eroi parteciparono al rapimento del Palladio, una
statua di Pallade la cui presenza, secondo una profezia,
garantiva la salvezza della città (Eneide II, versi 162
sgg.). Ma l’inganno che pare più grave agli occhi del
Poeta è quello ideato da Ulisse perché i Greci potessero
impadronirsi di Troia: il cavallo di legno, del quale
parla ampiamente Virgilio nel II libro dell’Eneide. |
64 |
«S'ei posson
dentro da quelle faville
parlar», diss' io, «maestro, assai ten priego
e ripriego, che 'l priego vaglia mille, |
|
64 |
"Se essi possono parlare
da dentro quelle fiamme" dissi "maestro, ti prego e
torno a pregarti, e possa la mia preghiera valerne
mille, |
67 |
che non mi
facci de l'attender niego
fin che la fiamma cornuta qua vegna;
vedi che del disio ver' lei mi piego!». |
|
67 |
che tu non mi impedisca di
aspettare, fino a quando quella fiamma a due punte sia
giunta qui: guarda come dal desiderio mi chino verso di
lei!" |
70 |
Ed elli a
me: «La tua preghiera è degna
di molta loda, e io però l'accetto;
ma fa che la tua lingua si sostegna. |
|
70 |
E Virgilio a me: "La tua
richiesta merita un grande elogio, e io perciò
l’approvo: ma fa che la tua lingua si trattenga dal
parlare. |
73 |
Lascia
parlare a me, ch'i' ho concetto
ciò che tu vuoi; ch'ei sarebbero schivi,
perch' e' fuor greci, forse del tuo detto». |
|
73 |
Lascia parlare me, poiché
ho capito ciò che desideri: perché essi, essendo stati
Greci, forse eviterebbero di parlare con te". |
|
Osserva il Fubini che nessun episodio del poema ha, come
quello di Ulisse, "un preambolo così ampio e vario e
solenne". "Non basta a Dante dirci del desiderio suo di
conoscere gli spiriti (o non piuttosto uno degli
spiriti?) che sono nella bolgia... né basta dopo le
parole di Virgilio, da cui ha appreso chi siano i
peccatori chiusi nella fiamma cornuta, la preghiera che
gli sia concesso di trattenersi con quei dannati, ma la
preghiera ha accenti come non se ne trovano altre volte
assai ten priego e ripriego che il priego vaglia mille e
si rafforza di una nota patetica vedi che del desio per
lei mi piego!" In relazione alla terzina 73, variamente
interpretata dai commentatori, il critico molto
opportunamente chiarisce: "Chi vorrà ancora sofisticare
col Tasso, il qual poeta pur ha così bene inteso la
poesia dell’Ulisse dantesco, di un Virgilio che
ingannatore con gli ingannatori vuoi farsi credere Omero
per indurre l’eroe greco a parlare? E’ evidente invece
il proposito nel Poeta di creare come una più ampia
prospettiva, frapponendo fra sé e il suo nuovo
personaggio la figura di Virgilio, e un Virgilio così
paludato... Se poi taluno stimasse troppo scoperta la
ricerca di bello stile nelle parole virgiliane e in più
di un punto di questa prima parte, è da rammentare che
essa tutta ha rispetto alla grande poesia del racconto
di Ulisse l’ufficio di un recitativo, di un discorso
cioè necessariamente più analitico, di cui facile è
cogliere gli elementi onde è composto, del tutto fusi e
trasfigurati nel canto a cui esso tende e che in ogni
suo accento annuncia e prepara. |
76 |
Poi che la
fiamma fu venuta quivi
dove parve al mio duca tempo e loco,
in questa forma lui parlare audivi: |
|
76 |
Dopo che la fiamma giunse
nel punto in cui Virgilio ritenne opportuno, io lo udii
parlare in questo modo: |
79 |
«O voi che
siete due dentro ad un foco,
s'io meritai di voi mentre ch'io vissi,
s'io meritai di voi assai o poco |
|
79 |
"O voi che vi trovate in
due dentro una sola fiamma, se io ebbi qualche merito
nei vostri riguardi, mentre ero in vita, se io l’ebbi
grande o piccolo |
82 |
quando nel
mondo li alti versi scrissi,
non vi movete; ma l'un di voi dica
dove, per lui, perduto a morir gissi». |
|
82 |
quando in terra scrissi i
nobili versi, sostate: e uno di voi racconti dove, per
parte sua, smarritosi andò a morire." |
|
Le parole che Virgilio rivolge a Ulisse e Diomede sono
un esempio di quello che per Dante era lo stile
"tragico" e, proprio della poesia degli antichi: stile
eloquente, basato su forme retoriche (qui la
contrapposizione di due ad un nel verso 79, la ripresa,
nel verso 81, del primo emistichio del verso precedente,
l’accenno ad un’attenuazione dei meriti di chi parla,
espresso nella disgiunzione assai o poco, perché
maggiormente spicchino quelli dell’interlocutore),
mirante in primo luogo a persuadere. La richiesta
esplicita (non vi movete) è preparata da un giro di
frasi volte ad ottenere il libero assenso di uno dei due
eroi greci: non tende cioè, come altre volte, a
costringere il dannato a parlare contro quella che è la
sua volontà. L’ultima parte di questo discorso del poeta
latino partecipa tuttavia già della concisione del
racconto di Ulisse: in essa, come in quest’ultimo, i
fatti prendono decisamente il sopravvento sulle
considerazioni soggettive. La tragedia dell’eroe greco e
già tutta nella contrapposizione che si istituisce, per
virtù di stile e al di là di ogni significato immediato,
tra il primo emistichio del verso 83 ( non vi movete) e
il secondo emistichio del verso 84 ( a morir gissi ):
Ulisse trovò la morte proprio per aver rifiutato ogni
forma di stasi (rappresentata, come vedremo, da un mondo
di affetti e da un monito enimmatico, le colonne
d’Ercole), ogni indugio nel già compiuto, ogni approdo
nell’inazione. |
85 |
Lo maggior
corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica; |
|
85 |
La punta più alta
dell’antica (da secoli circonda i due dannati) fiamma
cominciò a scuotersi rumoreggiando proprio come quella
che il vento agita; |
88 |
indi la cima
qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori e disse: «Quando |
|
88 |
poi, muovendo di qua e di
là la punta, quasi fosse la lingua che parlava, getto
fuori la voce, e disse: "Quando |
91 |
mi diparti'
da Circe, che sottrasse
me più d'un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enëa la nomasse, |
|
91 |
mi allontanai da Circe,
che mi trattenne per oltre un anno là vicino a Gaeta,
prima che Enea la chiamasse così, |
94 |
né dolcezza
di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né 'l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta, |
|
94 |
né la tenerezza per il
figlio, né l’affetto riverente per il vecchio padre, né
il dovuto amore che doveva rendere felice Penelope, |
97 |
vincer
potero dentro a me l'ardore
ch'i' ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore; |
|
97 |
poterono
vincere dentro di me l’ardente desiderio che ebbi di
conoscere il mondo, e i vizi e le virtù degli uomini; |
|
La punta della fiamma parla, ma la sua voce si converte
in linguaggio umano lentamente, con fatica, con dolore:
gittò (verso 90) manifesta tutta la difficoltà che
incontrano queste anime fasciate di fuoco nel convertire
in parole, oltre il rumore della fiamma che resiste al
vento, i loro pensieri. Il tema del linguaggio dei
dannati - della possibilità loro concessa, una volta che
sono stati privati delle apparenze umane e trasformati
in oggetti, di esprimersi - si riaffaccia in questo e
nel canto successivo, dopo essere stato alla base
dell’episodio di Pier delle Vigne. Le due terzine che
preludono al racconto di Ulisse - così lineare, limpido,
interamente travasato nei fatti senza un’ombra di dubbio
o ripensamento - esprimono una chiusa sofferenza: quella
che provano questi dannati nel riprendere, per pochi
istanti, contegno e parola di uomini. Tuttavia, come
osserva il Momigliano, rispetto alla similitudine
tematicamente analoga del canto XIII (come d’un stizzo
verde) queste due terzine hanno "un andamento largo,
arioso, in cui già spira, per un’occulta concordanza, il
soffio del mare aperto".Per il racconto dell’ultimo
viaggio di Ulisse Dante ha tratto ispirazione da
numerose fonti, sia antiche sia medievali, le quali
tuttavia non gli hanno fornito che spunti isolati e
suggerimenti di carattere molto generico.Ulisse, secondo
Ovidio (Metamorfosi XIV, versi 223 sgg. ), si trattenne
per un anno presso la maga Circe, sul promontorio
Circeo, a nord di Gaeta. Qui la maga aveva trasformato
tutti i compagni dell’eroe in porci; il solo Ulisse
aveva saputo opporsi validamente, minacciandola con la
spada, ai suoi incantesimi. Nel poema di Virgilio (VII,
versi 1 sgg.) è detto che il luogo dove sorge la città
di Gaeta fu così chiamato da Enea in memoria della
propria nutrice, Caieta, che vi mori e vi ebbe sepoltura.La
figura dell’Ulisse dantesco, nella quale pur
confluiscono motivi gi&agrav e; presenti in quella
dell’eroe omerico, rappresenta tuttavia, presa nel suo
insieme, l’antitesi di quella del protagonista
dell’Odissea. Mentre questo, infatti, appare sempre
nostalgicamente proteso verso il passato, la sua piccola
Itaca, un mondo ben conosciuto, la tranquillità degli
affetti familiari, l’Ulisse dantesco si lancia verso un
avvenire che deve essere sempre fatto oggetto di
conquista per porsi come valido, concepisce la vita come
continuo superamento di ciò che, essendo, ha un limite,
come un imperativo etico al quale non è lecito
sottrarsi, In ciò è la sua modernità. Occorre tuttavia
aggiungere che la morale dell’Ulisse dantesco non è
quella del " superuomo ", orgogliosamente proclamata dal
Romanticismo decadente (alla sua figura si ispireranno,
fra gli altri, Tennyson e D’Annunzio). Il mondo di
affetti che si lascia alle spalle non è da lui deriso e
disprezzato, ma soltanto subordinato al disinteressato
ardore di conoscenza che lo spinge sempre avanti, verso
l’ignoto. Giustamente osserva il Fubini: "Non la
dismisura di quei personaggi [i protagonisti dei
rifacimenti del Tennyson e del D’Annunzio], ma la misura
è il carattere proprio del personaggio dantesco: il
quale non mira a porsi col suo operato al di fuori
dell’umanità. ma a fare quello che ogni uomo nella sua
condizione non potrebbe non fare, che non aspira a una
singolare o impossibile grandezza, ma unicamente ad
attuare insieme coi compagni il suo destino di uomo, che
degli affetti umani parla come chi tutti li senta e li
intenda". |
100 |
ma misi me
per l'alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto. |
|
100 |
ma mi spinsi
per lo sconfinato alto mare solo con una nave, e con
quella esigua schiera dalla quale non ero stato
abbandonato. |
103 |
L'un lito e
l'altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l'isola d'i Sardi,
e l'altre che quel mare intorno bagna. |
|
103 |
Vidi l’una e l’altra
sponda fino alla Spagna, fino al Marocco, e alla
Sardegna, e alle altre isole bagnate tutt’intorno da
quel mare (il Mediterraneo). |
106 |
Io e '
compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov' Ercule segnò li suoi riguardi |
|
106 |
Io e i miei compagni
eravamo vecchi e lenti nei nostri movimenti allorché
giungemmo a quell’angusto stretto dove Ercole fissò i
suoi limiti, |
109 |
acciò che l'uom
più oltre non si metta;
da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l'altra già m'avea lasciata Setta. |
|
109 |
affinché l’uomo non si
avventuri oltre (Ercole, secondo il mito, piantò le rupi
di Calpe e di Abila, l’una sulla sponda europea, l’altra
su quella africana, perché, segnando i limiti del mondo
esplorabile, nessuno osasse oltrepassarli ): lasciai
alla mia destra Siviglia, alla mia sinistra ormai Ceuta
(Setta: è l’antica Septa romana, sulla costa africana)
mi aveva lasciato. |
|
Una delle interpretazioni più persuasive della figura di
Ulisse è quella avanzata e svolta con ricchezza di
argomenti dal Mattalia, sulla base di alcune idee del
Nardi. Secondo questa interpretazione l’eroe greco che
Dante incontra nell’ottava bolgia rappresenta l’umanità
pagana "capace di umana perfezione ma non di eterna
salvezza: ricca di capitali insegnamenti anche per il
mondo cristiano: animata da una indomabile fiducia nel
potere della ragione, ma chiusa nei limiti della ragione
stessa e di una civilitas basata su di un’etica a
fondamento esclusivamente razionale, insufficiente a
guidare l’uomo al conseguimento del suo fine unico
(Dio)". Da questo punto di vista la differenza tra il
personaggio di Virgilio e quello di Ulisse sta nel fatto
che laddove il primo è consapevole della limitatezza
della ragione (state contenti, umana gente, al quia
esorta il poeta latino nel terzo canto del Purgatorio,
verso 37 ), Ulisse mostra di non averne coscienza.
Sempre nell’ambito di questa interpretazione "Ulisse che
varca le colonne d’Ercole è il mondo pur esemplare del
paganesimo mosso dall’oscura intuizione di realtà
esistenti oltre il limite della ragione e dall’avido
bisogno di procedere oltre". Questo atto dell’eroe greco
non può tuttavia non convertirsi in follia "per la
pretesa in esso implicita ( inconscia o solo oscuramente
intuita in Ulisse, ma chiara agli occhi
dell’interpretante e cristiano Dante) di surrogare la
ragione alla Rivelazione, l’uomo al Dio-Uomo". |
112 |
"O frati",
dissi, "che per cento milia
perigli siete giunti a l'occidente,
a questa tanto picciola vigilia |
|
112 |
"O fratelli", dissi, "che
avete raggiunto il confine occidentale (il mondo finiva,
per gli antichi, allo stretto di Gibilterra) attraverso
centomila pericoli, a questo così breve tempo |
115 |
d'i nostri
sensi ch'è del rimanente
non vogliate negar l'esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente. |
|
115 |
che ci rimane da vivere,
non vogliate negare la conoscenza, seguendo il corso del
sole, del mondo disabitato. |
118 |
Considerate
la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza". |
|
118 |
Riflettete sulla vostra
natura: non foste creati per vivere come bruti, ma per
seguire la virtù e il sapere." |
121 |
Li miei
compagni fec' io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti; |
|
121 |
Con questo breve discorso
resi i miei compagni così desiderosi di proseguire il
viaggio, che a stento dopo sarei riuscito a fermarli; |
124 |
e volta
nostra poppa nel mattino,
de' remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino. |
|
124 |
e rivolta verso Oriente la
poppa della nostra nave, trasformammo i remi in ali per
il viaggio temerario, sempre avanzando verso sinistra (
verso sud, ovest). |
|
Nel rivolgersi ai suoi compagni Ulisse non promette
loro, dopo cento milia peripli, agi o tranquillità, ma
soltanto esperienza, li invita - e quanta affabilità è
nel suo invito, quanta umanità in quel chiamarli
fratelli - a spendere gli ultimi giorni che restano loro
da vivere nel modo più degno di un nome: nella dedizione
incondizionata e gioiosa ad un ideale di razionalità e
di autosuperamento. A queste parole, nei vecchi e tardi
marinai riaffluisce la gioventù, la vita, diventano
aguti, la picciola vigilia, che ciascuno di loro vedeva
forse stagnare davanti a sé in un futuro inerte, si
tende verso un significato supremo, al di là del quale
più nulla possono intravedere: conoscere le terre
disabitate dell’emisfero australe. |
127 |
Tutte le
stelle già de l'altro polo
vedea la notte, e 'l nostro tanto basso,
che non surgëa fuor del marin suolo. |
|
127 |
Già la notte ci mostrava
tutte le stelle dell’emisfero australe, e (ci mostrava)
invece il nostro (emisfero) così basso. che non si
alzava al di sopra della superficie del mare. |
130 |
Cinque volte
racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che 'ntrati eravam ne l'alto passo, |
|
130 |
Cinque volte si era accesa
e altrettante spenta (erano passati cinque mesi) la luce
che la luna mostra nella sua parte inferiore, da quando
avevamo iniziato il nostro difficile viaggio, |
133 |
quando
n'apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avëa alcuna. |
|
133 |
allorché ci apparve una
montagna, scura a causa della distanza, e mi sembrò
tanto alta come non ne avevo mai veduta alcuna. |
136 |
Noi ci
allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto. |
|
136 |
Noi gioimmo, e subito la
nostra gioia si mutò in disperazione: perché dalla terra
da poco avvistata sorse un vento vorticoso, che investì
la prua della nave. |
139 |
Tre volte il
fé girar con tutte l'acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com' altrui piacque, |
|
139 |
Tre volte la fece girare
insieme con le acque circostanti: alla quarta fece
levare la poppa in alto e sprofondare la prua, come
volle Dio, |
142 |
infin che 'l
mar fu sovra noi richiuso». |
|
142 |
finché il mare si richiuse
sopra di noi". |
|
La montagna che si profila agli occhi di Ulisse e del
suo equipaggio, indistinta nella lontananza, è quella
del purgatorio, Per il Nardi, il quale interpreta
l’episodio sulla base di alcuni passi della Scrittura,
"nella follia di Ulisse e dei suoi compagni vi è tutto
l’orgoglio umano che spinse Adamo ed Eva al trapassar
del segno gustando la scienza del bene e del male, per
essere simili a Dio. V’è anzi lo stesso orgoglio di
Lucifero". In base a questa interpretazione forse troppo
radicale, ma comunque coerente con le premesse
teologiche dalle quali difficilmente si può prescindere
nel trattare della poesia di Dante, il Nardi scorge alla
radice del motivo del turbine che investe la nave di
Ulisse, un’ispirazione biblica: la "spada fiammeggiante
e roteante" del cherubino posto da Dio a guardia del
legno della vita. |
|
|
|
 |
 |
 |
 |
|