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DIVINA
COMMEDIA: PARAFRASI
INFERNO
CANTO XXVII° |
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1 |
Già era
dritta in sù la fiamma e queta
per non dir più, e già da noi sen gia
con la licenza del dolce poeta, |
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1 |
La fiamma si era già raddrizzata e stava ferma perché
più non parlava, e già si allontanava da noi col
permesso del caro Virgilio, |
4 |
quand'
un'altra, che dietro a lei venìa,
ne fece volger li occhi a la sua cima
per un confuso suon che fuor n'uscia. |
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4 |
quando un’altra, che
sopraggiungeva dietro di lei, ci fece volgere lo sguardo
verso la sua punta a causa di un mormorio che da essa
proveniva. |
7 |
Come 'l bue
cicilian che mugghiò prima
col pianto di colui, e ciò fu dritto,
che l'avea temperato con sua lima, |
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7 |
Come il toro siciliano che
muggì per la prima volta, e ciò fu cosa giusta, con il
lamento di colui che l’aveva costruito con i suoi
arnesi, |
10 |
mugghiava
con la voce de l'afflitto,
sì che, con tutto che fosse di rame,
pur el pareva dal dolor trafitto; |
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10 |
muggiva con il gemito del
martirizzato, tanto che, sebbene fosse fatto di rame,
sembrava che lui stesso soffrisse, |
13 |
così, per
non aver via né forame
dal principio nel foco, in suo linguaggio
si convertïan le parole grame. |
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13 |
così, non trovando all’inizio né una via né un’apertura
attraverso il fuoco, le parole dolorose si mutavano nel
suono di quest’ultimo. |
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Secondo una leggenda riportata da diversi scrittori
latini (Ovidìo, Plinio il Vecchio, Valerio Massimo,
Paolo Orosio) l’ateniese Perillo aveva costruito per il
tiranno d’Agrigento, Falaride, un bue di rame, che,
arroventato, causava la morte, tra atroci supplizi, dei
condannati chiusi in esso. Il bue di Perillo aveva la
particolarità di trasformare in gemiti bovini le grida
di questi infelici. La prima vittima di questo strumento
di tortura fu il suo stesso inventore. L’inciso dantesco
e ciò fu dritto riecheggia, in forma lapidaria una più
ampia considerazione di Ovidio (Ars amandi 1, 653-654):
"Non esiste infatti legge più giusta di quella per cui
gli artefici di morte periscono ad opera della loro
arte". Nel verso 9 il Torraca ha visto, con penetrante
acume, il compiacimento dell’artefice intento a
perfezionare, con alacrità disumana, il crudele prodotto
del proprio ingegno. L’andamento della similitudine, che
ripropone, all’inizio di questo canto, il tema del
linguaggio dei consiglieri fraudolenti, già accennato in
quello precedente (versi 85-90). è faticoso, complesso,
contorto. A causare in noi questa impressione
contribuiscono, fra l’altro, l’accavallarsi delle
determinazioni - ognuna delle quali. pur logicamente in
funzione subordinata, tende ad assumere un valore
assoluto, ostacolando lo scorrere del discorso ~ e la
ripetizione, appena variata, dello stesso verbo
mugghiare - assunto dapprima a chiarire una circostanza
secondaria ed in un secondo tempo il fatto sul quale
poggia l’intera comparazione. Bene osserva in proposito
il Crispolti: "Evidentemente Dante vuol produrre nei
lettori una aspettazione, per cui tanto più le parole di
Guido appariscano gravi, quanto più hanno tardato ad
essere profferite". Il Sanguineti, dal canto suo, nel
raffrontare questa similitudine con quella premessa al
racconto di Ulisse, nota come "alla qualità de ll’immagine
invocata per Ulisse (la fiamma cui vento affatica),
sostenuta tutta, così puntualmerite sobria, ancora dai
valori descrittivi", si contrappone quella dell’
"immagine singolarmente addotta per Guido, insistente e
diffusa, lentamente disvelatrice". Illuminante appare la
seguente osservazione del Terracini: "il motivo di
questa voce che esce a stento e non naturale dalle
fiamme non si limita a questo esordio; lo ritroveremo
implicito... in un elemento di stile: nell’onda del
discorso ora serrata, ora spezzata, e sin nella
duplicità ora ambigua ora drammatica, che scorre lungo
tutto il raccontodi Guido e trae appunto la sua prima
origine dal suon confuso emesso dalla fiamma". |
16 |
Ma poscia
ch'ebber colto lor vïaggio
su per la punta, dandole quel guizzo
che dato avea la lingua in lor passaggio, |
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16 |
Ma dopo che ebbero trovato
la loro via verso l’alto attraverso la punta,
comunicandole quella vibrazione che la lingua aveva loro
impresso mentre passavano, |
19 |
udimmo dire:
«O tu a cu' io drizzo
la voce e che parlavi mo lombardo,
dicendo "Istra ten va, più non t'adizzo", |
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19 |
udimmo dire:
"O tu al quale rivolgo la parola e che or ora parlavi in
dialetto lombardo, dicendo "Adesso vattene; più non ti
sprono a parlare", |
22 |
perch' io
sia giunto forse alquanto tardo,
non t'incresca restare a parlar meco;
vedi che non incresce a me, e ardo! |
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22 |
sebbene io sia arrivato forse un po’ tardi, non ti
dispiaccia rimanere a parlare con me: vedi che a me non
rincresce, eppure brucio! |
25 |
Se tu pur mo
in questo mondo cieco
caduto se' di quella dolce terra
latina ond' io mia colpa tutta reco, |
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25 |
Se tu proprio ora sei precipitato nell’inferno da quella
amata terra italiana dalla quale ho portato tutti i miei
peccati, |
28 |
dimmi se
Romagnuoli han pace o guerra;
ch'io fui d'i monti là intra Orbino
e 'l giogo di che Tever si diserra». |
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28 |
dimmi se i Romagnoli sono
in pace o in guerra; perché io nacqui nei monti là tra
Urbino e il giogo da cui scaturisce il Tevere". |
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Il personaggio che parla, fasciato dalla fiamma (i
consiglieri fraudolenti non sono trasformati in fiamme,
ma da queste soltanto rivestiti, come risulta dal verso
48 del canto XXVI) è il conte Guido I da Montefeltro.
Nato intorno al 1220, militò nelle file del partito
ghibellino e fu, nel 1268, vicario a Roma di Corradino
di Svevia. Nel 1275. in qualità di capitano generale dei
Ghibellini della Romagna, sgominò presso Faenza, al
ponte San Procolo, i Guelfi bolognesi e si impadronì di
Cesena e di Bagnacavallo. Nel 1282, assediato in Forlì
dalle milizie guelfe guidate dal francese Giovanni d’Appia,
fece una vittoriosa sortita contro il nemico. Dopo la
resa della città, fu confinato dalla Chiesa, alla quale
aveva fatto atto di sottomissione, in Piemonte, ma nel
1289 riprese a combattere contro i Guelfi come podestà e
capitano di guerra a Pisa. Tornato ìn Romagna nel 1292,
ottenne la signoria di Urbino. Dopo essersi riconciliato
col papa, indossò, nel 1296, il saio francescano. Morì
due anni dopo.
Un punto assai oscuro, in questo primo discorso di Guido
da Montefeltro, è rappresentato dai versi 20-21, dal
momento che le ultime parole pronunciate da Virgilio
sono state rivolte ad Ulisse per congedarlo (verso 3), e
tenuto conto che è stato proprio Virgilio a consigliare
Dante di non rivolgere la parola ad Ulisse e a Diomede,
perché, essendo Greci, avrebbero evitato (e non
sarebbero stati capaci) di esprimersi in volgare (canto
XXVI, versi 73-75). C’è un contrasto nettissimo, come ha
rilevato il Fubini, fra il colore lessicale
dell’episodio di Ulisse (nel quale abbondano espressioni
auliche e latinismi) e quello delle parole con le quali
verosimilmente Virgilio congeda l’eroe greco. Il Sapegno
avanza l’ipotesi che fosse "nell’intenzione di Dante di
segnare, con questo curioso contrasto, il trapasso, che
quì si attua, dal mondo del mito a quello della cronaca
attuale". Per il Lipari infine la cagione e la ragione
del contrasto fra i due episodi stanno proprio lì e solo
lì, nella diversità di stile: ché l’episodio di Ulisse è
nello stile " tragico " o " alto ", di Virgilio, mentre
quello di Guido da Montefeltro è nello stile " comico "
o " mezzano ", particolare di Dante". |
31 |
Io era in
giuso ancora attento e chino,
quando il mio duca mi tentò di costa,
dicendo: «Parla tu; questi è latino». |
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31 |
Stavo ancora attento e
chinato verso il fondo, allorché Virgilio mi toccò nel
fianco (tentò di costa), dicendo: "Parla tu; costui è
italiano (latino)". |
34 |
E io, ch'avea
già pronta la risposta,
sanza indugio a parlare incominciai:
«O anima che se' là giù nascosta, |
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34 |
Ed io, che ero già
preparato a rispondere, presi a parlare senza indugio:
"O anima che sei celata laggiù, |
37 |
Romagna tua
non è, e non fu mai,
sanza guerra ne' cuor de' suoi tiranni;
ma 'n palese nessuna or vi lasciai. |
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37 |
la tua Romagna non è, e
non è mai stata, in pace nel cuore dei suoi signori; ma
ora non vi lasciai alcun conflitto manifesto. |
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Nella primavera dei 1300, periodo in cui Dante immagina
di aver compiuto il suo viaggio nell’oltretomba, la
Romagna appariva pacificata. Alla fine del 1299,
infatti, era stato posto termine, per intervento di
Bonifacio VIII, alla guerra combattuta dal marchese Azzo
VIII d’Este contro il comune di Bologna e i signori
romagnoli. |
40 |
Ravenna sta
come stata è molt' anni:
l'aguglia da Polenta la si cova,
sì che Cervia ricuopre co' suoi vanni. |
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40 |
Ravenna si trova nella condizione in
cui è stata per molti anni: l’aquila dei da Polenta se
la custodisce, in modo da coprire con le ali anche
Cervia. |
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Dal 1270 Ravenna era sotto la signoria della famiglia da
Polenta, che aveva come stemma, secondo il Lana, "una
aquila vermiglia nel campo giallo"; nel 1300 era signore
di Ravenna Guido il Vecchio, il padre di Francesca da
Rimini. Il dominio dei signori di Ravenna si estendeva
anche alla vicina Cervia. |
43 |
La terra che
fé già la lunga prova
e di Franceschi sanguinoso mucchio,
sotto le branche verdi si ritrova. |
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43 |
La città (la terra: Forlì) che già
sostenne il lungo assedio e fece una strage di Francesi.
è ora sotto il dominio degli artigli verdi (degli
Ordelaffi). |
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Signore di Forlì, la città in cui Guido da Montefeltro
sconfisse sanguinosamente l’esercito francese guidato da
Giovanni d’Appia, era in questo periodo Scarpetta degli
Ordelaffi, che Dante conobbe probabilmente di persona
essendo stato eletto nel 1303 capitano generale dei
Bianchi esuli da Firenze. Secondo il Lana, gli Ordelaffi
avevano "le branche verdi d’un lione nel campo giallo
per arme". |
46 |
E 'l mastin
vecchio e 'l nuovo da Verrucchio,
che fecer di Montagna il mal governo,
là dove soglion fan d'i denti succhio. |
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46 |
E il vecchio Malatesta da Verrucchio e
suo figlio, che fecero strazio di Montagna, là (a Rimini
e nelle terre vicine) dove sono soliti farlo usano i
denti a mo’ di succhiello. |
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Malatesta da Verrucchio, padre di Paolo e di Gianciotto
(Inferno V, versi 88 sgg.), si impadronì di Rimini dopo
averne cacciati i Ghibellini nel 1295 e tenne la
signoria di questa città fino al 1312, anno in cui gli
successe il figlio Malatestino. I due Malatesta erano
probabilmente soprannominati " mastini " per la loro
ferocia. Dante "inserisce qui il termine, con l’usuale
immaginosa risoluzione del linguaggio figurato
dell’araldica, e in una serie di indicazioni araldiche,
quasi a suggerire che questa sarebbe stata la più degna
insegna di una signoria ferocemente avida e
sanguinaria". (Mattalia) Il ghibellino Montagna di
Parcitade, fatto prigioniero da Malatesta il Vecchio, fu
da costui affidato alla custodia del figlio Malatestino,
il quale lo fece uccidere. |
49 |
Le città di
Lamone e di Santerno
conduce il lïoncel dal nido bianco,
che muta parte da la state al verno. |
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49 |
Le città bagnate dal Lamone (Faenza) e
dal Santerno (Imola) sono governate dal piccolo leone in
campo bianco, che cambia partito da una stagione
all’altra. |
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Maghinardo Pagani da Susinana, il quale "aveva per arme
un lione nel campo bianco" (Lana), fu signore di Imola e
Faenza e morì nel 1302. Scrive di lui il Villani nella
sua Cronaca (VII, 149), dopo averlo definito Il grande
savio tiranno": "ghibellino era di sua nazione e in sue
opere, ma co’ Fiorentini era guelfo e nimico di tutti i
loro nímici, o guelfi o ghibellini che fossono; e in
ognì oste e battaglia ch’e’ Fiorentini facessono, mentre
fu in vita, fu con sua gente a loro servigio e
capitano". Gli antichi commentatori interpretano il
verso 51 come se contenesse un’allusione al fatto che
Maghinardo Pagani era ghibellino in Romagna e guelfo, in
quanto amico della guelfa Firenze, in Toscana. Dei
moderni il Torraca vede riassunti in questa definizione
lapidaria "i frequenti e rapidi passaggi di Maghinardo
da una ad un’altra delle fazioni di Faenza e di tutta
Romagna. Le storie romagnole attestano che egli fu
quando favorevole, quando ribelle ai rettori pontifici;
nemico a vicenda ed amico de’ Manfredi, de’ Calboli. de’
Malatesta guelfi; ora capo de’ Ghibellini, ora
combattente in campo contro di essi; benedetto,
scomunicato, ribenedetto dalla Chiesa". |
52 |
E quella cu'
il Savio bagna il fianco,
così com' ella sie' tra 'l piano e 'l monte,
tra tirannia si vive e stato franco. |
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52 |
E Cesena che è bagnata dal Savio, così
com’è sistemata tra la pianura e l’Appennino, vive tra
la tirannide e la libertà. |
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Cesena, bagnata dal fiume Savio, fu governata dal 1296
al luglio del 1300 da un cugino di Guido da Montefeltro,
Galasso da Montefeltro, che Dante nel Convivio (IV, XI,
14) menziona tra i signori più liberali. Nel quadro che
Dante presenta a Guido sulle condizioni della Romagna
ogni cosa, secondo quanto scrive il Croce, "è espressa
in modo concreto e con immagini corpulente: gli stemmi,
i nomi dei signori, i fiumi che bagnano quella terra,
gli avvenimenti di cui essa fu teatro, si affollano
all’immaginazione come esseri vivi, e della sorte di
ciascuna città si parla come se si parlasse degli
affanni e dei travagli delle proprie figliuole, e
Romagna, che le lega tra loro, è tra esse come la
primogenita: Romagna tua". |
55 |
Ora chi se',
ti priego che ne conte;
non esser duro più ch'altri sia stato,
se 'l nome tuo nel mondo tegna fronte». |
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55 |
Ora ti prego di
raccontarci chi sei: non essere restio a parlare più che
non lo sia stato io, se vuoi che il tuo nome abbia nel
mondo una fama duratura". |
58 |
Poscia che
'l foco alquanto ebbe rugghiato
al modo suo, l'aguta punta mosse
di qua, di là, e poi diè cotal fiato: |
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58 |
Dopo che la fiamma ebbe
alquanto rumoreggiato com’era solita fare, mosse la cima
aguzza di qua e di là, e poi pronunciò tali parole: |
61 |
«S'i'
credesse che mia risposta fosse
a persona che mai tornasse al mondo,
questa fiamma staria sanza più scosse; |
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61 |
"Se io pensassi che la mia
risposta fosse data a una persona che prima o poi
tornasse sulla terra, questa fiamma sarebbe silenziosa; |
64 |
ma però che
già mai di questo fondo
non tornò vivo alcun, s'i' odo il vero,
sanza tema d'infamia ti rispondo. |
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64 |
ma poiché da questo abisso
mai alcuno ritornò vivo, se è vero ciò che mi si dice,
ti rispondo senza timore d’essere coperto d’infamia. |
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Osserva il Terracini, in merito a questa risposta di
Guido a Dante: "Questo spirito cosi guardingo e
ragionatore, si dimostra ciecamente ignaro dell’errore
che lo insidia al fondo della sua stessa
argomentazione... il dannato è qui tragicamente cieco;
più parla sicuro, più poeta e lettore lo vedono
brancolare nel vuoto. Dapprima una ipotesi data come
irreale (s’io credessi ... starìa), poi sopraggiunge un
più forte e più certo argomento (ma però... ), appena
attenuato dall’ombra di un dubbio, prospettato per altro
come assurdo (s’i’ odo il vero); infine la conclusione
ciecamente decisa: sanza tema d’infamia ti rispondo". |
67 |
Io fui uom
d'arme, e poi fui cordigliero,
credendomi, sì cinto, fare ammenda;
e certo il creder mio venìa intero, |
|
67 |
Fui guerriero, e poi frate
francescano, ritenendo che, cinto da quel cordiglio,
avrei riparato (alle mie colpe); e sicuramente ciò che
io credevo si sarebbe avverato del tutto, |
70 |
se non fosse
il gran prete, a cui mal prenda!,
che mi rimise ne le prime colpe;
e come e quare, voglio che m'intenda. |
|
70 |
se non fosse stato per il
papa, che mal gliene incolga!, che mi ece ricadere nei
peccati di prima; e voglio che tu ascolti in qual modo e
perché. |
73 |
Mentre ch'io
forma fui d'ossa e di polpe
che la madre mi diè, l'opere mie
non furon leonine, ma di volpe. |
|
73 |
Finché fui il principio
informativo (forma lui: in quanto anima, nel significato
solito della Scolastica) del corpo che mi diede mia
madre (cioè: finché fui vivo), le mie azioni non furono
il risultato della forza, ma dell’astuzia (di volpe). |
76 |
Li
accorgimenti e le coperte vie
io seppi tutte, e sì menai lor arte,
ch'al fine de la terra il suono uscie. |
|
76 |
Io conobbi tutte le
astuzie e tutti i raggiri, e li usai così bene, che la
loro fama raggiunse i confini del mondo. |
79 |
Quando mi
vidi giunto in quella parte
di mia etade ove ciascun dovrebbe
calar le vele e raccoglier le sarte, |
|
79 |
Quando mi accorsi di
essere arrivato a quell’età (la vecchiaia) in cui ognuno
dovrebbe ammainare le vele e radunare le sartie, |
82 |
ciò che pria
mi piacëa, allor m'increbbe,
e pentuto e confesso mi rendei;
ahi miser lasso! e giovato sarebbe. |
|
82 |
quello che prima mi era piaciuto,
allora mi dispiacque, e dopo essermi pentito e
confessato mi feci frate; ah povero infelice!, e ciò mi
avrebbe giovato. |
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L’immagine contenuta nel verso 81 è svolta ampiamente in
un passo del Convivio (IV, XXVIII, 3 e 8) ove è fatto
anche l’elogio di Guido da Montefeltro: "la naturale
morte è quasi a noi porto di lunga navigazione e riposo.
Ed è così: [ché], come lo buono marinaio, come esso
appropinqua al porto, cala le sue vele, e soavemente,
con debile conducimento, entra in quello; così noi
dovemo calare le vele delle nostre mondane operazioni e
tornare a Dio con tutto nostro intendimento e cuore, sì
che a quello porto si vegna con tutta soavìtade e con
tutta pace... Certo lo cavaliere Lancelotto non volse
entrare con le vele alte, né lo nobilissimo nostro
latino Guido montefeltrano. Bene questi nobili calaro le
vele delle mondane operazioni, che nella loro lunga
etade a religione si rendero, ogni mondano diletto e
opera disponendo". |
85 |
Lo principe
d'i novi Farisei,
avendo guerra presso a Laterano,
e non con Saracin né con Giudei, |
|
85 |
Il capo (Bonifacio VIII)
dei Farisei dei nostri giorni, conducendo una guerra
vicino a Roma, e non contro Saraceni né contro Ebrei
(cioè contro i nemici della religione cattolica), |
88 |
ché ciascun
suo nimico era Cristiano,
e nessun era stato a vincer Acri
né mercatante in terra di Soldano, |
|
88 |
giacché ogni suo
avversario era cristiano, ma nessuno era stato a
conquistare Acri né a commerciare nel paese dei Sultano, |
91 |
né sommo
officio né ordini sacri
guardò in sé, né in me quel capestro
che solea fare i suoi cinti più macri. |
|
91 |
non rispettò in sé né
l’elevato incarico né gli ordini sacerdotali, né in me
quel cordone francescano che rendeva un tempo più magro
chi se ne cingeva. |
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Bonifacio VIII (cfr. canto XIX, versi 52~57) è chiamato
il più grande (questo il significato del termine
principe) dei Farisei moderni; il sarcasmo dei Poeta
coinvolge nella medesima condanna il papa, considerato
responsabile del suo esilio e del trionfo del partito
dei Neri in Firenze, e le alte gerarchie ecclesiastiche
del suo tempo. I Farisei sono tacciati nel Vangelo di
ipocrisia; alla doppiezza di Bonifacio VIII Dante ha già
fatto riferimento nel canto VI, verso 69 (con la forza
di tal che testé piaggia). Scrive il Chimenz: "la
tremenda perifrasi iniziale (lo principe de’ nuovi
Farisci), benché così carica di disprezzo, non suona
come ingiuria da persona a persona: Fariseo Bonifazio,
ma Farisei anche gli altri prelati di cui egli è il
capo: la condanna generale attenua quella particolare:
Bonifazio risulta solo l’esponente di una situazione
generale, della degenerazione globale della Chiesa. La
posizione dei dannato rispetto a Bonifazio appare, in
questa requisitoria, identica a quella di Dante: li
muove entrambi l’odio personale per un danno ricevuto,
ma in entrambi l’odio è purificato e redento,
trasformatosi in passione morale. La requisitoria non
sarebbe diversa sulla bocca di Dante stesso".
Presso San Giovanni in Laterano sorgevano le case dei
Colonna, e contro di loro che non avevano riconosciuto
la validità della sua elezione al trono pontificio,
Bonifacio VIII intraprese nel 1297 una campagna militare
conclusasi, dopo diciotto mesi, con la presa del
castello di Palestrina.
L’episodio del consiglio fraudolento dato da Guido da
Montefeltro a Bonifacio VIII e riguardante la presa
della roccaforte dei Colonna, Palestrina (cfr. versi 102
e 110-111 ) , è con tutta probabilità soltanto una
leggenda, assai diffusa peraltro ai tempi del Poeta.
Essa è considerata fatto realmente accaduto dal cronista
bolognese Francesco Pipino e dal ferrarese Riccobaldo, i
quali narrarono l’evento senza conoscere il racconto,
fattone da Dante.
Il verso 89 si riferisce alla conquista nel 1291, da
parte dei musulmani. di San Giovanni d’Acri, ultima
delle città rimaste in mano dei cristiani in Terrasanta
dopo le Crociate, laddove il verso 90 allude ai divieti
- a più riprese emanati dai pontefici (da Innocenzo III
a Niccolò IV e allo stesso Bonifacio VIII) - di
commerciare nelle terre degli infedeli.
Il verso 93 contiene un implicito riferimento ad un
rilassamento dei costumi nell’ordine francescano.
"Quanto più ampio il quadro storico e risonante di
sdegno etico e politico, tanto più ree appaiono le
persone: indegno e folle il papa che qui diventa
protagonista, indegno il monaco tentato, meschini i
francescani appena appena tratteggiati..."(Terracini) |
94 |
Ma come
Costantin chiese Silvestro
d'entro Siratti a guerir de la lebbre,
così mi chiese questi per maestro |
|
94 |
Ma come l’imperatore
Costantino mandò a chiamare dalla grotta dei monte
Soratte papa Silvestro I per essere guarito dalla
lebbra, così quegli mi fece andare da lui come medico |
97 |
a guerir de
la sua superba febbre;
domandommi consiglio, e io tacetti
perché le sue parole parver ebbre. |
|
97 |
per guarirlo
dalla febbre della sua superbia: mi chiese consiglio, e
io tacqui, perché le sue parole mi sembrarono
dissennate. |
|
Nel Medioevo era assai diffusa la versione leggendaria
della conversione al Cristianesimo dell’imperatore
Costantino, avvenuta in seguito alla sua guarigione ad
opera di papa Silvestro. Secondo l’Anonimo Fiorentino,
l’imperatore, ammalato di lebbra, richiese l’intervento
di papa Silvestro che, per sfuggire alla persecuzione
contro i cristiani, si era rifugiato in una grotta del
monte Soratte: "e elli il battezzò; e subito guarì della
lebbra e credette".
Il confronto fra la richiesta di Costantino e quella di
Bonífacio VIII è nota il Bonora - amarissimo, "perché il
poco di somigliante che c’è fra i due episodi di
Costantino e Silvestro, di Bonifazio e Guido mette ancor
meglio in luce le differenze profonde. La Chiesa e il
suo capo perseguitati, un imperatore assetato di potere
che riconosce nella sua malattia un castigo del cielo e
si umilia a chiedere l’aiuto di colui che perseguitava,
il miracolo della guarigione, la grande vittoria della
Chiesa: tutto questo è nella leggenda di Costantino che
Silvestro guarisce dalla lebbra. Un capo spirituale
spietato verso i suoi nemici, una malattia dello spirito
e non dei corpo per la quale come medico egli cerca un
uomo che, dopo le tempeste della vita, aveva trovato la
pace del chiostro, la richiesta non del miracolo, ma di
quello che di più abietto può dare l’intelligenza, il
consiglio frodolento: questo è nella storia di Bonifazio
al quale Guido insegna come vincere Palestrina". |
100 |
E' poi
ridisse: "Tuo cuor non sospetti;
finor t'assolvo, e tu m'insegna fare
sì come Penestrino in terra getti |
|
100 |
Egli poi
disse: "Non aver timore; t’assolvo fin d’ora, e tu
indicami il modo di abbattere Palestrina. |
103 |
Lo ciel
poss' io serrare e diserrare,
come tu sai; però son due le chiavi
che 'l mio antecessor non ebbe care". |
|
103 |
E’ in mio potere chiudere
e aprire. come tu ben sai, il regno dei cieli; perciò
due sono le chiavi che il mio predecessore (Celestino V,
che rinunciò al trono pontificio) rifiutò". |
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Dopo aver rivelato, in un’espressione brutale e aliena
da qualsiasi infingimento (sì come Penestrino in terra
getti), la sua sete di dominio e la violenza del suo
odio, Bonifacio VIII, "mascherando di unzione pia il
sussulto della sua anima profana, scocca il colpo
maestro della sua sacrilega astuzia [finor t’assolvo]...
Ma tosto egli si risolleva alla sua superba maestà (ora
maestà pontificale) nel verso lo ciel poss’io serrare e
disserrare, che noi vediamo, tanta ne è l’efficacia,
illuminato da uno sguardo di trionfo e accompagnato da
un ampio gesto di dominio... Di sotto al variare degli
atteggiamenti traspare in Bonifacio l’esasperata
tensione di tutto il suo cuore verso lo scopo agognato;
ma ora che egli si sente vincitore, quella tensione
s’allenta nel frizzo ingeneroso verso il povero
Celestino, con cui finisce la grandiosa rappresentazione
diretta dell’odiato pontefice" (Rossi-Frascino). |
106 |
Allor mi
pinser li argomenti gravi
là 've 'l tacer mi fu avviso 'l peggio,
e dissi: "Padre, da che tu mi lavi |
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106 |
Allora i fondati argomenti
mi spinsero là dove il silenzio mi parve la risoluzione
peggiore, per cui dissi: "Padre, giacché tu mi assolvi |
109 |
di quel
peccato ov' io mo cader deggio,
lunga promessa con l'attender corto
ti farà trïunfar ne l'alto seggio". |
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109 |
da quella colpa in cui ora
devo cadere, promettere molto e mantenere poco ti
faranno trionfare (sui tuoi nemici) nell’eccelso tuo
trono". |
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Molto persuasiva è l’interpretazione avanzata dal
Chimenz del mutamento avvenuto nell’animo di Guido dopo
la assoluzione anticipata impartitagli dal pontefice,
mutamento che si riflette nella struttura sintattica e
stilistica dei versi 108-111: "Fissati i termini del
patto, che le pause imposte dalla fine del verso dopo:
lavi e cader deggio sembrano rendere incrollabili,
improvvisamente il frate appare liberato da ogni
esitazione e da ogni scrupolo. La sua mente, ora
sgombra, ha pronta la risposta conveniente alla sua
richiesta: il suo pensiero è lucido e preciso; la sua
parola ha la fredda e lapidaria sicurezza delle sentenze
del Machiavelli. Il consiglio infatti, come è stato
finemente osservato, non è formulato come tale (Terracini),
ma come una sentenza, come asseverazione di cosa
indiscutibilmente certa, un assioma scientifico".
Secondo la tesi accolta dal Poeta, Bonifacio VIII
avrebbe indotto, su consiglio di Guido da Montefeltro, i
Colonna alla resa mediante promesse (tra cui quella di
accogliere di nuovo nel collegio cardinalizio Jacopo e
Piero Colonna, che ne erano stati scacciati) che poi non
avrebbe mantenuto. Gli storici propendono tuttavia oggi
a ritenere che il pontefice costrinse i Colonna,
asserragliati nella rocca di Palestrina, alla resa
incondizionata. |
112 |
Francesco
venne poi, com' io fu' morto,
per me; ma un d'i neri cherubini
li disse: "Non portar: non mi far torto. |
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112 |
Giunse poi San Francesco,
non appena fui spirato, per prendere la mia anima; ma
uno dei diavoli gli disse: "Non portarla via con te: non
farmi torto. |
115 |
Venir se ne
dee giù tra ' miei meschini
perché diede 'l consiglio frodolente,
dal quale in qua stato li sono a' crini; |
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115 |
Egli deve venire
nell’inferno tra i miei sudditi perché ha dato il
consiglio ingannatore, dopo il quale sono stato sempre
pronto ad afferrarlo per i capelli; |
118 |
ch'assolver
non si può chi non si pente,
né pentere e volere insieme puossi
per la contradizion che nol consente". |
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118 |
non si può infatti
assolvere chi non si pente. né è possibile pentirsi e
peccare al tempo stesso perché è cosa contraddittoria". |
121 |
Oh me
dolente! come mi riscossi
quando mi prese dicendomi: "Forse
tu non pensavi ch'io löico fossi!". |
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121 |
Oh misero me! come
trasalii quando mi ghermì dicendomi: "Forse non pensavi
che io fossi logico!". |
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In una pagina dedicata al diavolo loico il De Sanctìs
magìstralmente chìarìsce il sottofondo ironico del
contrasto, ricalcato sugli schemi tipici delle "sacre
rappresentazioni" medievali, tra il candido, serafico
fondatore dell’ordine cui Guido apparteneva e il nero
cherubino, l’arcangelo ribelle che il male non ha
privato della capacità di cogliere con coerenza
implacabile, al di là delle apparenze, l’essenza delle
cose: "Vi è oggi una logica colla quale si cerca di
giustificare questi mancamenti di fede; ma la logica è
vecchia; e Guido aveva ancora la sua: - Di che mi potete
riprendere? Io ho commesso un peccato; ma il papa mi
aveva prima assoluto -. Ma non è vero. - Tu peccasti
perché avevi paura, perché temevi che dal tuo silenzio
non te ne venisse alcun male -. Di sotto alla ragione
apparente vi è la vera ragìone, che Dante con una
profonda intelligenza del cuor umano gli fa
involontariamente uscire dal labbro. Guido mentre visse
poté ingannare gli altri; due sole persone non poté
ingannare: se stesso ed il demonio, o piuttosto l’altro
se stesso, la sua coscienza fatta demonio accusatore.
Morto, mentre San Francesco sta per recarselo in
paradiso, eccoti un " ferma! " del demonio, che ti
sfodera la sua logica, una logica ironica; in tono da
cattedratico, contraffacendo i dottori scolastici di
quel tempo, tra i quali era Guido, ti fa anch’egli il
suo sillogismo in tutte le regole, fondato sul principio
di contraddizione". |
124 |
A Minòs mi
portò; e quelli attorse
otto volte la coda al dosso duro;
e poi che per gran rabbia la si morse, |
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124 |
Mi condusse da Minosse; e
quello avvolse otto volte la coda intorno al suo duro
dorso; e dopo essersela morsicata per la grande ira, |
127 |
disse:
"Questi è d'i rei del foco furo";
per ch'io là dove vedi son perduto,
e sì vestito, andando, mi rancuro». |
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127 |
disse: "Costui è uno dei
peccatori che il fuoco sottrae alla vista"; perciò io
sono dannato nel luogo che vedi, e così avvolto dalle
fiamme, camminando, mi cruccio." |
130 |
Quand' elli
ebbe 'l suo dir così compiuto,
la fiamma dolorando si partio,
torcendo e dibattendo 'l corno aguto. |
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130 |
Quando ebbe così finito di
parlare, la fiamma si allontanò gemendo di dolore,
torcendo e dibattendo la punta aguzza. |
133 |
Noi passamm'
oltre, e io e 'l duca mio,
su per lo scoglio infino in su l'altr' arco
che cuopre 'l fosso in che si paga il fio |
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133 |
Noi proseguimmo oltre, sia
io che Virgilio, su per il ponte fino al successivo che
copre la bolgia nella quale è scontata la pena |
136 |
a quei che
scommettendo acquistan carco. |
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136 |
da parte di coloro che,
suscitando discordia, si gravano del peso della colpa. |
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