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DIVINA
COMMEDIA: PARAFRASI
INFERNO
CANTO XXIX° |
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1 |
La molta
gente e le diverse piaghe
avean le luci mie sì inebrïate,
che de lo stare a piangere eran vaghe. |
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1 |
Gli innumerevoli peccatori e le mostruose ferite avevano
riempito d’orrore a tal punto i miei occhi, che questi
erano desiderosi di piangere; |
4 |
Ma Virgilio
mi disse: «Che pur guate?
perché la vista tua pur si soffolge
là giù tra l'ombre triste smozzicate? |
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4 |
ma Virgilio mi disse: "Che
cosa scruti con tanta insistenza ? perché il tuo sguardo
si posa ancora laggiù in mezzo alle abiette anime
mutilate? |
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La descrizione delle mutilazioni inferte dalla giustizia
divina ai seminatori di discordia si è mantenuta, lungo
tutto l’arco del canto precedente, sul piano di una
cruda oggettività, volta ad esprimere la recisa condanna
del Poeta per coloro che hanno introdotto, nell’ordinato
vivere sociale, i germi dell’anarchia e della violenza.
Soltanto qui, nei versi con cui il canto XXIX inizia,
riaffiora un elemento soggettivo: Dante esprime il
proprio dolore, o, meglio precisando,
l’incommensurabilità del proprio dolore (splendido
l’accostamento di inebriate a luci: la fonte di ogni
chiarezza, dell’evidenza sensibile non meno che di
quella razionale, è come travolta, sommersa dalla
sofferenza) alla vista dello spettacolo ritratto, in
precedenza, con mano ferma e spietata. Scrive il Sapegno:
"La tensione drammatica che, nel canto XXVIII, sorregge
in un atroce crescendo la rappresentazione di sangue e
di piaghe dei seminatori di discordia, s’allenta e si
scioglie, nella prima parte del canto XXIX, in un tono
di elegia tormentosa". Sempre del Sapegno è
l’osservazione che il rimprovero di Virgilio "stimola
Dante a sviscerare e render chiaro dentro di sé il
motivo segreto di quella perplessità e di quell’angoscia,
e, chiarendolo, a prender coscienza dei suoi limiti, e
cioè a superarlo". La vaghezza di piangere - che nel
Petrarca esprimerà un compiacimento dello scrittore per
il proprio soffrire, una fuga dal mondo nell’interiorità
dei sentimenti, là dove il mondo, riflettendosi, perde
progressivamente la fermezza dei suoi contorni, per
dissolversi in sogno, incertezza, sconforto (Rime XXXVII,
verso 63: "gli occhi ... di sempre pianger vaghi",
espressione lontanissima, come significato complessivo,
da quella del verso 3 di questo canto, per la presenza
dell’avverbio " sempre") è da Dante considerata
colpevole, in quanto allontana l’uomo dalla chiarezza
razionale e dalla operosità (la virtute e canoscenza di
Ulisse). |
7 |
Tu non hai
fatto sì a l'altre bolge;
pensa, se tu annoverar le credi,
che miglia ventidue la valle volge. |
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7 |
Non hai fatto così nelle
altre bolge: se tu pretendi di contare le anime, pensa
che la bolgia ha una circonferenza di ventidue miglia. |
10 |
E già la
luna è sotto i nostri piedi;
lo tempo è poco omai che n'è concesso,
e altro è da veder che tu non vedi». |
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10 |
E la luna è già sotto di,
noi (agli antipodi di Gerusalemme: sono all’incirca le
ore tredici): ormai il tempo concessoci è breve (dovendo
i due poeti percorrere l’itinerario infernale in non più
di ventiquattro ore ed essendone trascorse diciotto,
restano loro soltanto sei ore per concludere il viaggio
tra i dannati), e sono da vedere cose diverse da quelle
che staì guardando". |
13 |
«Se tu
avessi», rispuos' io appresso,
«atteso a la cagion per ch'io guardava,
forse m'avresti ancor lo star dimesso». |
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13 |
"Se tu avessi" gli risposi subito io "fatto attenzione
al motivo per cui guardavo, forse mi avresti concesso di
fermarmi ancora." |
16 |
Parte sen
giva, e io retro li andava,
lo duca, già faccendo la risposta,
e soggiugnendo: «Dentro a quella cava |
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16 |
Intanto Virgilio si
avviava, e io lo seguivo. già dandogli la risposta. e
soggiungendo: " Dentro quella bolgia |
19 |
dov' io
tenea or li occhi sì a posta,
credo ch'un spirto del mio sangue pianga
la colpa che là giù cotanto costa». |
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19 |
dove io poco
fa avevo lo sguardo così fisso, credo che uno spirito
della mia famiglia sconti con dolore il peccato che
laggiù sì paga così atrocemente". |
22 |
Allor disse
'l maestro: «Non si franga
lo tuo pensier da qui innanzi sovr' ello.
Attendi ad altro, ed ei là si rimanga; |
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22 |
Disse allora Virgilio: "D’ora in poi non pensare più a
lui: poni mente ad altre cose, ed egli resti là; |
25 |
ch'io vidi
lui a piè del ponticello
mostrarti e minacciar forte col dito,
e udi' 'l nominar Geri del Bello. |
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25 |
giacché io lo vidi alla base del ponticello mentre ti
indicava (agli altri dannati), e proferiva aspre minacce
agitando il dito, e udii che lo chiamavano Geri del
Bello. |
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Geri del Bello, cugino di primo grado del padre di
Dante, secondo quanto afferma uno dei figli del Poeta,
Pietro Alighieri, fu ucciso da un membro della famiglia
dei Sacchetti. Un altro dei figli del Poeta, Jacopo,
attribuisce la sua morte violenta al fatto che fosse un
seminatore di discordia. L’inimicizia tra i casati degli
Alighieri e dei Sacchetti durò fino al 1342, Allorché,
per iniziativa del Duca d’Atene, fu stipulato in forma
ufficiale un patto di riconciliazione tra le due
famiglie. "Dante - osserva il Grablier - non fa entrare
direttamente in scena la figura di Geri e non la fa
parlare; eppure le dà un rilievo potentissimo: con
l’atmosfera che le suscita intorno riflettendo su di
essa i fieri e accorati sentimenti del proprio animo;
chiudendola nel disdegno e nel silenzio; facendo sì che
soltanto Virgilio l’abbia vista e la profili su uno
sfondo scuro e lontano, dove resta incisa in un gesto:
in quel minacciar forte col dito che evoca un volto,
un’anima, un dramma." |
28 |
Tu eri allor
sì del tutto impedito
sovra colui che già tenne Altaforte,
che non guardasti in là, sì fu partito». |
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28 |
Tu eri allora così
completamente occupato a guardare il signore di
Hautefort (colui che già tenne Altaforte: Bertran de
Born), che non volgesti lo sguardo in quella direzione,
finché quello (Geri) non se ne fu andato". |
31 |
«O duca mio,
la vïolenta morte
che non li è vendicata ancor», diss' io,
«per alcun che de l'onta sia consorte, |
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31 |
"O mio signore, la sua
morte violenta che non è stata ancora vendicata" dissi
"da alcuno che (per vincolo di sangue) sia partecipe
dell’ingiuria subìta, |
34 |
fece lui
disdegnoso; ond' el sen gio
sanza parlarmi, sì com' ïo estimo:
e in ciò m'ha el fatto a sé più pio». |
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34 |
lo riempie di sdegno; per
cui egli, come io penso, si allontanò senza rivolgermi
la parola: proprio per ciò mi ha reso più pietoso verso
di lui." |
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La vendetta privata era, ai tempi di Dante. un diritto
che le leggi riconoscevano e riservavano alla parentela
dell’offeso; questa era considerata consorte, cioè
compartecipe del danno subito. Per il Grablier "Dante
resta qui legato al senso medioevale della consorteria e
dei suoi offesi diritti", laddove l’interpretazione che
il Sapegno dà della "pietà" del Poeta nei confronti del
suo congiunto appare più complessa, sfumata e, in ultima
analisi, più persuasiva. Secondo il punto di vista del
Sapegno "la meditazione del messaggio cristiano e l’alto
senso della giustizia e della pace, maturato attraverso
le amare vicende dell’esilio e la susseguente
speculazione politica" avrebbero determinato in Dante,
nel periodo in cui scriveva la Commedia, "un
atteggiamento di distacco e di superiorità nei riguardi
di certe superstiti usanze barbariche dei suoi
contemporanei". In particolare. nell’episodio di Geri
del Bello, da nessuna delle parole del Poeta "traspare
il rimpianto di una vendetta mancata; sì, se mai, un
senso di alta e pur distaccata pietà, che comprende e
compatisce, ma non è mai ìndulgenza e tanto meno
rinunzia ad un ideale etico superiore". |
37 |
Così
parlammo infino al loco primo
che de lo scoglio l'altra valle mostra,
se più lume vi fosse, tutto ad imo. |
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37 |
Così discorremmo finché si
giunse in quella parte del ponte dalla quale per la
prima volta l’altra bolgia sarebbe visibile, se vi fosse
più luce, interamente, fino in fondo. |
40 |
Quando noi
fummo sor l'ultima chiostra
di Malebolge, sì che i suoi conversi
potean parere a la veduta nostra, |
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40 |
Allorché giungemmo sopra
l’ultima fossa circolare di Malebolge, così che i
dannati, che vi erano dentro potevano mostrarsi alla
nostra vista, |
43 |
lamenti
saettaron me diversi,
che di pietà ferrati avean li strali;
ond' io li orecchi con le man copersi. |
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43 |
mi colpirono terribili
lamenti, penetranti come frecce dalle punte armate di
dolore; per cui mi coprii le orecchie con le mani. |
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La decima bolgia è designata, al verso 40, col termine
chiostra (luogo chiuso nel quale sono a loro volta
chiuse le anime dei peccatori), parola usata nel
Medioevo anche per indicare il chiostro, il monastero.
L’ambiguità di questa parola legittima l’immagine dei
conversi: poiché la bolgia è un chiostro, i dannati in
essa contenuti si determinano sarcasticamente - ma è un
sarcasmo triste, severo, affatto alieno dalla leggiera
ironia che alcuni hanno preteso scorgervi - come frati
(i conversi sono i frati laici, non ordinati sacerdoti).
Prendendo lo spunto dall’analisi di due immagini
contenute nelle terzine 40 e 43 (quella del conversi e
quella dei lamenti... che di pietà ferrati avean li
strali, metafora quest’ultima giudicata da molti
barocca, priva di risonanze liriche, freddamente
concettuale, e dal Sapegno, con più precisa
determinazione storica, ricondotta nell’ambito del
linguaggio lirico medievale) il Gallardo osserva:
"L’immagine, ricercata, elaborata, è caratteristica di
questo canto, in cui lo stile raffinatissimo, non solo,
come già altrove, nell’uso di vocaboli dotti o plebei,
il cui accostamento rende prezioso l’insieme, ma anche
nel giro delle frasi, nella scelta delle immagini, che,
anche se ispirate alla vita comune, sono rappresentate
in modo da farne sottolineare il carattere raro e
inconsueto, crea una sorta di distacco tra il Poeta e il
mondo di mali fisici, di morbi ripugnanti e pietosi che
egli descrive da artista consapevole della propria
arte". |
46 |
Qual dolor
fora, se de li spedali
di Valdichiana tra 'l luglio e 'l settembre
e di Maremma e di Sardigna i mali |
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46 |
Quale sarebbe il dolore,
se le malattie degli ospedali della Valdichiana e della
Maremma e della Sardegna (tre zone particolarmente
paludose e malsane) che si manifestano tra luglio e
settembre, |
49 |
fossero in
una fossa tutti 'nsembre,
tal era quivi, e tal puzzo n'usciva
qual suol venir de le marcite membre. |
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49 |
fossero riunite insieme in
una fossa, tale era il dolore in questo luogo, e da esso
emanava un fetore simile a quello che suole diffondersi
dalle membra putrefatte. |
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Lo spettacolo dei dannati racchiusi nella decima bolgia
è veduto dapprima nel suo complesso: l’orrore che ne
deriva non trova riscontro nella realtà dei mali della
terra. Il Poeta ricorre perciò ad una similitudine
analoga a quella con cui si apre il canto XXVIII, nonché
a quella che, nel canto XXIV (versi 85-90), introduce
allo spettacolo delle trasformazioni dei ladrì. Si
tratta di similitudini ipotetiche (anche se, per quella
del canto XXIV, questa designazione non appare
convalidata dalla sua struttura sintattica), il cui
termine di raffronto risulta dalla presenza simultanea,
in un luogo relativamente ristretto, dì elementi reali
che nella nostra esperienza si mostrano ampìamente
dispersi nel tempo e nello spazio. Per quel che riguarda
in particolare il rapporto che lega la similitudine
ìniziale del canto dei seminatori di discordia a quella
che ha come suo termine di raffronto i morbi contenuti
negli ospedali della Valdichiana, della Maremma e della
Sardegna, chiarificatrici appaiono le seguenti
osservazioni del Grabher: "Dal carname dei corpi "
smozzicati " (verso 6), eccoci al carname de le marcite
membre, dal "modo sozzo" (XXVIII, 21) al puzzo. Di
tormento in tormento la persona umana è " torta ",
dilaniata, si disfà, marcisce; e Dante si tormenta anche
lui a cercare nel nostro mondo una realtà che si
avvìcini a quella paurosa realtà e ne dia una qualche
immagìne; come ha chiaramente mostrato all’inizio del
canto precedente, dove ha sentito l’insufficienza
dell’arte e dell’umano linguaggio e dove ha chiamato a
paragone tutta la gente straziata durante secoli di
guerre". |
52 |
Noi
discendemmo in su l'ultima riva
del lungo scoglio, pur da man sinistra;
e allor fu la mia vista più viva |
|
52 |
Noi scendemmo dal lungo
ponte (l’insieme degli archi di pietra che attraversano
Malebolge) sull’ultimo argine, sempre dalla parte
sinistra; e allora la mia vista divenne più chiara |
55 |
giù ver' lo
fondo, la 've la ministra
de l'alto Sire infallibil giustizia
punisce i falsador che qui registra. |
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55 |
giù verso il fondo, là
dove l’infallibile giustizia esecutrice dei voleri di
Dio punisce i falsari che segna sul suo libro mentre
sono ancora ìn vita (qui: sulla terra). |
58 |
Non credo
ch'a veder maggior tristizia
fosse in Egina il popol tutto infermo,
quando fu l'aere sì pien di malizia, |
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58 |
Non credo che fosse
maggiormente triste vedere in Egina tutto il popolo
malato, quando l’aria fu così piena di germi
pestilenziali, |
61 |
che li
animali, infino al picciol vermo,
cascaron tutti, e poi le genti antiche,
secondo che i poeti hanno per fermo, |
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61 |
che morirono tutti gli
esseri viventi, fino al piccolo verme, dopodiché gli
antichi abitanti, secondo quanto i poeti affermano come
cosa certa, |
64 |
si ristorar
di seme di formiche;
ch'era a veder per quella oscura valle
languir li spirti per diverse biche. |
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64 |
rinacquero dalla specie
delle formiche, di quanto fosse vedere in quella buia
valle soffrire le anime ammucchiate in cumuli orribili. |
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Secondo quanto narra Ovidio nelle Metamorfosi (VII,
versi 523-660), Giunone per vendicarsi della ninfa Egina
amata da Giove, inviò nell’isola in cui la ninfa
dimorava (e che da questa ninfa prese il nome) una
pestilenza alla quale il solo re Eaco sopravvisse.
Questi ottenne da Giove che le formiche da lui scorte
mentre si trovava sotto una quercia si trasformassero in
uomini. Dante condensa, in un breve giro di frasi, il
diffuso racconto ovidiano, non senza una punta di lieve
ironia verso l’illustre modello al quale si è ispirato
(verso 63). Come ha posto acutamente in rilievo il
Malagoli, sia lo spettacolo apparso agli occhi di Dante
dall’alto dell’ultimo argine di Malebolge sia
l’evocazione mitologica della peste di Egina "si
sviluppano dall’espressione a veder, che, posta
all’inizio (verso 58) e ripetuta alla fine (verso 65),
regge tutto il complesso periodo... E come nel primo
termine di paragone la visività risalta nell’immagine
del cascaron tutti, così nel secondo si concreta nella
rappresentazione degli spiriti languenti per diverse
biche". |
67 |
Qual sovra
'l ventre e qual sovra le spalle
l'un de l'altro giacea, e qual carpone
si trasmutava per lo tristo calle. |
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67 |
Alcuni giacevano sul
ventre, altri addossati gli uni alle spalle degli altri,
altri ancora si trascinavano carponi lungo il miserevole
cammino. |
70 |
Passo passo
andavam sanza sermone,
guardando e ascoltando li ammalati,
che non potean levar le lor persone. |
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70 |
Procedevamo lentamente
senza parlare, osservando e ascoltando i malati, che non
potevano alzarsi in piedi. |
73 |
Io vidi due
sedere a sé poggiati,
com' a scaldar si poggia tegghia a tegghia,
dal capo al piè di schianze macolati; |
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73 |
Io vidi due sedere
appoggiati l’uno all’altro, come si mette a scaldare
teglia contro teglia, macchiati di croste dalla testa ai
piedi; |
76 |
e non vidi
già mai menare stregghia
a ragazzo aspettato dal segnorso,
né a colui che mal volontier vegghia, |
|
76 |
e giammai vidi usare la
striglia da un garzone di stalla quando è atteso dal suo
padrone, né da colui che sta sveglio malvolentieri (e
quindi desidera terminare presto il suo lavoro), |
79 |
come ciascun
menava spesso il morso
de l'unghie sopra sé per la gran rabbia
del pizzicor, che non ha più soccorso; |
|
79 |
con la furia con la quale
ognuno di essi si grattava spesso con le unghie per il
gran tormento del prurito, che non trovava altro
sollievo; |
82 |
e sì traevan
giù l'unghie la scabbia,
come coltel di scardova le scaglie
o d'altro pesce che più larghe l'abbia. |
|
82 |
e le unghie staccavano le
croste, come il coltello raschia le squame della
scardova (pesce d’acqua dolce) o di altro pesce che le
abbia anche più grandi. |
85 |
«O tu che
con le dita ti dismaglie»,
cominciò 'l duca mio a l'un di loro,
«e che fai d'esse talvolta tanaglie, |
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85 |
"O tu che ti togli le
croste (come se fossero le maglie di un’armatura: ti
dismaglíe) con le unghie" cominciò a dire Virgilio a uno
di loro, "e che talvolta le usi come fossero tenaglie, |
88 |
dinne
s'alcun Latino è tra costoro
che son quinc' entro, se l'unghia ti basti
etternalmente a cotesto lavoro». |
|
88 |
dicci se tra quelli che
sono in questo luogo vi è qualche italiano; così possa
l’unghia durarti in eterno per il lavoro che compi." |
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Nell’ "insistente brulicare di immagini scelte con
bizzarra fantasia" che caratterizza la presentazione dei
due peccatori che siedono a sé poggiati V. Rossi ha
scorto un "atteggiamento scherzoso" del Poeta nei loro
confronti, il Sapegno uno stato d’animo "altrettanto
lontano dallo sdegno come dalla pietà", mentre il
Grablier ritiene piuttosto che "nella stessa struttura
fonica e ritmica del passo" si rifletta, "in un clima
di... allucinante disperazione", la gran rabbia del
pizzicor che tormenta i due dannati. Indipendentemente
comunque dalla particolare tonalità che ciascuna di
questi critici ha creduto di individuare in queste
terzine, occorre rilevare la funzione degradante, intesa
a costringere l’umano entro i termini della bruta
materia, che rivestono i paragoni della tegghia, della
stregghia, del coltel, nonché l’amaro sarcasmo che
caratterizza le parole dì Virgilio.
Il primo gruppo di falsador - questi risultano divisi in
quattro categorie: falsificatori di metalli o
alchimisti, di persone, di parole, di monete - che Dante
e Virgilio incontrano è quello dei falsificatorí di
metalli. Per essi, secondo il Chimenz, il contrappasso
"potrebbe consistere in ciò, che, come corruppero i
metalli, assoggettandoli, a scaglie a scaglie, ai
processi alchimistici, così ora hanno le membra corrotte
e si graffiano rabbiosamente le croste scabbiose; ma il
concetto fondamentale di corruzione sembra troppo
generico, essendo applicabile a molte altre specie di
peccatori; anzi, propriamente, ogni peccato è una
corruzione dell’intelletto. E’ probabile che questo
genere di pena fosse suggerito a Dante dall’opinione,
non infondata, che gli alchimisti, trattando acidi e
sostanze nocive, contraessero malattie di vario genere;
e, per analogia, assegnasse ad essi le malattie come
tormento eterno". |
91 |
«Latin siam
noi, che tu vedi sì guasti
qui ambedue», rispuose l'un piangendo;
«ma tu chi se' che di noi dimandasti?». |
|
91 |
"Noi, che tu qui vedi
ambedue così sfigurati, siamo italiani" rispose uno di
loro piangendo; "ma tu chi sei che hai chiesto di noi?" |
94 |
E 'l duca
disse: «I' son un che discendo
con questo vivo giù di balzo in balzo,
e di mostrar lo 'nferno a lui intendo». |
|
94 |
E Virgilio disse: "Sono
uno che scende giù di cerchio in cerchio con questo
essere vivente, e voglio mostrargli l’inferno". |
97 |
Allor si
ruppe lo comun rincalzo;
e tremando ciascuno a me si volse
con altri che l'udiron di rimbalzo. |
|
97 |
Allora si
staccarono l’uno dall’altro (si ruppe lo comun rincalzo:
si ruppe il reciproco appoggio); e ciascuno tremando si
rivolse a me con altri che avevano ascoltato
indirettamente. |
|
Dopo le crude immagini dei versi precedenti, un gerundio
- tremando - riconduce i dannati di questa bolgia entro
una dimensione umana, ci fa sentire in loro, al di là
dei peccatori, dei nostri simili. Le metafore fin qui
usate dal Poeta avevano accentuato l’immobilità di
questi dannati - quasi fossero cose inanimate:
ricordiamo le biche, i covoni di anime del verso 66 - o
una loro mobilità frenetica, che nulla più aveva di
umano (versi 76-84). Qui come altrove, in presenza di
Dante - il vivo che nella immobilità dell’eterno
riconduce il tremore del tempo, il brivido, se non della
speranza, dei rimpianto, degli affetti perduti - la
morta gente risuscita per un attimo alla vita. Nel verso
98 "la meraviglia si risolve tutta in un tremare. Sulla
cruda materialità della scena spicca più netta la
vibrazione della vita morale: più netta e più cupa".(Malagoli) |
100 |
Lo buon
maestro a me tutto s'accolse,
dicendo: «Dì a lor ciò che tu vuoli»;
e io incominciai, poscia ch'ei volse: |
|
100 |
Il buon
Virgilio si accostò con tutta la persona a me, dicendo:
"Chiedi loro ciò che vuoi"; e io cominciai, dal momento
che egli lo volle: |
103 |
«Se la
vostra memoria non s'imboli
nel primo mondo da l'umane menti,
ma s'ella viva sotto molti soli, |
|
103 |
"Possa il ricordo di voi
non dileguarsi in terra dalla memoria degli uomini, ma
possa vivere per molti anni, |
106 |
ditemi chi
voi siete e di che genti;
la vostra sconcia e fastidiosa pena
di palesarvi a me non vi spaventi». |
|
106 |
ditemi chi siete e di
quali città: la vostra ripugnante e dolorosa pena non vi
impedisca, per la paura, di rivelarmi i vostri nomi". |
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Nel rivolgersi ai due falsari Dante si dimostra più
cortese e pietoso di Virgilio: li tratta come uomini,
riesce a scorgere in loro la nostalgia per il mondo dei
vivi (il primo mondo, quel mondo che nessuno dei
dannati, per quanto oppresso dalle pene più atroci,
riesce a dimenticare) e il desiderio di sopravvivere nel
ricordo di questi. Il solo dolore che Virgilio aveva
invece veduto in essi era stato il pizzicor, che non ha
più soccorso, il solo desiderio attribuito loro dal
poeta latìno era stato quello di poter etternalmente
proseguire a lacerarsi con le unghie. |
109 |
«Io fui
d'Arezzo, e Albero da Siena»,
rispuose l'un, «mi fé mettere al foco;
ma quel per ch'io mori' qui non mi mena. |
|
109 |
"Io nacqui ad Arezzo, e
Albero da Siena" rispose uno "mi fece mandare al rogo;
ma la colpa per la quale io morii non è quella che mi
conduce in questa bolgia. |
112 |
Vero è ch'i'
dissi lui, parlando a gioco:
"I' mi saprei levar per l'aere a volo";
e quei, ch'avea vaghezza e senno poco, |
|
112 |
E’ vero che gli dissi,
scherzando: "Io saprei alzarmi in volo per l’aria"; e
quello, che era curioso e stolto, |
115 |
volle ch'i'
li mostrassi l'arte; e solo
perch' io nol feci Dedalo, mi fece
ardere a tal che l'avea per figliuolo. |
|
115 |
volle che gliene
insegnassi la maniera; e solo perché non fecì di lui un
Dedalo (il mitico costruttore del Labirinto, che
attraversò a volo il Mediterraneo, da Creta alla
Sicilia; cfr. canto XVII, versi 109-111), mi fece
bruciare da un tale che lo teneva in conto di figlio (il
vescovo di Siena). |
118 |
Ma ne
l'ultima bolgia de le diece
me per l'alchìmia che nel mondo usai
dannò Minòs, a cui fallar non lece». |
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118 |
Ma nell’ultima delle dieci
bolge, per la sofisticazione dei metalli (alchimia) che
praticai in terra, mi condannò Minosse, a cui non è
possibile sbaglìare." |
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Il personaggio che qui parla è Griffolino d’Arezzo,
definito da un antico commentatore, il Bambaglioli,
"grande e sottilissimo alchimista". Egli fu arso vivo
sul rogo come eretico, ma il motivo reale della sua
condanna, avvenuta prima del 1272, fu, come egli stesso
racconta, il fatto che non riuscì a trasformare in un
nuovo Dedalo uno sciocco e presuntuoso senese.
Quest’ultimo, di nome Albero, godendo dell’appoggio del
vescovo di Siena, del quale forse era figlio, lo fece
processare e mandare al rogo come eretico. "Si noti -
osserva il Grabher - il tono canzonatorio di quel mi
saprei levar... che non dà nulla per certo, ma che
Albero intende come cosa serissima." Quanto
all’espressione perch’io nol feci Dedalo, ricca di
maliziosi sottintesi, essa "motteggia coll’arguzia del
doppio senso la scempiaggine di quel vanesio, ch’avea
vaghezza e senno poco, mentre poi l’infallibile
giustizia di Minosse, celebrata nel verso con cui
Griffolino suggella solennemente il suo piano e brioso
racconto (verso 120), si contrappone... alla giustizia
di chi, vescovo o inquisitore dell’eretica pravità,
aveva imbastito un’accusa di eresia o di negromanzia per
consumare una stolta vendetta personale" (RossiFrascino).
Il contrasto tra la giustizia umana, di sua natura
imperfetta, e quella divina, immune da errori, è messo
in forte rilievo dall’asciutto, scandito contrapporsi
l’uno all’altro dei due emistichi del verso 111. |
121 |
E io dissi
al poeta: «Or fu già mai
gente sì vana come la sanese?
Certo non la francesca sì d'assai!». |
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121 |
E dissi a Virgilio: "Vi fu
mai gente così fatua come la senese? Di certo non lo è
tanto nemmeno quella francese!" |
124 |
Onde l'altro
lebbroso, che m'intese,
rispuose al detto mio: «Tra'mene Stricca
che seppe far le temperate spese, |
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124 |
Allora l’altro lebbroso,
che mi udì, rispose alle mie parole: "Escludi Stricca
che seppe spendere con moderazione, |
127 |
e Niccolò
che la costuma ricca
del garofano prima discoverse
ne l'orto dove tal seme s'appicca; |
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127 |
e Niccolò che per primo
introdusse la costosa usanza del garofano nel giardino,
dove tale seme attecchisce (cioè in Siena); |
130 |
e tra'ne la
brigata in che disperse
Caccia d'Ascian la vigna e la gran fonda,
e l'Abbagliato suo senno proferse. |
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130 |
ed escludi la brigata
facendo parte della quale Caccia d’Asciano dilapidò i
vigneti e i grandi boschi, e l’Abbagliato dimostrò il
suo senno. |
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I Senesi menzionati da Capocchio sono Stricca dei
Salimbeni (o secondo altri dei Tolomei), Niccolò dei
Salimbeni (o dei Bonsignori), il cui vanto maggiore
sarebbe, secondo l’insinuazione del dannato, quello di
avere diffuso a Siena l’usanza dì rendere i cibi più
saporiti con i chiodi di garofano, Caccia di Asciano
degli Scialenghi, che dissipò le sue ricchezze,
consistenti in beni fondiari (la vigna e la gran
fronda), per alimentare la sua smodata e vanitosa
prodigalità, e Bartolomeo dei Folcacchieri,
soprannominato l’Abbagliato, appartenenti tutti alla
brigata "spendereccia" o "godereccia", costituitasi a
Siena nella seconda metà del Duecento. |
133 |
Ma perché
sappi chi sì ti seconda
contra i Sanesi, aguzza ver' me l'occhio,
sì che la faccia mia ben ti risponda: |
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133 |
Ma affinché tu sappia chi
è a tal punto d’accordo con te contro i Senesi, aguzza
la vista verso di me, in modo che il mio viso ti si
mostri chiaramente: |
136 |
sì vedrai
ch'io son l'ombra di Capocchio,
che falsai li metalli con l'alchìmia;
e te dee ricordar, se ben t'adocchio, |
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136 |
così t’accorgerai che io
sono l’anima di Capocchio, che per mezzo dell’alchimia
falsificai i metalli: e ti devi ricordare, se ti
riconosco bene, |
139 |
com' io fui
di natura buona scimia». |
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139 |
come io fui esperto
imitatore della natura". |
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Di Capocchio, probabilmente fiorentino. l’Ottimo scrive
che fu "sotttilissimo alchimista, e perocché operando in
Siena questa alchimia fu arso, si mostra suo odio contro
i Senesi" e l’Anonimo Fìorentìno che "seppe contraffare
ogni uomo che volea, e ogni cosa, tanto che egli parea
propriamente la cosa o l’uomo ch’egli contraffacea in
ciascun atto".
"Capocchio è - come ha ben visto il Gallardo - uno di
quegli spiriti ricchi di ingegno e di umore bizzarro,
incostante, ironico nella polemica e ironico verso se
stesso (e basti quel buona scimia con cui si conclude il
suo discorso) a Dante non discari. E tutto umoroso,
vario ed ironico è il suo discorso, ingegnoso nel giro
della frase, senza parere ricercato nelle parole. capace
di dar risalto ai particolari sìgnificativi: le
temperate spese; la costuma ricca; la vigna e la gran
fronda; ecc.". |
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