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DIVINA
COMMEDIA: PARAFRASI
INFERNO
CANTO XXX° |
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1 |
Nel tempo
che Iunone era crucciata
per Semelè contra 'l sangue tebano,
come mostrò una e altra fïata, |
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1 |
Nel tempo in cui Giunone era adirata a causa di Semele
contro la stirpe tebana, come dimostrò più volte, |
4 |
Atamante
divenne tanto insano,
che veggendo la moglie con due figli
andar carcata da ciascuna mano, |
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4 |
Atamante impazzì a tal
punto che, vedendo la moglie camminare con i due figli
in braccio, |
7 |
gridò: «Tendiam
le reti, sì ch'io pigli
la leonessa e ' leoncini al varco»;
e poi distese i dispietati artigli, |
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7 |
gridò. "Tendiamo le reti,
così ch’io possa catturare mentre passa la leonessa e i
suoi leoncini"; poi protese i crudeli artigli, |
10 |
prendendo
l'un ch'avea nome Learco,
e rotollo e percosselo ad un sasso;
e quella s'annegò con l'altro carco. |
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10 |
afferrando il figlio che
si chiamava Learco, e lo roteò per l’aria e lo scagliò
con forza contro una roccia;. e la madre si gettò in
mare, annegando con l’altro figlio che portava in
braccio. |
13 |
E quando la
fortuna volse in basso
l'altezza de' Troian che tutto ardiva,
sì che 'nsieme col regno il re fu casso, |
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13 |
E quando la fortuna abbatté la superbia dei Troiani che
osava ogni cosa, di modo che il re (Priamo) fu distrutto
col suo regno, |
16 |
Ecuba
trista, misera e cattiva,
poscia che vide Polissena morta,
e del suo Polidoro in su la riva |
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16 |
Ecuba addolorata, infelice
e prigioniera, dopo che vide Polissena morta, e del
corpo del suo Polidoro sulla riva |
19 |
del mar si
fu la dolorosa accorta,
forsennata latrò sì come cane;
tanto il dolor le fé la mente torta. |
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19 |
del mare (in
Tracia, dove Polidoro era stato ucciso dal re
Polinestore) piena di angoscia si accorse, fuor di senno
latrò come un cane; a tal punto il dolore le sconvolse
la mente. |
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Il canto inizia con due esempi attinti al repertorio
classico (Ovidio - Metamorfosi IV, versi 416-562; XIII,
versi 399-575): quello della follia dì Atamante, re di
Orcomeno, e quello della follia di Ecuba, moglie di
Priamo. Atamante è oggetto della vendetta di Giunone:
sua unica colpa è quella di far parte del sangue tebano;
egli sconta con la sua pazzia e fa pagare con la morte
ai suoi (la moglie Ino e i figli Learco e Melicerta) un
male la cui radice non è né in lui né in alcuno dei suoi
antenati, ma nel supremo ordinatore dell’universo: Giove
infatti si era congiunto con Semele, figlia del re
tebano Cadmo. Di qui l’odio di Giunone contro i Tebani,
odio che la dea ebbe modo di manifestare più volte.
Dante coglie quanto di tragico e di disumano
caratterizza la concezione che ebbero gli antichi della
divinità, nemica dell’uomo, meschina, vendicativa -
l’invidia degli dei è un motivo che ricorre in tutta la
letteratura greca, da Omero ai tragici - mostrandoci in
un primo tempo Atamante trionfalmente, gioioso (la sua
esultanza è in quel gridò, posto in principio di verso e
sul quale poggia l’ampia architettura delle due terzine
precedenti) alla vista della leonessa e dei due leoncini
(tale .aspetto assumono ai suoi occhi Ino e i figli), in
un secondo tempo la sua trasformazione da uomo in belva
(e poi distese i dispíetati artigli: è lui che il Poeta
dota di attributi ferini, non le sue vittime; solo agli
occhi di chi la divinità ha sviato dalla ragione queste
possono mostrarsi nell’aspetto di belve), in furia
dissennata (e rotollo e percosselo ad un sasso), Nella
follia di Ecuba, moglie di Priamo, re di Troia,
l’intervento della divinità è meno circostanziato. si
manifesta indirettamente, come volontà impenetrabile (la
fortuna), non è riconducibile a motivi che l’uomo può
determinare e sottoporre a giudizio (la gelos ia di
Giunone nell’esempio precedente appariva invece come la
proiezione nell’assoluto - in una malvagità senza limiti
- di un modo di sentire e di atteggiarsi consueto e
borghese). Colei che volve sua spera (canto VII, verso
96) e permuta, altre la difension di senni umani (canto
VII, verso 81), i beni del mondo, volgendo in basso
l’altezza de’ Troian, superba potenza che aveva perduto
il senso delle umane proporzioni (che tutto ardiva:
questo ardimento, proprio a causa del suo oggetto -
tutto - si converte in negazione e rovina), restituisce
Ecuba alla condizione dei dolore (verso 16), per poi
condurla, alla vista dei suoi due figli uccisi, al di là
di ogni sofferenza umana, là dove la parola si converte
in latrato. |
22 |
Ma né di
Tebe furie né troiane
si vider mäi in alcun tanto crude,
non punger bestie, nonché membra umane, |
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22 |
Ma non si videro mai furie tebane o troiane slanciarsi
con tanta crudeltà contro qualcuno, né colpire animali,
né tanto meno esseri umani. |
25 |
quant' io
vidi in due ombre smorte e nude,
che mordendo correvan di quel modo
che 'l porco quando del porcil si schiude. |
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25 |
come io vidi slanciarsi due anime pallide e nude, che,
dando morsi, correvano come fa il maiale quando esce
fuori dal porcile, |
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Gli esempi mitologici di Atamante ed Ecuba, trattati
nello stile " alto ", proprio di quei componimenti che
per Dante rientravano nel genere " tragico ",
introducono ad una realtà plebea e spregevole, espressa
in sintesi, con inusitato vigore, nel verso 27. I
critici hanno variamente tentato di giustificare o
almeno di attenuare, ove ai loro occhi appariva
ingiustificabile. lo scarto tonale fra le sette terzine
dell’esordio nelle quali il tema della follia umana si
proietta, filtrato attraverso la lettura dei classici,
in un tempo tanto remoto da apparire fermo, irreale (nel
tempo che Iunone: il tempo delle leggende) e la
rappresentazione. d’una brutale evidenza realistica e
svolta nelle forme dello stile " comico ", dello
spettacolo che si offre a Dante coll’irrompere, nella
putrida calma della decima bolgia, dei due dannati che
falsificarono se stessi nelle forme altrui (cfr. verso
41). Per il Sanguineti tuttavia questo scarto tonale non
deve essere né giustificato, né attenuato, ma "accolto e
conservato nel discorso esegetico: la frattura che
separa le figure di Atamante e di Ecuba dalle due ombre
smorte e nude deve essere percepita come uno scatto
indispensabile all’articolazione del racconto, in tutta
la sua drammatica intensità". Per il Bigí invece non
esiste una reale frattura fra le sette terzine iniziali
e le due seguenti. "Come il fastoso apparato erudito e
retorico delle comparazioni mitiche accoglie in sé
espressioni plasticamente energiche... così nella
realistica descrizione delle due ombre smorte e nude si
insinuano raffinati moduli retorici, qual sono non
soltanto i parallelismi,dei versi 22 e 24... ma anche
l’allitterazione (smorte... mordendo... modo) e l’annominatio
(porco... porcil), che adornano e riscattano proprio il
bestiale paragone." Giustamente questo critico osserva
che, nel modo in cui sono presentati dal Poeta, i due e
sempi mitologici dell’esordio "non rimangono generici
ornamenti culturali, ma assumono il compito di creare
alla bestiale pena dei falsificatori di persona una
solenne cornice letteraria, che metta potentemente in
rilievo la tragica serietà di quella pena e renda anzi
esplicita in essa la presenza del giudizio divino". |
28 |
L'una giunse
a Capocchio, e in sul nodo
del collo l'assannò, sì che, tirando,
grattar li fece il ventre al fondo sodo. |
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28 |
L’una raggiunse Capocchio,
e l’azzannò alla nuca, così che, trascinandolo per
terra, gli fece grattare il ventre sul duro terreno. |
31 |
E l'Aretin
che rimase, tremando
mi disse: «Quel folletto è Gianni Schicchi,
e va rabbioso altrui così conciando». |
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31 |
E l’Aretino, che restò lì,
tremante di paura, mi disse. "Quello spiritello è Gianni
Schicchi, e va rabbiosamente riducendo in questo stato
gli altri". |
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Gianni Schicchi dei Cavalcanti, morto prima del 1280, fu
protagonista di una beffa rimasta celebre in Firenze:
fingendosi Buoso Donati (un omonímo del Buoso Donati che
appare nel canto XXV, verso 140), dettò testamento In
proprio favore, attribuendosi, fra gli altri beni, la
più pregevole delle cavalle di Buoso. |
34 |
«Oh», diss'
io lui, «se l'altro non ti ficchi
li denti a dosso, non ti sia fatica
a dir chi è, pria che di qui si spicchi». |
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34 |
"Oh!" gli dissi,
"augurandoti che quell’altro spiritello non ti addenti,
non ti dispiaccia dirmi chi esso sia prima che si
allontani di qui" |
37 |
Ed elli a
me: «Quell' è l'anima antica
di Mirra scellerata, che divenne
al padre, fuor del dritto amore, amica. |
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37 |
Mi rispose: "Quello è
l’antico spirito della sciagurata Mirra, che diventò
contro ogni lecito amore la amante del padre. |
40 |
Questa a
peccar con esso così venne,
falsificando sé in altrui forma,
come l'altro che là sen va, sostenne, |
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40 |
Costei giunse a peccare
con quello, mutando le proprie sembianze in quelle di
un’altra, così come Gianni Schicchi che là cammina, osò, |
43 |
per
guadagnar la donna de la torma,
falsificare in sé Buoso Donati,
testando e dando al testamento norma». |
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43 |
per prendersi la cavalla
migliore della mandria, fingersi Buoso Donati, facendo
testamento e dando a questo testamento valore, legale". |
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Al personaggio della cronaca dei suoi tempi Dante
accoppia qui, come altrove (cfr. ad esempio il canto
XVIII e, in questo stesso canto, la presentazione
parallela di maestro Adamo e Sinone) un personaggio
dell’antichità classica, derivato da una tradizione
poetica illustre. Questi paragoni tra figure
appartenenti ad ambiti storici diversissimi sono tipici,
per quanto non esclusivi, della cultura medievale. Nella
Commedia essi sanzionano l’equiparazione, davanti al
tribunale dì Dio, ove i soli valori etici si palesano
reali, del grande ingegno (il personaggio mitologico o
storico, nobilitato,’ dall’ornato eloquio degli antichi)
al meschino protagonista di vicende municipali, indegne
di assurgere a dignità di storia e di leggenda.
Mirra fu figlia del re di Cipro Cinira, al:quale
illecitamente si congiunse (Ovidio - Metamorfosi X.
298-518) facendosi passare per un’altra donna: per tale
falso di persona si trova nella decima bolgia del
cerchio dei fraudolenti e non nel prìmo cerchio degli
incontinenti, quello dei lussuriosi. La sua
presentazione è fatta nei modi dello stile " tragico ",
ma non meno significativi sotto questo punto di vista,
appaiono - come ha messo in rilievo il Bigi - i versi
dedicati a Gianni Schicchi. In essi il Poeta, evitando
di "insistere sugli aspetti comici dell’episodio...
sembra voler di proposito rialzare il tono del suo
sobrio accenno con una serie di artifici addensati in
breve spazio: il parallelismo variato con cui riprende
la frase, già usata per Mirra (falsificando sé in altrui
forma... falsificare in sé Buoso Donati); il latinismo
sostenne in rima; la perifrasi la donna de la torma, per
designare la cavalla ambita dal falso testatore; la
nuova annominatio, che conclude il discorso, testando e
dando al testamento norma". |
46 |
E poi che i
due rabbiosi fuor passati
sovra cu' io avea l'occhio tenuto,
rivolsilo a guardar li altri mal nati. |
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46 |
E dopo che i due furenti
sui quali avevo soffermato lo sguardo, passarono oltre,
rivolsi l’attenzione agli altri sventurati. |
49 |
Io vidi un,
fatto a guisa di lëuto,
pur ch'elli avesse avuta l'anguinaia
tronca da l'altro che l'uomo ha forcuto. |
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49 |
Ne vidi uno, simile a un
liuto, se soltanto avesse avuto l’inguine separato dalle
gambe. |
52 |
La grave
idropesì, che sì dispaia
le membra con l'omor che mal converte,
che 'l viso non risponde a la ventraia, |
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52 |
La pesante idropisia, la
quale deforma a tal punto le membra a causa degli umori
naturali che non riesce ad assimilare, che la faccia non
é proporzionata al ventre, |
55 |
faceva lui
tener le labbra aperte
come l'etico fa, che per la sete
l'un verso 'l mento e l'altro in sù rinverte. |
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55 |
gli faceva tenere le
labbra aperte come fa il tisico, che per la sete rivolta
un labbro verso il mento e l’altro verso l’alto. |
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Diversamente da Gianni Schicchi e da Mirra, personaggi
tipici, esempi di peccatori la cui funzione poetica si
esaurisce nel proporre al pellegrino le con sequenze dei
propri peccati, maestro Adamo, iI protagonista
dell’episodio che ha una vita interiore ricchissima e
complessa. Prima però di Indurlo a parlare - e nelle sue
parole il. trapasso dal patetico al crudele, dalla
finezza del sentire al contendere, grossolano e spietato
riveleranno un’estrema mobilità di stati d’animo - il
Poeta ce lo presenta nel suo grottesco, inverosimile
aspetto esteriore, nell’immobilità che appare come la
premessa necessaria della sua degradazione ad oggetto.
Ciò che attira l’attenzione di Dante non è infatti in
primo luogo la componente umana del peccatore che gli
sta di fronte (questa non potrebbe trovare espressione
più impersonale: io vidi un...; qui il pronome in prima
persona esprime, la vita, mentre l’’indefinito
preannuncia già la perdita qualsiasi individualità), ma
il rapporto che si può istituire tra una parte del corpo
di questo dannato ed un oggetto convesso. Il leuto
d’altro canto, se ha nel ventre di maestro Adamo un
perfetto riscontro per quel che riguarda la sua
definizione geometrica, si lega, per associazione
d’immagini, ad un mondo gioioso e spensierato (il mondo
delle gaie brigate, dei balli dei canti) il quale,
contrastando in maniera stridente con la cupa atmosfera
infernale, rende più sinistra e, feroce la minuziosa
indagine del Poeta. L’immagine del leuto si dimostra
tuttavia adeguata soltanto entro i limiti di una prima
approssimazione. Ecco quindi che si fa scrupolo di
rettificarla attraverso una proposizione ipotetica,
nella quale compare, forma di perifrasi (l’altro che
l’uomo ha forcuto), qualcosa (l’altro) che potrebbe
infirmarne la validità. Dante analizza, esita: ha dì
fronte a sé un oggetto strano, mai visto prima, non
suscettibile, di class ificazione. Indubbiamente è
ancora un oggetto, ma qualcosa in esso fa pensare
all’uomo. Poi, d’un tratto s’accorge che questo
strumento musicale, la curva perfetta di questo leuto,
alberga in sé un principio di vita. La cosa inanimata
dei verso 49 (un) diventa per questa persona ancora,
finzione, apparenza; il Poeta è ancora in diritto di
dubitare: colui che 9li sta di fronte si trova
nell’atteggiamento di un vivo, ma in questo
atteggiamento appare come immobilizzato. Occorre
aggiungere che, se la conversione dell’un del verso 49
nel lui del verso 55 esprime un progressivo
avvicinamento all’umano dell’essere che in un primo
tempo si era proposto all’attenzione del Poeta come,
pura geometria, il lui sintatticamente è subordinato in
quanto complemento oggetto, all’astrazione del termine
tecnico (la grave idropesi) che ne definisce, entro
limiti precisi e ristretti, le possibilità di vita. |
58 |
«O voi che
sanz' alcuna pena siete,
e non so io perché, nel mondo gramo»,
diss' elli a noi, «guardate e attendete |
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58 |
"O voi che vi trovate nel
mondo del dolore senza alcuna pena, e non ne conosco la
ragione", ci disse quello, "osservate e fate attenzione |
61 |
a la miseria
del maestro Adamo;
io ebbi, vivo, assai di quel ch'i' volli,
e ora, lasso!, un gocciol d'acqua bramo. |
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61 |
all’infelicità del maestro
Adamo: io ebbi, da vivo, tutto ciò che desiderai, e ora
misero me! ardentemente desidero una sola goccia di
acqua. |
64 |
Li
ruscelletti che d'i verdi colli
del Casentin discendon giuso in Arno,
faccendo i lor canali freddi e molli, |
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64 |
i piccoli ruscelli che dai
verdi colli del Casentino scendono giù nell’Arno,
rendendo freschi e umidi i loro alvei, |
67 |
sempre mi
stanno innanzi, e non indarno,
ché l'imagine lor vie più m'asciuga
che 'l male ond' io nel volto mi discarno. |
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67 |
mi sono sempre davanti
agli occhi, e non invano, poiché il ricordo che ho di
essi m’inaridisce ben più che il male a causa del quale
mi assottiglio nel volto. |
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Maestro (cioè "dottore", uomo provvisto di studi) Adamo
da Brescia, o. secondo altri, da Brest, allora sotto
dominio inglese (in documenti dell’epoca questo
personaggio è menzionato come Anglicus o de Anglia), fu
ospite nel Casentino dei conti Guidi dì Romena e,
secondo l’Anonimo Fiorentino, fu da essi incaricato di
battere fiorini con il conio di Firenze. Questi
risultarono "buoni di peso ma non di lega, però ch’egli
erano di XXI carati dove elli debbono essere dí XXIII;
sì che tre carati v’avea dentro di rame o d’altro
metallo [il carato è la . ventiquattresima parte di
un’oncia] ... Di questi fiorini se ne spesono assai: ora
nel fine, venendo un dì il maestro Adamo a Firenze,
spendendo di questi fiorini, furono conosciuti essere
falsati: fu preso e ivi fu arso"; questo avvenne, nel
1281.
Maestro Adamo è uno dei personaggi più vivi e
interessanti dell’Inferno. In lui il Poeta ha inteso
rappresentare, ma con più insistito rilievo, una
situazione che è un pò comune a tutti i dannati ma con
più insistito rilievo, "una situazione che è comune un
po’ a tutti i dannati: il tentativo drammatico di
emergere, distinguendosene.con tutta la forza disperata
dell’intelligenza e della passione, dalla eterna infamia
della condizione infernale, tentativo che alla fine non
può non chiarirsi vano, poiché quella intelligenza e
quella passione sono irrimediabilmente contaminate
dall’impiego colpevole a cui sono state rivolte" (Bigi).
Tra le più felici è l’analisi che delle parole da
maestro Adamo rivolte a Dante e Virgilio fa il Grabber:
"L’uomo-liuto giace lì Inerte, stremato, quasi senza più
vita; ma, da quel misero e grottesco ammasso di materia;
balza improvvisamente una foga di passioni che riempie
di sé tutta la scena". La presenza dei due pellegrini,
immuni da pena, nel mondo. dell’eterno dolore, non
attira in. modo particolare l’attenzione di questo
dannato, ma gli serve unicamente per mettere in maggior
rilievo la propria infelice condizione; "ad essa chiede
di volgere lo sguardo...
E quella miseria sì erge con fiera antitesi di fronte "
al tempo felice " . Nella brama dell’arsura, . smisurato
grandeggia quel niente, quel gocciol d’acqua. E il mondo
è rivisto con l’occhio dell’assetato, per cui anche la
bellezza d’un paesaggio risorge rorida d’immagini
suggerite da tanta arsura". |
70 |
La rigida
giustizia che mi fruga
tragge cagion del loco ov' io peccai
a metter più li miei sospiri in fuga. |
|
70 |
L’inflessibile, giustizia
che mi tormenta trae motivo dal luogo dove io peccai per
farmi emettere più frequenti sospiri. |
73 |
Ivi è
Romena, là dov' io falsai
la lega suggellata del Batista;
per ch'io il corpo sù arso lasciai. |
|
73 |
Lì si trova Romena, dove
falsificai la moneta che porta impressa l’immagine di
San Giovanni Battista (il fiorino di Firenze); per
questo abbandonai sulla terra il mio corpo bruciato. |
76 |
Ma s'io
vedessi qui l'anima trista
di Guido o d'Alessandro o di lor frate,
per Fonte Branda non darei la vista. |
|
76 |
Ma se mi fosse concesso di
vedere qui l’anima malvagia di Guido (Guido Il dei conti
Guidi) o di Alessandro o dei loro fratello (Aghinolfo o
Ildebrandino), non cambierei tale vista con (tutta
l’acqua di) fonte Branda (la celebre fontana senese o,
secondo alcuni, una fonte nei pressi di Romena). |
79 |
Dentro c'è
l'una già, se l'arrabbiate
ombre che vanno intorno dicon vero;
ma che mi val, c'ho le membra legate? |
|
79 |
In questa bolgia si trova
già una (di queste anime), se gli spiriti rabbiosi che
s’aggirano qui intorno dicono la verità; ma a che mi
giova, dal momento che non posso muovermi? |
82 |
S'io fossi
pur di tanto ancor leggero
ch'i' potessi in cent' anni andare un'oncia,
io sarei messo già per lo sentiero, |
|
82 |
Se io fossi ancora agile
soltanto quanto basta per percorrere un’oncia (circa due
centimetri e mezzo) in cent’anni, mi sarei messo gia in
cammino, |
85 |
cercando lui
tra questa gente sconcia,
con tutto ch'ella volge undici miglia,
e men d'un mezzo di traverso non ci ha. |
|
85 |
cercandolo in questa
moltitudine deforme, nonostante che la bolgia abbia una
circonferenza di undici miglia, e non sia larga meno di
mezzo miglio. |
88 |
Io son per
lor tra sì fatta famiglia;
e' m'indussero a batter li fiorini
ch'avevan tre carati di mondiglia». |
|
88 |
Per causa loro mi trovo in
tale compagnia: essi mi costrinsero a coniare i fiorini
che avevano tre carati di metallo vile." |
91 |
E io a lui:
«Chi son li due tapini
che fumman come man bagnate 'l verno,
giacendo stretti a' tuoi destri confini?». |
|
91 |
E io a lui: "Chi sono i
due infelici che fumano come d’inverno una mano bagnata,
giacendo accostati l’uno all’altro alla tua destra?" |
|
Scarsa appare la partecipazione del Poeta al dolore dei
due dannati che si trovano alla destra di maestro Adamo:
il termine tapini appare qui generico convenzionale,
soverchiato dalla cruda evidenza del paragone che ne
degrada il soffrire al livello di un fenomeno naturale.
Dal canto suo il termine confini riporta la figura di
maestro Adamo alla primitiva condizione del suo
manifestarsi: egli appare nuovamente, agli occhi di
Dante, come una forma geometrica priva di anima. |
94 |
«Qui li
trovai - e poi volta non dierno - »,
rispuose, «quando piovvi in questo greppo,
e non credo che dieno in sempiterno. |
|
94 |
"Li trovai qui" rispose,
"quando caddi in questo precipizio, e da allora non si
sono più mossi, né credo che si muoveranno mai più. |
97 |
L'una è la
falsa ch'accusò Gioseppo;
l'altr' è 'l falso Sinon greco di Troia:
per febbre aguta gittan tanto leppo». |
|
97 |
Una di quelle
anime è la bugiarda che accusò Giuseppe; l’altra è il
menzognero Sinone, il greco che ingannò i Troiani:
emanano tanto puzzo di untume bruciato a causa della
febbre ardente." |
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Secondo quanto narra il libro della Genesi (XXXIX,
7-23), la moglie dell’egiziano Putifar, non essendo
riuscita a piegare alle sue voglie Giuseppe, figlio di
Giacobbe, lo accusò di aver tentato di sedurla. Sinone è
il greco che persuase con l’inganno i Troiani a far
entrare nella loro città il cavallo di legno escogitato
da Ulisse,(cfr. canto XXVI, versi 59-60) : con questo
stratagemma l’esercito acheo s’impadronì di Troia e la
rase al suolo (Eneide Il, versi 13-558).
Come ha notato il Bigi, maestro Adamo manifesta, il suo
disgusto per questi compagni di pena "con un tono di
complice e trionfante malignità". ma proprio attraverso
la sua spietata denuncia nella quale sembra doversi
vittoriosamente concludere il suo tentativo di emergere
dalla degradante condizione di dannato egli comincia a
rilevare la propria profonda, irriducibile abiezione
morale. |
100 |
E l'un di
lor, che si recò a noia
forse d'esser nomato sì oscuro,
col pugno li percosse l'epa croia. |
|
100 |
E uno di
loro, che s’ebbe a male forse d’essere menzionato con
tanto disonore, gli colpì col pugno il teso ventre. |
103 |
Quella sonò
come fosse un tamburo;
e mastro Adamo li percosse il volto
col braccio suo, che non parve men duro, |
|
103 |
Quello risuonò come fosse
stato un tamburo; e maestro Adamo gli colpì la faccia
col suo braccio, che non sembrò meno duro (del pugno di
Sinone), |
106 |
dicendo a
lui: «Ancor che mi sia tolto
lo muover per le membra che son gravi,
ho io il braccio a tal mestiere sciolto». |
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106 |
dicendogli: "Anche se non
posso muovermi a causa delle membra che sono pesanti, ho
il braccio agile per colpire". |
109 |
Ond' ei
rispuose: «Quando tu andavi
al fuoco, non l'avei tu così presto;
ma sì e più l'avei quando coniavi». |
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109 |
Allora l’altro rispose:
"Quando tu andavi al rogo, non l’avevi tanto pronto
(cioè: eri legato): ma così pronto e anche di più
l’avevi quando coniavi le monete false". |
112 |
E
l'idropico: «Tu di' ver di questo:
ma tu non fosti sì ver testimonio
là 've del ver fosti a Troia richesto». |
|
112 |
E l’idropico: "In ciò tu
dici il vero; ma non fosti altrettanto verace testimonio
quando a Troia ti chiesero la verità (a proposito del
cavallo di legno)". |
115 |
«S'io dissi
falso, e tu falsasti il conio»,
disse Sinon; «e son qui per un fallo,
e tu per più ch'alcun altro demonio!». |
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115 |
"Se io dissi il falso,
ebbene tu hai falsificato il denaro" disse Sinone; "e se
io sono qui per una sola colpa, tu, invece (ti trovi
qui) per aver commesso più colpe (ogni fiorino, da te
falsificato, è una colpa) che qualsiasi altro dannato!" |
118 |
«Ricorditi,
spergiuro, del cavallo»,
rispuose quel ch'avëa infiata l'epa;
«e sieti reo che tutto il mondo sallo!». |
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118 |
"Ricordati, o spergiuro,
del cavallo" rispose quello che aveva la pancia gonfia;
"e ti sia motivo d’amarezza che tutti lo sappiano!" |
121 |
«E te sia
rea la sete onde ti crepa»,
disse 'l Greco, «la lingua, e l'acqua marcia
che 'l ventre innanzi a li occhi sì t'assiepa!». |
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121 |
"E a te sia motivo
d’amarezza la sete che ti screpola la lingua" disse il
greco "e gli umori putridi che gonfiano il tuo ventre a
tal punto da trasformarlo in una siepe che t’impedisce
la vista!" |
124 |
Allora il
monetier: «Così si squarcia
la bocca tua per tuo mal come suole;
ché, s'i' ho sete e omor mi rinfarcia, |
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124 |
E quello delle monete. "In
modo non diverso ti si lacera la bocca a causa della tua
malattia (che ti costringe a tenerla spalancata), come
al solito; poiché se io ho sete e l’idropisia mi gonfia, |
127 |
tu hai
l'arsura e 'l capo che ti duole,
e per leccar lo specchio di Narcisso,
non vorresti a 'nvitar molte parole». |
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127 |
tu hai il bruciore e il
mai di testa; e per leccare lo specchio in cui Narciso
affogò (cioè l’acqua; Narciso è il mitico giovane che si
invaghì della propria immagine riflessa in uno stagno e
che, volendo afferrarla, annegò), non chiederesti di
essere invitato con molte parole". |
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L’alterco fra maestro Adamo - destituito, in questa
seconda manifestazione del suo essere, della ricca
umanità che aveva caratterizzato il discorso da lui
rivolto ai due poeti - e Sinone si sviluppa vivacissimo,
"con ritmo d’antica commedia... Tutta la scena è
concepita nel gusto della letteratura " realistica ",
dove al cinismo del dato affettivo risponde, sul piano
formale, la coloritura caricata e iperbolica del
linguaggio e dello stile" (Sapegno).
Per il Bigi, tuttavia, non si può parlare, a proposito
di questo episodio, di un prevalere dello stile
realistico su quello illustre: "Siamo... di fronte ad
uno stile che non è soltanto realistico né soltanto
illustre, ma che è ancora una volta il nuovo stile della
Commedia, insieme realistico e illustre, o più
esattamente di fronte ad una particolare incarnazione di
esso, attraverso la quale il Poeta, mentre rappresenta
con precisa e concreta aderenza, anzi nella torbida
attrazione che può esercitare, l’eloquente gara di
contumelie fra i due dannati, al tempo stesso può far
sentire come quello sfoggio di maligna e irosa eloquenza
si inquadri entro gli schemi solenni del giudizio
divino, come divenga cioè in definitiva esso stesso una
forma di esemplare punizione inflitta da Dio ad una
intelligenza e ad una passione irrimediabilmente
degradate in " malizia "".
Le fasi del duello verbale tra i due falsari - nel quale
forme e termini del duello cavalleresco risultano, come
ha rilevato il Mattalia, invertite - segnano le tappe di
un progressivo ottundersi dell’intelligenza, per cui dal
rinfaccio che ha per oggetto i difetti morali
dell’avversario si passa all’insulto volto a ‘
ridicolizzarne l’aspetto fisico. Già il De Sanctis aveva
notato questa sopraffazione della parola sull’idea e del
gesto sulla parola. che appare caratteristica
dell’episodio. "Sìnone e maestro Adamo si ricambiano
pugni e villanie con la serietà di due dottori che
disputano intorno al salasso.... Aggiungete i giuochi di
parole, quand’uno non sapendo rispondere alla cosa si
appiglia alla parola, e quel rispondere ad una
osservazione giusta con una impertinenza o con un
pugno". |
130 |
Ad
ascoltarli er' io del tutto fisso,
quando 'l maestro mi disse: «Or pur mira,
che per poco che teco non mi risso!».
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130 |
Ero tutto intento ad
ascoltarli, quando Virgilio mi disse: "Continua pure a
guardare! manca poco infatti che io non venga a lite con
te". |
133 |
Quand' io 'l
senti' a me parlar con ira,
volsimi verso lui con tal vergogna,
ch'ancor per la memoria mi si gira. |
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133 |
Allorché udii che mi
parlava con ira, mi volsi verso di lui con tale
vergogna, che ancora ne serbo un vivo ricordo. |
136 |
Qual è colui
che suo dannaggio sogna,
che sognando desidera sognare,
sì che quel ch'è, come non fosse, agogna, |
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136 |
Non diversamente da chi
sogna di ricevere un danno, il quale mentre sogna
desidera che il suo sia soltanto un sogno, per cui
aspira a ciò che è (il sogno, che è reale, in quanto sta
realmente sognando), come se non fosse, |
139 |
tal mi fec'
io, non possendo parlare,
che disïava scusarmi, e scusava
me tuttavia, e nol mi credea fare. |
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139 |
mi comportai, non essendo
capace di parlare, io che desideravo scusarmi, e di
fatto mi scusavo (proprio per il fatto che la vergogna
mi impediva di esprimermi), e non ne ero consapevole. |
142 |
«Maggior
difetto men vergogna lava»,
disse 'l maestro, «che 'l tuo non è stato;
però d'ogne trestizia ti disgrava. |
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142 |
"Una vergogna minore (di
quella che stai provando) cancella una colpa maggiore di
quanto non sia stata la tua" disse Virgilio; "liberati
pertanto da ogni afflizione. |
145 |
E fa ragion
ch'io ti sia sempre allato,
se più avvien che fortuna t'accoglia
dove sien genti in simigliante piato: |
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145 |
E fa conto che io mi trovi
sempre al tuo fianco, se mai debba ancora accadere che
le circostanze, ti facciano capitare in luoghi dove
siano persone impegnate in un tal genere di contesa: |
148 |
ché voler
ciò udire è bassa voglia». |
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148 |
poiché è un desiderio
meschino voler ascoltare simili alterchi." |
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Virgilio ha bruscamente distolto il suo discepolo dalla
contemplazione della vitalità insensata - comica in
apparenza, ma nel profondo rivelatrice di uno stato di
assoluta disperazione manifestata con atti e parole dai
due falsari, avviando così il canto ad una sua catarsi,
a quella moralizzazione che trova, nella fermezza di un
verso divenuto proverbiale (ché voler ciò udire è bassa
voglia), la propria espressione più solenne e compiuta.
Dopo aver interamente aderito alle cose, senza
rifiutarsi a nessuno degli aspetti del reale, per quanto
abietto esso appaia, l’anima riprende il dialogo con se
stessa, con quella parte di sé che la guida (la
ragione). |
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