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DIVINA
COMMEDIA: PARAFRASI
INFERNO
CANTO XXXIII° |
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1 |
La bocca
sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a' capelli
del capo ch'elli avea di retro guasto. |
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1 |
Quel peccatore sollevò dal pasto feroce
la bocca, pulendola con i capelli della testa che egli
aveva roso nella parte posteriore. |
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Il canto XXXII si è chiuso su una nota di cupa attesa:
dal modo in cui il Poeta si è rivolto al dannato che
rodeva il teschio del suo compagno, e soprattutto dalle
ultime parole da lui pronunciate (se quella con ch’io
parlo non si secca), si è sprigionata un’intensa,
trattenuta commozione. Il canto XXXIII inizia con
un’intonazione epica, solennemente scandita, che
riscatta l’orrido dei singoli particolari. "La bocca,
così in cima al verso, ha un gran rilievo. E bocca, dove
potrebbe dirsi anche testa, ha una convenienza
particolare: l’anima di Ugolino è tutta nella bocca, e
il pensiero di Dante spettatore e di noi lettori è tutto
a quella bocca, che smette un’operazione orribile e si
dispone a un racconto terribile... Quel forbirsi la
bocca, che in sé sarebbe cosa non solo da uomo ma di
galateo, e quei capelli, che pur essi ci richiamano
all’umano, ci fanno inaspettatamente sentire ancor più
l’inumano del pasto stesso e volgon poi in nuova
inumanità l’accessorio che parea tornarci all’umano." (D’Ovidio).
Il modo in cui la chiusura del canto XXXII si lega
all’esordio del canto XXXIII ripropone, da un punto di
vista formale, la soluzione adottata da Virgilio per
legare il I al Il libro dell’Eneide. Anche l’inizio del
secondo racconto di Francesca (canto V, versi 121-126)
deriva dal Il libro dell’Eneide (versi 3-13), "ma -
rileva il D’Ovidio - i due esordi danteschi hanno
accenti diversi tra sé, e diversi rapporti col modello.
Francesca mantiene il tono elegiaco di Enea, sebben lo
faccia più molle e accorato, come pure più sobrio. Enea
e Francesca son sedotti a parlare dal sentimento pietoso
che muove la curiosità di chi gl’interroga, cedono per
non saper resistere all’altrui simpatia amorevole,
chiamano amore o affetto quella curiosità. Ugolino
chiama con parola più violenta disperato il suo dolore,
e dice energicamente che gli preme il cuore, al solo
pensarci; ma cede all’odio, alla speranza d’infamare
peggio il suo nemico". |
4 |
Poi
cominciò: «Tu vuo' ch'io rinovelli
disperato dolor che 'l cor mi preme
già pur pensando, pria ch'io ne favelli. |
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4 |
Poi incominciò a dire: "Tu
vuoi che io rinnovi un dolore disperato che mi opprime
il cuore al solo pensarci, prima che io ne parli. |
7 |
Ma se le mie
parole esser dien seme
che frutti infamia al traditor ch'i' rodo,
parlar e lagrimar vedrai insieme. |
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7 |
Ma se le mie parole devono
essere causa d’infamia per il traditore che io rodo, mi
vedrai al tempo stesso parlare e piangere. |
10 |
Io non so
chi tu se' né per che modo
venuto se' qua giù; ma fiorentino
mi sembri veramente quand' io t'odo. |
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10 |
Non so chi sei né in quale
maniera sei arrivato quaggiù; ma quando ti odo parlare
mi sembri davvero fiorentino. |
13 |
Tu dei saper
ch'i' fui conte Ugolino,
e questi è l'arcivescovo Ruggieri:
or ti dirò perché i son tal vicino. |
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13 |
Devi sapere che fui il conte Ugolino, e questo è
l’arcivescovo Ruggieri: adesso ti dirò perché sono per
lui un vicino siffatto. |
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Ugolino della Gherardesca, conte di Donoratico, signore
di numerosi castelli nella Maremma pisana e in Sardegna,
fu uno dei personaggi più in vista nelle vicende che
travagliarono la vita politica pisana tra il 1270 e il
1289. Appartenente ad una famiglia ghibellina, favorì,
insieme col nipote Nino Visconti, l’instaurazione nella
ghibellina Pisa di un governo favorevole ai Guelfì e,
raggiunta una posizione di predominio nella direzione
degli affari della città, comandò la flotta pisana che
fu sconfitta dai Genovesi alla Meloria (1284).
Nel 1285~1286, essendosi Genova alleata con Lucca e con
Firenze, cedette a queste ultime alcuni castelli pisani,
nella speranza di indurle a separarsi da Genova. Nel
1288 tentò di far cadere in disgrazia presso il popolo
Nino Visconti, con il quale aveva governato fino allora,
per accentrare nelle sue mani tutta la direzione della
cosa pubblica, ma, catturato con l’inganno dai
Ghibellini, capeggiati dall’arcivescovo Ruggieri degli
Ubaldini, fu imprigionato, accusato di tradimento e
lasciato morire di fame insieme con due figli (Uguccione
e Gaddo) e due nipoti (Anselmuccio e Nino, detto il
Brigata) nella torre dei Gualandi nel febbraio 1289.
Ugolino si trova nel nono cerchio non tanto per la
cessione dei castelli ai Lucchesi e ai Fiorentini .
cessione che gli fu imputata a tradimento dai suoi
avversari politici - quanto, più probabilmente, per le
sue mene ai danni del partito ghibellino e del nipote
Nino Visconti, giudice di Gallura, di cui Dante fu molto
amico, come dimostrano i versi 53 sgg. del canto VIII
del Purgatorio. Ma, come ha ben mostrato il De Sanctis,
nell’episodio che lo ha per protagonista "Ugolino non è
il traditore, ma il tradito. Certo, anche il conte
Ugolino è un traditore e perciò si trova qui; ma per una
ingegnosissima combinazione, come Paolo si trova legato
in eterno a Francesca, Ugolino si trova legato in eterno
a Ruggiero, che lo tradì, legato non dall’amore, ma
dall’odio... Il traditore c’è, ma non è Ugolino; è
quella testa che gli sta sotto a’ denti... che non mette
un grido, dove ogni espressione di vita è cancellata,
l’ideale più perfetto dell’uomo petrificato".
L’arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini, nipote del
cardinale Ottaviano menzionato nel canto X (verso 120),
capeggiò, nella seconda metà del secolo XIII, il partito
ghibellino a Pisa; dopo l’imprigionamento di Ugolino
assunse il governo della città col titolo di podestà. |
16 |
Che per
l'effetto de' suo' mai pensieri,
fidandomi di lui, io fossi preso
e poscia morto, dir non è mestieri; |
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16 |
Non occorre che io
racconti come, avendo fiducia in lui, fui fatto
prigioniero e poi ucciso, in conseguenza dei suoi
intendimenti malvagi; |
19 |
però quel
che non puoi avere inteso,
cioè come la morte mia fu cruda,
udirai, e saprai s'e' m'ha offeso. |
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19 |
ma udrai
quello che non puoi avere udito, cioè come la mia morte
fu crudele, e potrai giudicare se egli non è stato
colpevole nei miei riguardi. |
22 |
Breve
pertugio dentro da la Muda,
la qual per me ha 'l titol de la fame,
e che conviene ancor ch'altrui si chiuda, |
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22 |
Una piccola feritoia nel luogo chiuso (dentro dalla
muda: muda era chiamato il luogo chiuso dove venivano
tenuti gli uccelli nel periodo in cui cambiavano le
penne) che a causa mia è soprannominato torre della
fame, e nel quale altri devono ancora essere chiusi, |
25 |
m'avea
mostrato per lo suo forame
più lune già, quand' io feci 'l mal sonno
che del futuro mi squarciò 'l velame. |
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25 |
mi aveva già mostrato attraverso la sua apertura più
lune (erano passati diversi mesi), quando io feci il
sogno cattivo che mi svelò il futuro. |
28 |
Questi
pareva a me maestro e donno,
cacciando il lupo e ' lupicini al monte
per che i Pisan veder Lucca non ponno. |
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28 |
Costui (l’arcivescovo
Ruggieri) mi sembrava capocaccia e signore degli altri
cacciatori, mentre, cacciava il lupo e i suoi piccoli su
per il monte (San Giuliano) a causa del quale i Pisani
non possono vedere Lucca. |
31 |
Con cagne
magre, studïose e conte
Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi
s'avea messi dinanzi da la fronte. |
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31 |
Egli aveva messo davanti a
sé, sul fronte dello schieramento degli inseguitori,
Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi (le tre
principali famiglie ghibelline di Pisa) insieme con
cagne fameliche (simbolo, secondo il Buti, del popolo
minuto, "che comunemente è magro e povero"), sollecite a
cacciare ed esperte. |
34 |
In picciol
corso mi parieno stanchi
lo padre e ' figli, e con l'agute scane
mi parea lor veder fender li fianchi. |
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34 |
Dopo una breve corsa il
lupo e i lupicini mi sembravano stanchi, e mi sembrava
di vedere lacerati i loro fianchi dalle zanne affilate. |
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Il sogno di Ugolino è una trasfigurazione simbolica del
modo in cui fu catturato insieme con i figli e i nipoti
e costituisce al tempo stesso un presagio della prossima
fine. Osserva il D’Ovidio: "A Lucca ricorrevano per
rifugio e per aiuto i Guelfi di Pisa, e l’ostacolo a
toccar presto la terra amica era quel monte che ne
sbarra la via... Tutta la caccia è come una proiezione
campestre della... cattura [di Ugolino] in città, una
trasformazione bucolica del fatto politico. E la più
calzante rappresentazione topografica della sua mancata
fuga a Lucca, era l’impacciata corsa del lupo al monte
di San Giuliano... Questa viva immagine del suo passato,
apparsagli con tanta evidenza, con un così stretto
intreccio di persone vere e di chiari simboli, lo turba,
gli sembra di pessimo augurio; e gli sembra che sia
altresì una prefigurazione di un prossimo avvenire, in
ispecie per quella lacerazione che ai fianchi dei lupi
fanno le terribili cagne. Ugolino legge così chiaramente
in ciò la sorte sua e dei suoi, che gli vien fatto di
chiamare con vocabolo umano, lo padre e i figli, il lupo
e i lupicini, e di esprimere con stanco e mesto ritmo la
loro vana corsa, e di descrivere con passionata
efficacia di parole e d’armonia imitativa lo
squarciamento dei fianchi, come se si sentisse quei
denti nelle proprie carni". |
37 |
Quando fui
desto innanzi la dimane,
pianger senti' fra 'l sonno i miei figliuoli
ch'eran con meco, e dimandar del pane. |
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37 |
Quando fui sveglio prima
dei mattino, udii piangere nel sonno i miei figli
(Ugolino chiama così anche i suoi nipoti Anselmuccio e
Nino), che erano con me, e chiedere del pane. |
40 |
Ben se'
crudel, se tu già non ti duoli
pensando ciò che 'l mio cor s'annunziava;
e se non piangi, di che pianger suoli? |
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40 |
Sei davvero crudele, se
fin da questo momento non provi dolore immaginando
quello che il mio cuore presagiva a se stesso; e se non
piangi, per che cosa sei solito piangere? |
43 |
Già eran
desti, e l'ora s'appressava
che 'l cibo ne solëa essere addotto,
e per suo sogno ciascun dubitava; |
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43 |
Erano ormai svegli, e si
avvicinava l’ora in cui il cibo soleva esserci portato,
e a causa del proprio sogno ciascuno aveva timore; |
46 |
e io senti'
chiavar l'uscio di sotto
a l'orribile torre; ond' io guardai
nel viso a' mie' figliuoi sanza far motto. |
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46 |
e udii inchiodare la porta
inferiore della spaventosa torre; allora guardai negli
occhi i miei figli senza pronunciare parola. |
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L’episodio, mantenuto inizialmente entro una cornice
epica nella quale il solo personaggio di Ugolino ha
avuto modo di imporsi alla nostra fantasia, come una
"colossale statua dell’odio" (De Sanctis), acquista
intimità di risonanze per il contrapporsi dei dolore dei
figli, innocentemente pieni di fiducia nel padre, alla
cupa e consapevole disperazione di costui.
Come ha osservato il De Sanctis, l’offesa arrecatagli
dai suoi nemici non è rappresentata per Ugolino dalla
sua morte, ma da quella dei suoi figliuoli. Il peccatore
roso dall’odio e al quale l’odio stesso accresce a
dismisura la pena ("Ugolino ha sotto i suoi denti il
nemico, e rimane insoddisfatto, e non perché desideri
una vendetta maggiore, ma perché non c’è vendetta che
possa saziare il suo dolore, essere eguale al suo odio")
si rivela un padre tenerissimo. "Ma in seno all’odio si
sviluppa l’amore, e il cupo e il denso dell’animo si
stempra ne’ sentimenti più teneri. Quest’uomo odia
molto, perché ha amato molto... Ve ne accorgete al tono
così tenero e molle del suo dire, quando per la prima
volta mette in iscena i figli... Questa vista lo
commuove tanto, che provoca la sua sdegnosa e brusca
apostrofe a Dante, non commosso del pari al pensiero di
ciò che "si annunziava" al cuore del padre. Quello che
si annunziava era non il dover morire lui, ma il dover
vedersi morire i figliuoli. E quando sente chiavar
l’uscio di sotto all’orribile torre, il primo suo atto è
guardare in viso i figliuoli, che non avevano sentito
nulla ed erano ignari della loro sorte.
Una vena di tenerezza penetra in questa natura
selvatica; l’amore paterno abbella la sua figura e
raddolcisce anco il suo accento. Quella musica scabra ed
aspra nel principio e nella fine, quella musica
dell’odio ferino prende qui la morbidezza e la soavità
quasi dell’elegia." |
49 |
Io non
piangëa, sì dentro impetrai:
piangevan elli; e Anselmuccio mio
disse: "Tu guardi sì, padre! che hai?". |
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49 |
Io non piangevo, a tal punto l’animo
divenne impietrito: piangevano loro; e il mio
Anselmuccio disse: "Tu guardi in modo così strano,
padre! che hai ?" |
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"Anselmuccio non sa definire, né spiegare - scrive il De
Sanctis a proposito del verso 51 - quel modo di
guardare... Lo strazio è tutto nella coscienza di quello
sguardo senza parola e nell’innocenza di quello che hai?
accompagnato con lacrime... E se un pittore dovesse
scegliere un’attitudine sintetica che ti ponesse avanti
i tratti sostanziali di questa poesia, sarebbe
quest’essa: perché qui sei proprio al momento decisivo
del racconto; ed hai già nella attitudine del padre e
de’ figli tutt’ i motivi del più alto patetico." |
52 |
Perciò non
lagrimai né rispuos' io
tutto quel giorno né la notte appresso,
infin che l'altro sol nel mondo uscìo. |
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52 |
Perciò non piansi né risposi tutto quel
giorno e la notte successiva, finché non spuntò un’altra
alba. |
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Sempre del De Sanctis, espositore ed interprete
insuperato della poesia di quest’episodio, sono le
seguenti osservazioni: "Se il padre prima non lacrimò e
non fe’ motto perché rimase impietrato, ora non parla e
non lacrima per non addolorare più i figli. L’amore gli
vieta ogni espansione... quel padre dovrà divorare in
silenzio il suo dolore, comprimere la natura, forzare la
faccia ed il gesto, essere statua e non uomo, la statua
della disperazione... La compressione è tanto più
violenta, quanto maggiore è la tenerezza di quello che
hai?, e quanto è più commovente quell’Anselmuccio mio,
che ricorda tante care gioie di famiglia in tanto mutata
situazione". |
55 |
Come un poco
di raggio si fu messo
nel doloroso carcere, e io scorsi
per quattro visi il mio aspetto stesso, |
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55 |
Non appena un po’ di luce
riuscì a penetrare nella cella dolorosa, ed intravidi su
quattro volti il mio stesso aspetto, |
58 |
ambo le man
per lo dolor mi morsi;
ed ei, pensando ch'io 'l fessi per voglia
di manicar, di sùbito levorsi |
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58 |
mi morsi entrambe le mani
per il dolore; ed essi, credendo che lo facessi per
desiderio di mangiare, si alzarono immediatamente in
piedi, |
61 |
e disser:
"Padre, assai ci fia men doglia
se tu mangi di noi: tu ne vestisti
queste misere carni, e tu le spoglia". |
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61 |
e dissero: "Padre, sarà
per noi un dolore assai minore se tu ti cibi delle
nostre membra: tu (generandoci) ci facesti indossare
queste carni infelici, tu privacene". |
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In questa tragedia priva di dialogo - che non sia quello
muto degli occhi - e aliena da ogni forma di
amplificazione (il racconto procede scandito dalle
notazioni brevi che contrappongono al dolore del
protagonista le misure di un tempo disumano, privo di
speranza), i versi 58-63 rappresentano il momento di più
accesa evidenza drammatica. Per intenderne l’intera
portata occorre, tuttavia, non considerarli unicamente
in rapporto alla funzione che svolgono nel quadro
dell’episodio - quella di dare un’espressione visibile,
disperatamente emblematica, alla sua più intima tensione
(il motivo della fame, brutalmente accennato nel verso
127 del canto XXXII, si ripercuote qui. trasfigurato,
nel gesto del padre, nella concorde offerta che i figli
fanno delle loro misere carni) - ma ricollocarli, come
fa ad esempio il Gallardo, nella cornice degli
svolgimenti etico-religiosi della prima cantica. "Quel
gesto di mordersi le mani suscita nei figli, nei giovani
che la fame ha resi orinai quasi disumani, cui ha tolto
fiducia e vitalità, un sentimento che è di affetto
ancora per il padre, di disperato e disumano affetto,
nel quale si riflette però istintiva la loro stessa
fame, che li rende crudeli verso se stessi, e verso il
misero padre al quale offrono le loro carni. Un atto di
dedizione ispirato, più che dalla coscienza della
sofferenza del padre, dalla loro stessa sofferenza
fisica. A questo più veramente il momento culminante
della tragedia, e quello che più duramente rispecchia
l’atroce colpa di chi ha condannato esseri umani,
teneri, affettuosi ed innocenti, a questa alienazione da
se stessi: la colpa di chi freddamente ha deliberato su
uomini, peggio, su giovani e innocenti. Una colpa che
consiste nell’avere spinto esseri umani ad una
degradazione, ad uno stato disumano: fino a rendere
possibile anche il solo pensiero che un padre possa
cibarsi delle carni dei figli." |
64 |
Queta'mi
allor per non farli più tristi;
lo dì e l'altro stemmo tutti muti;
ahi dura terra, perché non t'apristi? |
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64 |
Allora mi quietai per non
renderli più tristi; rimanemmo in assoluto silenzio quel
giorno e il giorno successivo: ahi, terra crudele,
perché non ci inghiottisti? |
67 |
Poscia che
fummo al quarto dì venuti,
Gaddo mi si gittò disteso a' piedi,
dicendo: "Padre mio, ché non m'aiuti?". |
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67 |
Quando giungemmo al quarto
giorno, Gaddo si gettò disteso ai miei piedi, dicendo:
"Padre, perché non m’aiuti?" |
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Nota il Momigliano come il racconto di Ugolino sia
"tutta un’alternativa di interminabili silenzi e di
scatti improvvisi: di quando in quando la vita
giovanile, lentamente soffocata dal destino, prorompe in
un impeto inutile... E questo isola tragicamente il
padre nel suo dolore, invocato invano dai giovani che
cercano uno scampo verso la vita, oppresso, più che
dalla sciagura, da quelle invocazioni a cui non può dar
soccorso e da quelle parole di disperazione a cui non
può dar risposta". |
70 |
Quivi morì;
e come tu mi vedi,
vid' io cascar li tre ad uno ad uno
tra 'l quinto dì e 'l sesto; ond' io mi diedi, |
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70 |
Morì lì; e così come tu
vedi me, vidi cadere gli altri tre uno dopo l’altro tra
il quinto e il sesto giorno; per cui incominciai, |
73 |
già cieco, a
brancolar sovra ciascuno,
e due dì li chiamai, poi che fur morti.
Poscia, più che 'l dolor, poté 'l digiuno». |
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73 |
ormai cieco, a brancolare
sopra ciascuno di loro, e li chiamai per due giorni,
dopo che furono morti: poi, più del dolore, ebbe potere
su me il digiuno". |
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Nella sua concisione il verso 75 stende un velo d’ombra
sull’agonia di Ugolino, rimasto solo in mezzo ai corpi
dei figli morti. "Verso letteralmente chiarissimo -
osserva il De Sanctis - e che suona: più che non poté
fare il dolore, fece la fame. Il dolore non poté
ucciderlo; lo uccise la farne. Ma è verso fitto di
tenebre e pieno di sottintesi, per la folla de’
sentimenti e delle immagini che suscita, pei tanti "
forse " che ne pullulano, e che sono così poetici. Forse
invoca la morte, e si lamenta che il dolore non basti ad
ucciderlo, e deve attendere la morte lenta della fame; è
un sentimento di disperazione. Forse non cessa di
chiamare i figli, se non quando la fame più potente del
dolore gliene toglie la forza, mancatagli prima la vista
e poi la voce. E’ un sentimento di tenerezza. Forse,
mentre la natura spinge i denti sulle misere carni, in
quell’ultimo delirio della fame e della vendetta quelle
sono nella sua immaginazione le carni del suo nemico, e
Dante ha realizzato il delirio nell’inferno, perpetuando
quell’ultimo atto e quell’ultimo pensiero. E un
sentimento di furore canino. Tutto questo è possibile;
‘tutto questo può esser concepito, pensato, immaginato;
ciascuna congettura ha la sua occasione in qualche
parola, in qualche accessione d’idea." |
76 |
Quand' ebbe
detto ciò, con li occhi torti
riprese 'l teschio misero co' denti,
che furo a l'osso, come d'un can, forti. |
|
76 |
Ciò detto, con gli occhi
biechi, afferrò nuovamente il misero cranio coi denti, i
quali furono, sull’osso, forti come quelli di un cane. |
79 |
Ahi Pisa,
vituperio de le genti
del bel paese là dove 'l sì suona,
poi che i vicini a te punir son lenti, |
|
79 |
Ahi Pisa, onta dei popoli
appartenenti all’Italia (del bel paese là dove ‘l sì
sona: dove la lingua usa come particella affermativa il
"sì"), dal momento che le città vicine tardano a
punirti, |
82 |
muovasi la
Capraia e la Gorgona,
e faccian siepe ad Arno in su la foce,
sì ch'elli annieghi in te ogne persona! |
|
82 |
si muovano la Capraia e la
Gorgona (due isole del Tirreno, situate in
corrispondenza della foce dell’Arno), e formino uno
sbarramento allo scorrere dell’Arno nel punto in cui si
versa nel mare, in modo che esso sommerga tutti i tuoi
abitanti! |
85 |
Che se 'l
conte Ugolino aveva voce
d'aver tradita te de le castella,
non dovei tu i figliuoi porre a tal croce. |
|
85 |
Poiché se correva voce che
il conte Ugolino ti aveva tradita riguardo ai castelli
(ceduti a Lucca e a Firenze), non dovevi sottoporre ad
un tale supplizio i suoi figli. |
88 |
Innocenti
facea l'età novella,
novella Tebe, Uguiccione e 'l Brigata
e li altri due che 'l canto suso appella. |
|
88 |
La giovane età rendeva
innocenti, o nuova Tebe (per la ferocia dei delitti in
te perpetrati, non meno orribili di quelli compiuti dai
discendenti di Cadmo), Uguccione e il Brigata e gli
altri due che il mio canto ha menzionato in precedenza. |
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L’ira del Poeta contro coloro che hanno fatto morire,
insieme con un presunto colpevole, quattro innocenti,
prorompe in un’invettiva che si accorda allo stile
dell’episodio del quale rappresenta la conclusione.
Nella tragedia del conte Ugolino "c’è - scrive il De
Sanctis - il colosso, c’è il gigantesco, dove la
primitiva antichità esprimeva quei primi moti ancora
oscuri della coscienza, quel sentimento della grandezza,
dell’infinito, tanto più terribile alla fantasia,
quanto... meno analizzato. Tale è il segreto di questi
formidabili schizzi danteschi, così scarsi di sviluppi,
così pieni di ombre e di lacune, che per sobrietà di
contorno e di chiaroscuro ingigantiscono le proporzioni
e i sentimenti... Questo è anche l’effetto di quel
movasi la Capraia e la Gorgona. A la natura stessa che
viola le sue leggi, esce dalla sua immobilità, acquista
coscienza, anima e moto, e corre a punire la rea città.
Una catastrofe tanto straordinaria di natura, una pena
così fuori del corso ordinario delle cose alza la colpa
allo stesso livello e le dà proporzioni colossali". |
91 |
Noi passammo
oltre, là 've la gelata
ruvidamente un'altra gente fascia,
non volta in giù, ma tutta riversata. |
|
91 |
Passammo oltre, là dove il ghiaccio
avvolge duramente un’altra moltitudine, non immersa
verticalmente, ma tutta quanta supina. |
|
I due poeti entrano nella terza zona di Cocito, nella
quale sono puniti i traditori degli ospiti: la Tolomea.
Essa prende nome da un personaggio di cui è fatta
menzione nella Scrittura (I Maccabei XVI, 11-16):
Tolomeo, che fece uccidere, durante un banchetto, il
suocero Simone Maccabeo con i suoi due figli Giuda e
Mattatia. |
94 |
Lo pianto
stesso lì pianger non lascia,
e 'l duol che truova in su li occhi rintoppo,
si volge in entro a far crescer l'ambascia; |
|
94 |
Il pianto stesso in quel
luogo non consente di piangere, e il dolore che trova
sugli occhi un impedimento, rifluisce dentro ad
aumentare l’angoscia, |
97 |
ché le
lagrime prime fanno groppo,
e sì come visiere di cristallo,
rïempion sotto 'l ciglio tutto il coppo. |
|
97 |
poiché le
prime lagrime versate formano un nodo (di ghiaccio), e
riempiono tutta la cavità dell’occhio sotto le ciglia,
come visiere di cristallo. |
100 |
E avvegna
che, sì come d'un callo,
per la freddura ciascun sentimento
cessato avesse del mio viso stallo, |
|
100 |
E sebbene a
causa del freddo ogni sensibilità avesse abbandonato la
dimora del mio volto, così come accade per una parte
callosa, |
103 |
già mi parea
sentire alquanto vento;
per ch'io: «Maestro mio, questo chi move?
non è qua giù ogne vapore spento?». |
|
103 |
mi sembrava già di sentire
parecchio vento: per cui dissi: "Maestro, chi lo
produce? non è qui inesistente ogni vapore (manca
infatti il sole che possa formare e sollevare il vapore
per produrre il vento)?" |
106 |
Ond' elli a
me: «Avaccio sarai dove
di ciò ti farà l'occhio la risposta,
veggendo la cagion che 'l fiato piove». |
|
106 |
E Virgilio: "Presto sarai
nel luogo in cui l’occhio, vedendo la causa (il
movimento delle ali di Lucifero) che fa soffiare
dall’alto il vento, risponderà alla tua domanda". |
109 |
E un de'
tristi de la fredda crosta
gridò a noi: «O anime crudeli
tanto che data v'è l'ultima posta, |
|
109 |
Ed uno degli sciagurati
immersi nella lastra gelata ci gridò: "Anime a tal punto
spietate, che vi è assegnata l’ultima dimora, |
|
Ultima posta: è
l’ultima zona di Cocito, la Giudecca. Prende nome da
Giuda e contiene le anime di coloro che hanno tradito i
benefattori. |
112 |
levatemi dal
viso i duri veli,
sì ch'ïo sfoghi 'l duol che 'l cor m'impregna,
un poco, pria che 'l pianto si raggeli». |
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112 |
toglietemi dal volto il ghiaccio, in
modo che io possa sfogare un poco (attraverso le
lagrime) il dolore che riempie il mio cuore, prima che
il pianto geli nuovamente". |
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Contro la tesi del De Sanctis, il quale - equivocando
tra "vita" naturalisticamente intesa e vita poetica,
legittimata cioè sul piano dell’arte, dei personaggi
della prima cantica - sosteneva che la vita dei dannati,
già morta - secondo lui - fin dal pozzo dei giganti, e
risorta poi quasi miracolosamente nell’episodio del
conte Ugolino" tornava a morire "e per sempre, in questa
terza sezione della gelata", il Chiari sottolinea il
significato umano e la riuscita poetica delle parole che
il primo traditore incontrato nella Tolomea rivolge a
Dante: "par di sentire già in quella parola veli in
contrasto con l’aggettivo duri, l’accenno ad una
amarezza così sconsolata, che si esprime a volte in
forma di fredda ironia, che è però espressione di rabbia
e di disperazione, di quell’ironia, che è propria di chi
si trova nelle più tristi condizioni e non ha che parole
malvagie e per sé e per gli altri, e disperando di tutto
e non trovando più lacrime per il suo dolore, si
accanisce anche contro quelli stessi, che potrebbero in
qualche modo aiutarlo, o commenta sarcasticamente, con
sorriso livido e tristissimo, la terribilità della
situazione". |
115 |
Per ch'io a
lui: «Se vuo' ch'i' ti sovvegna,
dimmi chi se', e s'io non ti disbrigo,
al fondo de la ghiaccia ir mi convegna». |
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115 |
Onde io: "Se vuoi che ti aiuti (ti
sovvegna), dimmi chi sei, e se non ti libero
dall’impedimento (del ghiaccio), possa io scendere fino
in fondo a Cocito". |
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I critici ritengono generalmente che Dante formuli
questa sua promessa al dannato in modo volutamente
ambiguo, per poterla poi trasgredire. Fin dall’inizio
l’atteggiamento del Poeta sarebbe, secondo questa tesi,
duramente polemico. Per il Barbi si tratterebbe invece
di Il un giuramento vero e proprio, non mantenuto a
ragion veduta quando Dante ha saputo con che razza di
traditore aveva da fare". |
118 |
Rispuose
adunque: «I' son frate Alberigo;
i' son quel da le frutta del mal orto,
che qui riprendo dattero per figo». |
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118 |
Allora rispose: "Sono frate Alberigo;
sono quello delle frutta delittuose, che qui sconto la
mia colpa con una pena ancora più grave (il dattero è
frutto più prelibato del fico)". |
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Il frate Gaudente Alberigo dei Manfredi di Faenza fece
uccidere a tradimento due suoi congiunti mentre erano a
banchetto insieme con lui (1285). I due - Manfredo e il
figlio di lui Alberghetto - vennero trucidati da alcuni
sicari quando frate Alberigo pronunziò la frase:
"Vengano le frutta". L’espressione "le frutta di frate
Alberigo" divenne proverbiale. Per questo il Poeta
presenta il frate come quel dalle frutta del mal orto.
Il particolare delle frutta - particolare reale, che
assurge ad una funzione di primo piano, in esso
manifestandosi per intero la natura malvagia del dannato
- serve poi come spunto allo sviluppo metaforico del
verso 120, dove la contrapposizione del dattero al figo
ha un suono plebeo, di aspro e irriverente sarcasmo.
L’abiezione dei peccatori di Cocito è denunciata dal
fatto che nessuno di loro sente la maestà della
giustizia che li punisce. |
121 |
«Oh», diss'
io lui, «or se' tu ancor morto?».
Ed elli a me: «Come 'l mio corpo stea
nel mondo sù, nulla scïenza porto. |
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121 |
"Oh!" gli dissi, "sei già
morto?" Ed egli: "In quali condizioni si trovi il mio
corpo nel mondo dei vivi, non so. |
124 |
Cotal
vantaggio ha questa Tolomea,
che spesse volte l'anima ci cade
innanzi ch'Atropòs mossa le dea. |
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124 |
Questa Tolomea ha il
privilegio che spesso l’anima cade in essa prima che la
morte (nella mitologia Atropos era quella delle tre
Parche che recideva il filo della vita) le imprima il
movimento. |
127 |
E perché tu
più volentier mi rade
le 'nvetrïate lagrime dal volto,
sappie che, tosto che l'anima trade |
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127 |
E perché più volentieri tu
mi raschi dal volto le lagrime congelate, sappi che non
appena l’anima tradisce |
130 |
come fec'
ïo, il corpo suo l'è tolto
da un demonio, che poscia il governa
mentre che 'l tempo suo tutto sia vòlto. |
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130 |
nel modo usato da me, il
suo corpo le è preso da un demonio, il quale poi lo
governa finché sia trascorso tutto il tempo assegnatogli
per vivere. |
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L’anima dei traditori degli ospiti - dice frate Alberigo
- si trova già all’inferno mentre il loro corpo continua
a vivere, governato da un diavolo. "Il fondamento della
tetro-allegra invenzione di cui, almeno in questi
termini, non pare esistano riscontri anteriori a Dante,
sarà stata l’idea corrente dell’invasamento demoniaco,
dalla quale, attraverso il ponte dell’idea deIl’impossibilità
morale di riscattare davanti a Dio col pentimento un
reato del genere... il passaggio all’invenzione di una
condanna anticipata si presentava ragionevolmente e
dottrinalmente plausibile, se non proprio naturale."(Mattalia) |
133 |
Ella ruina
in sì fatta cisterna;
e forse pare ancor lo corpo suso
de l'ombra che di qua dietro mi verna. |
|
133 |
Essa precipita in questo
pozzo (il nono cerchio); e forse è ancora visibile nel
mondo il corpo appartenente all’anima che qua dietro a
me sverna. |
136 |
Tu 'l dei
saper, se tu vien pur mo giuso:
elli è ser Branca Doria, e son più anni
poscia passati ch'el fu sì racchiuso». |
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136 |
Tu lo devi sapere, se
soltanto ora scendi nell’inferno: è ser Branca d’Oria, e
vari anni sono trascorsi da quando è stato chiuso in tal
modo (nel ghiaccio)". |
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Il genovese Branca d’Oria, genero di Michele Zanche
(canto XXII, versi 88-89), giudice di Logudoro, volendo
impadronirsi di questa regione, "invitò a mangiare seco
a uno suo castello questo suo suocero, e ivi finalmente
il fe’ tagliare per pezzi lui e tutta sua compagnia"
(Anonimo Fiorentino). Branca d’Oria morì dopo il 1325. |
139 |
«Io credo»,
diss' io lui, «che tu m'inganni;
ché Branca Doria non morì unquanche,
e mangia e bee e dorme e veste panni». |
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139 |
"Credo" gli dissi "che tu
m’inganni; poiché Branca d’Oria non è ancora morto, è
vivo e sano." |
142 |
«Nel fosso
sù», diss' el, «de' Malebranche,
là dove bolle la tenace pece,
non era ancora giunto Michel Zanche, |
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142 |
"Nella bolgia" disse
"custodita dai Malebranche, dove la pece vischiosa
ribolle, non era ancora arrivato Michele Zanche |
145 |
che questi
lasciò il diavolo in sua vece
nel corpo suo, ed un suo prossimano
che 'l tradimento insieme con lui fece. |
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145 |
che costui lasciò nel
corpo al posto suo un diavolo, ed altrettanto fece un
suo parente che compì il tradimento insieme con lui. |
148 |
Ma distendi
oggimai in qua la mano;
aprimi li occhi». E io non gliel' apersi;
e cortesia fu lui esser villano. |
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148 |
Ma stendi ormai la mano
verso di me; aprimi gli occhi." E io non glieli apersi;
e fu atto nobile essere villano nei suoi confronti. |
151 |
Ahi
Genovesi, uomini diversi
d'ogne costume e pien d'ogne magagna,
perché non siete voi del mondo spersi? |
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151 |
Ahi Genovesi, uomini
lontani da ogni buona usanza e pieni d’ogni vizio,
perché non siete estirpati dal mondo? |
154 |
Ché col
peggiore spirto di Romagna
trovai di voi un tal, che per sua opra
in anima in Cocito già si bagna, |
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154 |
Poiché insieme con l’anima
più perversa della Romagna (frate Alberigo) trovai un
vostro concittadino tale, che a causa delle sue azioni
già sta immerso con l’anima nel Cocito, |
157 |
e in corpo
par vivo ancor di sopra. |
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157 |
e col corpo appare ancora
vivente sulla terra. |
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L’invettiva contro i Genovesi corrisponde
simmetricamente, a chiusura dell’episodio di frate
Alberigo, a quella contro Pisa, con la quale si conclude
l’episodio di Ugolino. La maledizione del Poeta
coinvolge così in questo canto "con terribile
imparzialità le due rivali repubbliche marinare: i vinti
e i vincitori della Meloria" (D’Ovidio). |
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