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DIVINA
COMMEDIA: PARAFRASI
INFERNO
CANTO IV° |
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1 |
'Ruppemi
l'alto sonno ne la testa
un greve truono, sì ch'io mi riscossi
come persona ch'è per forza desta; |
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1 |
Un cupo tuono interruppe
il profondo sonno nella mia testa, così ripresi
coscienza come una persona che è destata violentemente; |
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Un greve
truono:
quasi tutti gli interpreti moderni respingono
l'identificazione del greve truono con il truono...
d'infiniti guai del verso 9. Mentre il primo, per
svegliare Dante, deve avere un carattere di subitaneità,
il secondo è continuo, ininterrotto. "Inoltre, il
prodigio atmosferico del lampo, che provoca l'immediato
addormentamento di Dante, richiede - allegoricamente e
poeticamente - un altro prodigio, laddove il preteso
fragore infernale sarebbe uno stato di fatto normale,
permanente e invariabile. " ( Chimenz )
Gli antichi hanno visto, tanto nel lampo che addormenta
il Poeta alla fine del canto precedente quanto nel
truono che qui lo ridesta, due manifestazioni della
Grazia (in particolare della Grazia illuminante, in
relazione al bagliore improvviso che rischiara le
tenebre infernali: balenò una luce vermiglia: Inferno
canto III, 133-134), la quale dapprima assopisce la
concupiscenza del Poeta e poi lo risveglia nella
condizione di giudicare rettamente i propri peccati. |
4 |
e l'occhio
riposato intorno mossi,
dritto levato, e fiso riguardai
per conoscer lo loco dov' io fossi. |
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4 |
allora,
levatomi in piedi, volsi intorno gli occhi riposati, e
guardai attentamente per rendermi conto del luogo dove
ero. |
7 |
Vero è che
'n su la proda mi trovai
de la valle d'abisso dolorosa
che 'ntrono accoglie d'infiniti guai. |
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7 |
Il fatto è
che mi trovai sul margine della profonda voragine del
dolore, che in sé contiene il fragore di innumerevoli
lamenti, |
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Vero è che:
l'espressione è meno prosaica di quanto a una prima
lettura può apparire; infatti essa "conserva in parte
l'originario valore di attestazione solenne, e sta
spesso a sottolineare la stranezza o l'importanza della
verità rappresentata o asserita" (Sapegno).
Che truono accoglie d'infiniti guai: non esprime una
reale sensazione del Poeta in quel momento, ma è una
perifrasi per indicare l'inferno, in una sua qualità
permanente. Le grida dei dannati, tuttavia, cominceranno
a farsi sentire soltanto a partire dal cerchio dei
lussuriosi (ora incomincian le dolenti note a farmisi
sentire; Inferno canto V, 25-26). |
10 |
Oscura e
profonda era e nebulosa
tanto che, per ficcar lo viso a fondo,
io non vi discernea alcuna cosa. |
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10 |
(La
voragine) era buia e profonda e fumosa tanto che, per
quanto tentassi di penetrarvi fino in fondo con lo
sguardo, non riuscivo a distinguervi nulla. |
13 |
«Or
discendiam qua giù nel cieco mondo»,
cominciò il poeta tutto smorto.
«Io sarò primo, e tu sarai secondo». |
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13 |
"Ora scendiamo quaggiù nel
mondo delle tenebre" cominciò a dirmi Virgilio, che era
impallidito, "io andrò per primo, e tu mi seguirai." |
16 |
E io, che
del color mi fui accorto,
dissi: «Come verrò, se tu paventi
che suoli al mio dubbiare esser conforto?». |
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16 |
Ed io, che
avevo notato il suo pallore, dissi: "Con quale animo
potrò seguirti, se tu, che sempre mi infondi coraggio
allorché sono preso dal timore, hai paura?" |
19 |
Ed elli a
me: «L'angoscia de le genti
che son qua giù, nel viso mi dipigne
quella pietà che tu per tema senti. |
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19 |
Ed egli: "La tragica sorte
dei dannati diffonde sul mio volto quel pallore che tu
interpreti come un segno di paura. |
22 |
Andiam, ché
la via lunga ne sospigne».
Così si mise e così mi fé intrare
nel primo cerchio che l'abisso cigne. |
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22 |
Muoviamoci, poiché il lungo cammino (che dobbiamo
percorrere) ci costringe a non perdere tempo". Dicendo
questo si avviò e mi fece entrare nel primo cerchio che
chiude tutt’intorno il baratro. |
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Virgilio
manifesta profonda pietà per quei dannati di cui egli si
trova a dividere le sorti. Il pensiero angoscioso delle
pene infernali gli fa troncare il discorso: Andiam, ché
la via lunga ne sospigne. Il poeta latino ha perduto la
sicurezza e la baldanza dimostrate nella risposta a
Caronte e negli incitamenti a Dante del canto
precedente. Un'ombra di tristezza vela le sue parole. |
25 |
Quivi,
secondo che per ascoltare,
non avea pianto mai che di sospiri
che l'aura etterna facevan tremare; |
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25 |
Qui, per quel che si
poteva arguire dall’udito, non vi era altra
manifestazione di dolore fuorché sospiri, che facevano
fremere l’atmosfera infernale. |
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Sospiri,
che l'aura etterna facevan tremare:
questi "sospiri" si contrappongono idealmente
all'incomposto bestemmiare delle anime del canto
precedente, e individuano una nuova tonalità: elegiaca,
non più tragica. |
28 |
ciò avvenia
di duol sanza martìri,
ch'avean le turbe, ch'eran molte e grandi,
d'infanti e di femmine e di viri. |
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28 |
Ciò
avveniva a causa del dolore non provocato da tormenti
corporali che colpiva schiere, numerose e folte, di
bambini e di donne e di uomini. |
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D'infanti
e di femmine e di viri:
oltre ai bambini non battezzati, si trovano qui le anime
di coloro che conobbero e praticarono le quattro virtù
cardinali, senza aver avuto conoscenza delle tre virtù
teologali; l'unica loro colpa è il peccato originale,
retaggio comune del genere umano. San Tommaso sostiene
che il peccato originale, ove non si accompagni ad altre
manifestazioni peccaminose dovute al libero arbitrio,
non riceve nell'al di là una punizione in senso proprio,
ma soltanto il "danno" derivante dalla privazione della
visione di Dio. Gli adulti virtuosi, morti prima della
venuta di Cristo o senza che ne siano giunti a
conoscenza, vengono definiti generalmente dai teologi
''infedeli negativi". in particolare San Tommaso
sostiene che di per sé l'infedeltà negativa non è
peccato, ma nega che, ove non soccorra la fede, il
peccato originale possa sussistere da solo, senza
indurre l'adulto in altri peccati. Soltanto i bambini
non battezzati e i patriarchi dell'Antico Testamento
sarebbero nella condizione di non avere in sé altro
peccato fuorché quello originale. Dante, su questo
punto, si allontana dalla tradizione più rigorosa e
autorevole, per accogliere nel suo limbo anche gli
infedeli negativi adulti, dell'antichità pagana e dello
stesso Medioevo, seguaci di altre religioni. |
31 |
Lo buon
maestro a me: «Tu non dimandi
che spiriti son questi che tu vedi?
Or vo' che sappi, innanzi che più andi, |
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31 |
Il buon
maestro mi disse: "Non mi chiedi che sorta di anime sono
queste che si offrono al tuo sguardo? Voglio dunque che
tu sappia, prima di procedere oltre, |
34 |
ch'ei non
peccaro; e s'elli hanno mercedi,
non basta, perché non ebber battesmo,
ch'è porta de la fede che tu credi; |
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34 |
che non
hanno commesso peccato; e se hanno meriti, questi non
bastano (a redimerli), perché furono privi del
battesimo, che è la parte essenziale della fede in cui
tu credi. |
37 |
e s'e' furon
dinanzi al cristianesmo,
non adorar debitamente a Dio:
e di questi cotai son io medesmo. |
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37 |
E se
vissero prima dell’avvento del Cristianesimo, non
adorarono nel modo dovuto Dio (come invece avevano fatto
i patriarchi dell’Antico Testamento): e io stesso sono
uno di loro. |
40 |
Per tai
difetti, non per altro rio,
semo perduti, e sol di tanto offesi
che sanza speme vivemo in disio». |
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40 |
Per tale
mancanza, non per altra colpa, siamo esclusi dalla
beatitudine, e siamo tormentati in questo soltanto, che
viviamo nel desiderio (di conseguire la visione
beatifica di Dio) destinato a restare inappagato". |
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I
chiarimenti che dà qui Virgilio, prevenendo la domanda
del suo discepolo e quasi intuendone lo smarrimento
hanno uno sviluppo nobilmente didascalico e si
concludono in un verso che sintetizza la condizione
degli spiriti privati della visione di Dio. Questo
verso, tuttavia, pur nella sua concisione, non ha nulla
della tensione drammatica che vibra in altri
endecasillabi della Commedia, nei quali la compattezza
della forma pare venire sedata dall'urgenza del
contenuto. Qui lo svolgimento logico è chiaro, riposato,
e il tono sentimentale che ad esso corrisponde è
anch'esso sereno, disteso. Se nelle parole di Virgilio
c'è nostalgia per il Bene Supremo, dal quale è destinato
ad essere per sempre lontano, questa nostalgia non ha
nulla di drammatico e si inquadra armoniosamente in
quello che deve apparire anzitutto come il discorso di
un "saggio". Solo se si considera questo verso a sé,
senza tener conto di quelli che precedono, si può vedere
in esso "un verso disperato". E' stato detto che le
parole di Virgilio si smorzano, nella definizione dello
stato delle anime nel limbo, come in un sospiro. "Ma,
come la tristezza di quelle anime è in certo modo
placata dalla consolante memoria di una vita terrena
vissuta senza peccato e dal confronto con i terribili
martiri infernali di cui sono esenti, così quel verso,
nel discorso e nel punto del discorso in cui si trova,
non esprime più che una dolente, ma composta e
consapevole rassegnazione."(Chimenz) |
43 |
Gran duol mi
prese al cor quando lo 'ntesi,
però che gente di molto valore
conobbi che 'n quel limbo eran sospesi. |
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43 |
Provai un
grande dolore nell’udire queste parole, poiché seppi che
alti ingegni (gente di molto valore) si trovavano in una
condizione intermedia fra la disperazione dei dannati e
la felicità dei beati in quell’orlo estremo (della
voragine infernale). |
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La terzina
rende esplicito quello che è il sentimento animatore di
tutto il canto. Più ancora che di pietà, si tratta di
"perplessità della ragione, che al tempo stesso avverte
la sua grandezza e la sua insufficienza, allorché non
l'assista il lume della Grazia, e alla fine s'arrende,
sebbene riluttante, al mistero del dogma" ( Sapegno) .
Il dolore del Poeta per la sorte degli "spiriti magni",
qui appena accennato, non è destinato ad assumere
neppure in seguito rilievo drammatico. Anzi, nella scena
dell'incontro con i poeti, Dante sarà tutto preso da un
sentimento opposto e soverchiante: la gioia di potersi
trovare in presenza dei grandi che hanno incarnato un
ideale di civiltà, da lui giudicato non più
raggiungibile. |
46 |
«Dimmi,
maestro mio, dimmi, segnore»,
comincia' io per volere esser certo
di quella fede che vince ogne errore: |
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46 |
Desiderando avere da lui la conferma (per volere esser
certo) delle verità di quella fede che è al di sopra di
qualsiasi dubbio, gli chiesi: "Dimmi, maestro, dimmi,
signore, |
49 |
«uscicci mai
alcuno, o per suo merto
o per altrui, che poi fosse beato?».
E quei che 'ntese il mio parlar coverto, |
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49 |
uscì mai
di qui alcuno, o per merito proprio o per merito altrui,
per assurgere poi alla beatitudine?" |
|
Dimmi.
maestro mio, dimmi, segnore:
modo particolarmente affettuoso in cui c'è come un'eco
del gran duol della terzina precedente. "La compassione
dello stato di Virgilio sentita da Dante rende ragione
di questo doppio titolo, ch'è una lode delicata e
pietosa."(Tommaseo) |
52 |
rispuose:
«Io era nuovo in questo stato,
quando ci vidi venire un possente,
con segno di vittoria coronato. |
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52 |
Ed egli,
che comprese il significato nascosto delle mie parole,
rispose: "Mi trovavo da poco in questa condizione,
quando vidi scendere quaggiù un potente (Cristo),
circonfuso dello splendore della sua divinità. |
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Un
possente, con segno di vittoria coronato: il Redentore
non è mai nominato nell'Inferno, ma la perifrasi, più
che trovare la sua spiegazione in un rispetto che resta
estraneo alla poesia di questo passo, mira a rendere,
velandolo di mistero, un carattere essenziale della
divinità: l'onnipotenza, la serenità con cui essa
esercita il suo impero anche là dove ostacoli
insormontabili si oppongono all'intervento degli uomini.
Quanto al segno di vittoria può essere o interpretato in
senso generico, come fa ad esempio il Boccaccio ("non mi
ricorda d'avere né udito né letto che segno di vittoria
Cristo si portasse al limbo, altro che lo splendore
della sua divinità" ), oppure riferito alle
rappresentazioni di Cristo trionfante nell'arte
figurativa medievale, in cui appare incoronato
dell'aureola crocifera", ossia dell'aureola traversata
dal segno della croce. Altri ancora ricollegano questo
verso a una frase del Vangelo apocrifo di Nicodemo ("e
il Signore pose la sua croce, che è segno di vittoria,
in mezzo all'inferno" ), e alla iconografia che ad essa
si ispira: il Figlio di Dio, visto come "re forte", come
un possente... coronato, calpesta le porte schiodate e
abbattute dell'inferno tenendo in mano la sua croce. |
55 |
Trasseci
l'ombra del primo parente,
d'Abèl suo figlio e quella di Noè,
di Moïsè legista e ubidente; |
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55 |
Portò via
di qui l’anima di Adamo, il capostipite del genere umano
(primo parente: primo genitore), quelle del figlio di
lui Abele e di Noè, quella del legislatore Mosè, sempre
sottomesso ai voleri di Dio; |
58 |
Abraàm
patrïarca e Davìd re,
Israèl con lo padre e co' suoi nati
e con Rachele, per cui tanto fé, |
|
58 |
e inoltre
portò via il patriarca Abramo e il re Davide, Giacobbe (Israèl)
col padre Isacco e i suoi dodici figli e la moglie
Rachele, per ottenere la mano della quale tanto si
adoperò; |
61 |
e altri
molti, e feceli beati.
E vo' che sappi che, dinanzi ad essi,
spiriti umani non eran salvati». |
|
61 |
e molti
altri ancora, e li rese beati; e voglio che tu sappia
che, prima di loro, nessun altro era salito in
paradiso". |
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L'elenco
dei protagonisti della storia del popolo eletto, resi
beati, inizia col capostipite Adamo per proseguire col
suo secondogenito, col patriarca scampato al diluvio
universale e a cui si deve il ripopolamento della terra,
col grande condottiero e legislatore, che sul Sinai ebbe
da Dio la rivelazione dei principii ai quali il suo
popolo avrebbe dovuto attenersi per trionfare sugli
avversari e raggiungere la Terra Promessa. Esso continua
con la figura del patriarca che non esitò, per obbedire
al Signore, a preparare il sacrificio del figlio Isacco,
del re guerriero e poeta, autore dei Salmi, che,
altrove, nella Divina Commedia è chiamato il cantor
dello Spirito Santo (Paradiso XX, 38) e sommo cantor del
sommo duce (Paradiso XXV, 72), di Isacco e del figlio
Giacobbe, che dopo la lotta con l'angelo (Genesi XXXII,
25-29) fu chiamato Israele ("forte con Dio"), dei dodici
capostipiti delle tribù d'Israele, di Rachele, andata
sposa a Giacobbe dopo che questi ebbe servito per
quattordici anni il padre di lei, Labano (Genesi XXIX,
18-30). |
64 |
Non
lasciavam l'andar perch' ei dicessi,
ma passavam la selva tuttavia,
la selva, dico, di spiriti spessi. |
|
64 |
Per il
fatto che egli parlasse non interrompevamo il nostro
procedere, continuando ad aprirci un varco nella selva,
nella selva, intendo, costituita da un numero sterminato
di anime vicinissime le une alle altre. |
67 |
Non era
lunga ancor la nostra via
di qua dal sonno, quand' io vidi un foco
ch'emisperio di tenebre vincia. |
|
67 |
Non
avevamo ancora percorso molta strada dal margine più
alto del cerchio, quando vidi una sorgente di luce che
per mezzo cerchio intorno a sé dissipava le tenebre. |
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Ch'emisperio
di tenebre vincìa:
L'espressione risulta figurativamente e poeticamente più
persuasiva se si da a vincìa il significato di
"vinceva", invece che di "avvinceva", "legava", come
vogliono taluni interpreti, e si pone quindi, come
soggetto, foco invece che emisperio. Questa
interpretazione tiene conto del modo di sentire del
Poeta, della sua emozione "colma del pathos
dell'intelligenza e concorde istintivamente con la
vulgata metafora che parla di luce dell'ingegno e di
tenebre dell'ignoranza ( fede dunque, nei grandi uomini
della scienza e della poesia che appaiono come una
luminosa visione, un'accolta capace di dissipare e
vincere con la luce della cultura le simboliche tenebre
della barbarie)"(Getto). |
70 |
Di lungi
n'eravamo ancora un poco,
ma non sì ch'io non discernessi in parte
ch'orrevol gente possedea quel loco. |
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70 |
Ci
trovavamo ancora un poco lontani da questa sorgente di
luce, non tanto tuttavia, che io non potessi intuire che
una schiera di anime degne di onore occupava quel posto. |
73 |
«O tu
ch'onori scïenzïa e arte,
questi chi son c'hanno cotanta onranza,
che dal modo de li altri li diparte?». |
|
73 |
"O tu che
onori scienza e arte, chi sono costoro che hanno tanta
dignità, che li distingue dalla condizione degli altri?" |
76 |
E quelli a
me: «L'onrata nominanza
che di lor suona sù ne la tua vita,
grazïa acquista in ciel che sì li avanza». |
|
76 |
E Virgilio
a me: "La fama onorevole di cui godono nel mondo dei
vivi, ottiene (per essi) un particolare favore presso
Dio che conferisce loro un tale privilegio. |
79 |
Intanto voce
fu per me udita:
«Onorate l'altissimo poeta;
l'ombra sua torna, ch'era dipartita». |
|
79 |
In
quell’istante fu da me udita una voce: "Onorate il
sublime poeta: la sua anima, che si era allontanata,
torna fra noi ", |
|
Onorate
l'altissimo poeta:
la parola "onore" e quelle da essa
derivate ritornano con singolare frequenza in questi
versi, quasi a ribadire il carattere di entusiastica,
celebrazione che l'incontro coi poeti riveste, Questa è
una delle pagine della Commedia ove più compiutamente si
esprime la venerazione, quasi religiosa, che Dante aveva
per i supremi valori dell'intelligenza, oltre ai quali
non è dato all'uomo di alzarsi con le sole sue forze. |
82 |
Poi che la
voce fu restata e queta,
vidi quattro grand' ombre a noi venire:
sembianz' avevan né trista né lieta. |
|
82 |
Dopo che
la voce si arrestò e ci fu silenzio, vidi venire verso
di noi quattro ombre maestose: il loro aspetto non era
né triste né lieto. |
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Sembianza
avean né trista né lieta:
un antico commentatore spiega: "non erano tristi, perché
non aveano martirio; né lieti, perché non aveano
beatitudine" (Buti). Ma più che a precisare uno stato
d'animo, il verso serve a conferire a ciascuna delle
quattro grand'ombre l'aspetto tradizionale del saggio,
nel suo raccoglimento meditativo e solenne. |
85 |
Lo buon
maestro cominciò a dire:
«Mira colui con quella spada in mano,
che vien dinanzi ai tre sì come sire: |
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85 |
Virgilio
prese a dire: "Guarda, quello che ha in mano la spada, e
precede gli altri tre come un sovrano. |
88 |
quelli è
Omero poeta sovrano;
l'altro è Orazio satiro che vene;
Ovidio è 'l terzo, e l'ultimo Lucano. |
|
88 |
È Omero,
il sommo di tutti i poeti; dietro di lui viene Orazio,
poeta satirico; Ovidio è il terzo, e l’ultimo Lucano. |
|
Il
Momigliano ha indicato in questa scena una difformità,
sul piano della cultura e del gusto, tra lo spirito
umanistico che la pervade e i particolari in cui si
traduce, ancora medievali: "questo poeta che esce con
una spada in mano da un nobile castello, cerchiato da
sette mura per cui si entra da sette porte, è, nel
complesso, una figurazione lontana dal gusto antico; e
quello che c'è di fantastico nello scenario e quello che
in esso è infuso di allegorico, ci trasportano nel
Medioevo cavalleresco e simbolico".
Di Omero Dante aveva soltanto notizia indiretta, poiché
non conosceva il greco e non erano ancora state tradotte
in latino l'Iliade e l'Odissea.
Di Orazio apprezzava probabilmente, secondo il gusto
dell'epoca, soprattutto la produzione moraleggiante
(Satire ed Epistole); di Ovidio, vissuto a Roma ai tempi
di Augusto, come Orazio e Virgilio, dovevano essergli
care in particolar modo le Metamorfosi, da cui trasse
quasi tutte le sue conoscenze sull'antica mitologia.
Anneo Lucano fu poeta epico del periodo argenteo della
letteratura latina ed è considerato oggi un minore.
Diversa era l'opinione che di lui si aveva nel Medioevo. |
91 |
Però che
ciascun meco si convene
nel nome che sonò la voce sola,
fannomi onore, e di ciò fanno bene». |
|
91 |
Poiché
ciascuno si accomuna a me nell’appellativo di poeta
pronunciato poco fa da uno di loro (nel nome che sonò la
voce sola), mi tributano onore, e fanno bene a
tributarmelo (perché in me onorano la poesia)". |
94 |
Così vid' i'
adunar la bella scola
di quel segnor de l'altissimo canto
che sovra li altri com' aquila vola. |
|
94 |
Vidi così
adunarsi il bel gruppo guidato dal più eccelso dei poeti
epici, la cui poesia si leva come aquila al di sopra di
quella degli altri. |
97 |
Da ch'ebber
ragionato insieme alquanto,
volsersi a me con salutevol cenno,
e 'l mio maestro sorrise di tanto; |
|
97 |
Dopo aver parlato a lungo
tra loro, si volsero a me con un cenno di saluto; e
Virgilio sorrise per questo segno di onore: |
100 |
e più
d'onore ancora assai mi fenno,
ch'e' sì mi fecer de la loro schiera,
sì ch'io fui sesto tra cotanto senno. |
|
100 |
e mi onorarono ancora di
più, poiché mi accolsero nel loro gruppo, in modo che
diventai il sesto tra quei così grandi sapienti, |
103 |
Così andammo
infino a la lumera,
parlando cose che 'l tacere è bello,
sì com' era 'l parlar colà dov' era. |
|
103 |
Procedemmo
insieme fino alla zona luminosa, trattando argomenti di
cui (ora) è opportuno tacere, non meno di quanto fosse
conveniente parlarne nel luogo ove allora mi trovavo. |
106 |
Venimmo al
piè d'un nobile castello,
sette volte cerchiato d'alte mura,
difeso intorno d'un bel fiumicello. |
|
106 |
Giungemmo
ai piedi di un maestoso castello, circondato da sette
ordini di alte mura, protetto tutt’intorno da un
leggiadro corso d’acqua. |
109 |
Questo
passammo come terra dura;
per sette porte intrai con questi savi:
giugnemmo in prato di fresca verdura. |
|
109 |
Lo
attraversammo come se fosse stato di terra solida;
penetrai con quei sapienti (nel castello) attraverso
sette porte: arrivammo in un prato verde e fresco. |
|
Il
castello è stato concepito in funzione chiaramente
allegorica. Secondo Pietro di Dante, figlio del Poeta,
esso simboleggerebbe la filosofia, intesa genericamente
come sapienza; le sette mura corrisponderebbero alle
sette discipline in cui la filosofia era fatta
consistere: fisica, metafisica, etica, politica,
economia, matematica, dialettica. Secondo altri
commentatori antichi le sette mura indicherebbero le
sette arti liberali, oppure le quattro virtù cardinali e
le tre speculative (intelletto, scienza, sapienza). Di
meno agevole interpretazione appare il significato
allegorico del bel fiumicello. Forse l'opinione più
plausibile è quella del Sapegno, per il quale esso
simboleggia gli ostacoli che si oppongono all'acquisto
del sapere. |
112 |
Genti v'eran
con occhi tardi e gravi,
di grande autorità ne' lor sembianti:
parlavan rado, con voci soavi. |
|
112 |
Ivi erano
persone dagli sguardi pacati e dignitosi, di grande
autorità nel loro aspetto: scambiavano fra loro poche
parole, con persuasiva dolcezza. |
115 |
Traemmoci
così da l'un de' canti,
in loco aperto, luminoso e alto,
sì che veder si potien tutti quanti. |
|
115 |
Allora ci
portammo in uno degli angoli, in una radura, luminosa e
sovrastante il terreno circostante, in modo che (di qui)
era possibile abbracciare con lo sguardo tutti gli
spiriti (ivi raccolti). |
118 |
Colà
diritto, sovra 'l verde smalto,
mi fuor mostrati li spiriti magni,
che del vedere in me stesso m'essalto. |
|
118 |
Là
dirimpetto a me, sul verde compatto e brillante
dell’erba mi vennero indicati i grandi spiriti,
ripensando alla vista dei quali sento ancora il mio
animo esultare. |
121 |
I' vidi
Eletra con molti compagni,
tra ' quai conobbi Ettòr ed Enea,
Cesare armato con li occhi grifagni. |
|
121 |
Vidi
Elettra con molti dei suoi discendenti, fra i quali
riconobbi Ettore ed Enea, Giulio Cesare in armi e con
occhi sfavillanti come quelli di un uccello rapace. |
124 |
Vidi
Cammilla e la Pantasilea;
da l'altra parte vidi 'l re Latino
che con Lavina sua figlia sedea |
|
124 |
Vidi Camilla e Pentesilea;
dal lato opposto, vidi il re Latino che sedeva accanto a
sua figlia Lavinia. |
127 |
Vidi quel
Bruto che cacciò Tarquino,
Lucrezia, Iulia, Marzïa e Corniglia;
e solo, in parte, vidi 'l Saladino. |
|
127 |
Vidi quel
Bruto che cacciò Tarquinio, Lucrezia, Giulia, Marzia e
Cornelia: e isolato, in disparte, vidi il Saladino. |
|
Il primo
gruppo di "spiriti magni" è costituito in prevalenza da
eroi e personaggi storici i cui nomi sono stati
tramandati dai grandi scrittori dell'antichità.
L'ammirazione che Dante prova per questi ultimi si
estende a tutti i personaggi che, per virtù di poesia,
grandeggiano nei loro scritti. Osserva in proposito il
Getto: "qui si afferma incondizionato il sentimento
dell'aristocrazia della cultura e della nobiltà che
all'uomo deriva dagli studi e dalla poesia (non solo
quando attivamente li coltivi, ma ancora quando divenga
oggetto di quegli studi e di quella poesia: tale è
infatti la giustificazione della presenza nel nobile
castello di personaggi leggendari o politici come Ettore
o Bruto)". Elettra fu progenitrice della stirpe troiana
e quindi dei Romani; Camilla e l'eroina italica morta
nella guerra che seguì all'insediamento dei Troiani nel
Lazio, e di cui è già stata fatta menzione alla fine del
canto primo (verso 107). Pentesilea è la mitica regina
delle Amazzoni uccisa da Achille. È ricordata
nell'Eneide (1, 490 sgg.), dove Latino e sua figlia
Lavinia (promessa a Turno, re dei Rutuli, sposò poi
Enea; questo matrimonio scatenò la guerra fra Troiani e
Italici) sono personaggi di primo piano. Il primo
personaggio storico dell'elenco è il creatore
dell'impero romano, Giulio Cesare, " primo prencipe
sommo (Convivio IV, V, 12 ), visto in un verso di
straordinario rilievo come il prototipo del guerriero.
Accanto a lui sono i due eroi più valorosi dell'antica
Troia. Bruto fu il fondatore della Repubblica romana,
dopo aver scacciato l'ultimo re, Tarquinio il Superbo, e
Lucrezia la donna per vendicare l'onore della quale
Bruto, con Collatino, capeggiò la rivolta contro i
Tarquini. Giulia fu figlia di Giulio Cesare e moglie di
Pompeo, Marzia moglie di Catone Uticense, uccisosi in
seguito alla sconfitta del partito pompeiano in Africa
ad opera di Cesare, Cornelia madre di Tiberio e Caio
Gracco.
La rassegna si conclude, dopo questo elenco di figure
del periodo repubblicano, con un verso divenuto celebre
non meno di quello che caratterizza Cesare. In esso
Salah-ed-Din, sultano d'Egitto dal 1174 al 1193,
celebrato dagli scrittori del Medioevo come principe di
grande liberalità e giustizia, appare solo e in
disparte. Il suo isolamento, dovuto al fatto che è di
altra stirpe e di altra religione, conferisce alla sua
figura, nel quadro di questa enumerazione, proporzioni
eroiche. E' solo un accenno, ma il verso si arricchisce
di risonanze segrete, se ripensiamo all'isolamento in
cui grandeggiano altre figure eroiche nella Commedia
(come Farinata o Sordello). |
130 |
Poi
ch'innalzai un poco più le ciglia,
vidi 'l maestro di color che sanno
seder tra filosofica famiglia. |
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130 |
Dopo aver
sollevato un poco gli occhi (il gruppo dei filosofi e
degli scienziati si trova più in alto di quello degli
uomini d’azione), vidi Aristotile, il maestro dei
sapienti, seduto in mezzo ad altri filosofi. |
133 |
Tutti lo
miran, tutti onor li fanno:
quivi vid' ïo Socrate e Platone,
che 'nnanzi a li altri più presso li stanno; |
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133 |
Tutti
hanno gli occhi fissi su di lui. tutti gli rendono
onore: tra gli altri vidi Socrate e Platone, che, in
posizione preminente rispetto agli altri, sono a lui più
vicini; |
136 |
Democrito
che 'l mondo a caso pone,
Dïogenès, Anassagora e Tale,
Empedoclès, Eraclito e Zenone; |
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136 |
Democrito,
che attribuisce al caso la formazione del mondo,
Diogene, Anassagora e Talete, Empedocle, Eraclito e
Zenone; |
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Democrito,
filosofo greco del V-IV secolo a. C., sostenne la teoria
degli atomi che costituirebbero il mondo. Diogene il
Cinico (V-IV secolo a. C.) invece predicò il disprezzo
dei beni materiali. Anassagora, Talete, Empedocle,
Eraclito, Zenone furono esponenti del pensiero
filosofico presocratito. |
139 |
e vidi il
buono accoglitor del quale,
Dïascoride dico; e vidi Orfeo,
Tulïo e Lino e Seneca morale; |
|
139 |
e vidi il
sagace classificatore delle qualità (delle erbe),
intendo dire Dioscoride; e vidi Orfeo, Tullio Cicerone e
Lino e Seneca, autore di scritti di morale; |
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Dioscoride
( I secolo d. C. ) scrisse un trattato sulle qualità
delle erbe. Orfeo e Lino sono mitiche figure di poeti
greci Seneca è il famoso scrittore romano del I secolo
d.C. |
142 |
Euclide
geomètra e Tolomeo,
Ipocràte, Avicenna e Galïeno,
Averoìs, che 'l gran comento feo |
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142 |
Euclide
geometra e Tolomeo, Ippocrate, Avicenna e Galeno,
Averroè, autore del grande commento. |
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Euclide (IV-III
secolo a. C.) fu ritenuto il più grande geometra
dell'antichità. Di fama identica godettero, nel campo
dell'astronomia, Tolomeo ( I-II secolo d. C. ), nel
campo della medicina, Ippocrate e Galeno. L'arabo
Avicenna, morto nel 1036, fu famoso per la sua scienza
medica e filosofica. Averroè, morto nel 1198, anch'egli
medico e filosofo, fu considerato " il commentatore "
per antonomasia, di Aristotile durante tutto il
Medioevo, il quale conobbe le opere del grande pensatore
greco attraverso le traduzioni arabe e i commenti di
Averroè. |
145 |
Io non posso
ritrar di tutti a pieno,
però che sì mi caccia il lungo tema,
che molte volte al fatto il dir vien meno. |
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145 |
Non posso
riferire su tutti in modo esauriente, poiché la
lunghezza dell’argomento (che devo trattare) mi
sollecita a tal punto, che spesso il mio racconto è
insufficiente rispetto al grande numero di eventi da
narrare. |
148 |
La sesta
compagnia in due si scema:
per altra via mi mena il savio duca,
fuor de la queta, ne l'aura che trema. |
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148 |
La schiera
dei sei poeti diminuisce dividendosi in due gruppi: la
mia saggia guida mi conduce per un cammino diverso,
fuori dell’aria immobile (del castello), nell’aria
tremante (per i sospiri delle anime); |
151 |
E vegno in
parte ove non è che luca. |
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151 |
e giungo
in un punto dove, non c’è traccia di luce. |
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