IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

DIVINA COMMEDIA

 
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 DIVINA COMMEDIA: PARAFRASI INFERNO CANTO V°

1 Così discesi del cerchio primaio
giù nel secondo, che men loco cinghia
e tanto più dolor, che punge a guaio.
  1 Scesi dunque dal primo nel secondo cerchio, che contiene in sé meno spazio (essendo la sua circonferenza più piccola), ma una pena tanto più crudele, che spinge a lamentarsi.
 

L'inferno dantesco ha la forma di un imbuto: i cerchi sono tanto più stretti quanto più sono vicini al centro della terra, occupato da Lucifero. A mano a mano che il loro diametro decresce, aumenta la gravità dei peccati che in essi vengono puniti.

4 Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l'intrata;
giudica e manda secondo ch'avvinghia.
  4 Ivi si trova Minosse in atteggiamento terrificante, e ringhia: valuta, all’ingresso del cerchio, le colpe (dei peccatori); li giudica e li destina (ai rispettivi luoghi di punizione) a seconda del numero di volte che attorciglia (la coda intorno al proprio corpo).
7 Dico che quando l'anima mal nata
li vien dinanzi, tutta si confessa;
e quel conoscitor de le peccata
  7 Voglio dire che quando l’anima sciagurata si presenta al suo cospetto, rivela tutto di sé; e quel giudice dei peccati
10 vede qual loco d'inferno è da essa;
cignesi con la coda tante volte
quantunque gradi vuol che giù sia messa.
  10 comprende quale parte dell’inferno si addice ad essa; si avvolge con la coda tante volte per quanti cerchi infernali vuole che venga precipitata in basso.
13 Sempre dinanzi a lui ne stanno molte:
vanno a vicenda ciascuna al giudizio,
dicono e odono e poi son giù volte.
  13 Davanti a lui ve ne sono sempre in gran numero: le une dopo le altre si sottopongono ciascuna al suo giudizio; si confessano e ascoltano (la sentenza), e poi vengono travolte nell’abisso.
 

Minòs: mitico re di Creta, che nel sesto libro dell'Eneide (versi 432-433) giudica le anime dei trapassati. La scena delle anime davanti a Minosse ha, nella sua straordinaria concisione, una tragica grandiosità. Il Momigliano ha visto, in questa figura di belva giudicante, "una stupenda fusione di maestà e di grottesco", rilevando, tra l'altro, nella contaminazione, che si ritrova in tutti i guardiani infernali, di elementi desunti dalla mitologia classica con elementi cristiani, una solidità di figurazione che "toglie ogni impressione anacronistica, come l'unità della composizione impedisce di vedere una stonatura nei vestiti o negli sfondi architettonici moderni dei quadri sacri o classici del Rinascimento". Da notare, anche, come l'incalzante rapidità del giudizio di Minosse si concreti in una particolare struttura del verso ( il verbo in posizione privilegiata: stavvi... giudica... vede... cignesi... vanno... dicono). Ma tutte queste osservazioni rischiano di essere inutili se non ci aiutano a cogliere il significato più profondo di queste terzine, che è quello di una brutale, spasmodica, insensata messa in scena. Il vero giudizio è già avvenuto in cielo. Qui non ne è possibile se non una sorta di grottesca contraffazione.

16 «O tu che vieni al doloroso ospizio»,
disse Minòs a me quando mi vide,
lasciando l'atto di cotanto offizio,
  16 "O tu che giungi alla dimora del dolore", disse Minosse a me quando si accorse della mia presenza, interrompendo l’esercizio della sua così alta funzione,
19 «guarda com' entri e di cui tu ti fide;
non t'inganni l'ampiezza de l'intrare!».
E 'l duca mio a lui: «Perché pur gride?
  19 "considera attentamente il modo in cui stai per entrare (se hai cioè i meriti necessari per compiere incolume il viaggio nell’inferno) e colui in cui riponi la tua fiducia (Virgilio non è un’anima redenta): non lasciarti trarre in inganno dalla larghezza dell’ingresso!" E Virgilio di rimando: " Perché ti affatichi a gridare?
22 Non impedir lo suo fatale andare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare».
  22 Non ostacolare il suo viaggio predestinato: si vuole così là dove si può fare tutto ciò che si vuole, e non chiedere altro".
  Virgilio ripete a Minosse la formula già usata nel canto III, versi 95-96.
25 Or incomincian le dolenti note
a farmisi sentire; or son venuto
là dove molto pianto mi percuote.
  25 A questo punto cominciano a farsi sentire le voci del dolore; ora sono arrivato là dove molti pianti colpiscono il mio udito.
28 Io venni in loco d'ogne luce muto,
che mugghia come fa mar per tempesta,
se da contrari venti è combattuto.
  28 Giunsi in un posto privo d’ogni chiarore, che rumoreggia come un mare in tempesta, sotto la furia di venti contrari.
31 La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta.
  31 La tempesta di questo cerchio dell’inferno, destinata a non avere mai tregua, trascina le anime con impeto travolgente: le tormenta facendole vorticare (in tutti i sensi) e facendole cozzare (fra loro ).
34 Quando giungon davanti a la ruina,
quivi le strida, il compianto, il lamento;
bestemmian quivi la virtù divina.
  34 Quando giungono davanti alla rupe franata, qui prorompono in grida, in pianto unanime, in lamenti; bestemmiano qui la potenza di Dio.
 

Quando giungon davanti alla ruina: il termine ruina indica lo scoscendimento attraverso il quale le anime, dopo la sentenza di Minosse, cadono, precipitando dall'alto, nel cerchio.

37 Intesi ch'a così fatto tormento
enno dannati i peccator carnali,
che la ragion sommettono al talento.
  37 Compresi che a una siffatta pena sono condannati i lussuriosi, che sottomettono la ragione alla passione.
 

Il Poeta stesso ci avverte di aver intuito il significato che si adombra nel contrappasso della bufera. Tale precisazione non è affatto superflua a questo punto del canto, dal momento che "il nodo drammatico che dà vita a tutto l'episodio, ossia lo stretto legame che allaccia tra loro indissolubilmente la passione carnale, il peccato e l'eterno tormento della bufera, è messo in luce, per la prima volta, proprio attraverso questa inequivocabile denuncia, da parte del Poeta, della sostanza violenta e sovvertitrice di quella passione, dell'arbitrio, cristianamente inammissibile, che l'istinto esercita per essa sull'intelletto" ( Caretti ).
Enno dannati i peeeator carnali: San Gregorio Magno aveva considerato i peccati "carnali" (lussuria, gola, avarizia, ira, accidia) meno gravi di quelli "spirituali". San Tommaso aveva dato a questa valutazione un fondamento teorico. Anche nell'inferno dantesco i peccati "carnali", dovuti a semplice incontinenza, precedono, in rapporto alla loro gravità e al posto in cui sono puniti (i primi quattro cerchi dopo il limbo), quelli "spirituali", dovuti a consapevole malizia.

40 E come li stornei ne portan l'ali
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
così quel fiato li spiriti mali
  40 E come le ali portano nella stagione invernale gli stornelli, che si dispongono in gruppi ora diradati ora compatti, così da quel vento le anime perverse
43 di qua, di là, di giù, di sù li mena;
nulla speranza li conforta mai,
non che di posa, ma di minor pena.
  43 sono trascinate di qua, di là, in basso, in alto; mai nessuna speranza, non solo di una cessazione temporanea, ma nemmeno di un castigo alleviato, è loro di conforto.
46 E come i gru van cantando lor lai,
faccendo in aere di sé lunga riga,
così vid' io venir, traendo guai,
  46 E come le gru sono solite intonare i loro lamenti, quando solcano l’aria in lunghe file, così vidi avvicinarsi, emettendo gemiti,
49 ombre portate da la detta briga;
per ch'i' dissi: «Maestro, chi son quelle
genti che l'aura nera sì gastiga?».
  49 le anime portate dal turbine sopra menzionato: per questo dissi: "Chi sono mai, maestro, quegli spiriti che il vento buio in tal modo punisce?"
 

La similitudine degli stornelli e quella delle gru hanno una singolare analogia d'impianto, pur differendo l'una dall'altra per la funzione che esplicano. "Come nella prima similitudine, infatti, l'elemento comune, che avvicina, agli occhi del Poeta, gli stornai agli spiriti mali, non è tanto l'andare, gli uni e gli altri, in schiera larga e piena, quanto piuttosto il particolare modo con cui improvvisamente s'impennano nel volo; così nella seconda l'elemento che accomuna le gru alle ombre non è tanto quel procedere nell'aria "faccenda di sì lunga riga ", quanto piuttosto l'identico lamento, la stessa eco lacrimosa che uccelli e spiriti lasciano dietro di sé, nella loro scia."(Caretti)

52 «La prima di color di cui novelle
tu vuo' saper», mi disse quelli allotta,
«fu imperadrice di molte favelle.
  52 "La prima di quelle anime di cui tu mi chiedi notizia" mi rispose allora Virgilio, "regnò su molti popoli di lingua diversa.
55 A vizio di lussuria fu sì rotta,
che libito fé licito in sua legge,
per tòrre il biasmo in che era condotta.
  55 Fu a tal punto dedita alla lussuria, che dichiarò, sotto le sue leggi, permesso ciò che a ciascuno piacesse, per cancellare la riprovazione in cui era incorsa.
58 Ell' è Semiramìs, di cui si legge
che succedette a Nino e fu sua sposa:
tenne la terra che 'l Soldan corregge.
  58 E’ Semiramide, di cui le storie narrano che fu sposa di Nino, cui succedette (sul trono): fu sovrana della regione che attualmente il sultano governa,
 

Semiramide, regina degli Assiri nel XIV o Xlll secolo a. C., è citata da tutti gli storiografi medievali come esempio di assoluta immoralità. Il Sultano era, ai tempi di Dante, sovrano dell'Egitto. Il Poeta scambia qui probabilmente la Babilonia assira con quella egiziana (l'attuale il Cairo).

61 L'altra è colei che s'ancise amorosa,
e ruppe fede al cener di Sicheo;
poi è Cleopatràs lussurïosa.
  61

L’altra è Didone, che si tolse la vita, per amore, e non rimase fedele al marito morto, Sicheo, e c’e anche la lussuriosa Cleopatra.

 

Narra Virgilio nei quarto libro dell'Eneide che Didone, innamoratasi di Enea, infranse il giuramento di fedeltà fatto sulla tomba del marito, e che, in seguito all'abbandono da parte dell'eroe troiano, si uccise.
Cleopatra, regina d'Egitto, riuscì a fare innamorare di se Giulio Cesare e, dopo la morte di questi, il tribuno Marco Antonio.

64 Elena vedi, per cui tanto reo
tempo si volse, e vedi 'l grande Achille,
che con amore al fine combatteo.
  64 Guarda Elena, a causa della quale trascorsero tanti anni luttuosi, e guarda il famoso Achille, che alla fine ebbe per avversario amore.
 

Per Elena, moglie di Menelao, fuggita a Troia con Paride, si scatenò la guerra, durata dieci anni, tra Greci e Troiani. Secondo una leggenda, ella sarebbe stata uccisa da una donna, che, in tal modo, avrebbe inteso vendicare la morte del marito avvenuta in battaglia. Un'altra leggenda narra che Achille, preso da amore per Polissena, figlia di Priamo, re dei Troiani, e recatosi a celebrare le nozze con lei, fu ucciso in un'imboscata da Paride.

67 Vedi Parìs, Tristano»; e più di mille
ombre mostrommi e nominommi a dito,
ch'amor di nostra vita dipartille.
  67 Guarda Paride, Tristano"; e mi indicò più di mille anime, facendo i nomi di persone che amore strappò alla vita.
 

Vedi Paris, Tristano: il rapitore di Elena morì per mano di Filottete, un guerriero greco; Tristano, cavaliere della Tavola Rotonda, innamoratosi di Isotta, moglie di suo zio Marco, re di Cornovaglia, fu da costui ucciso. La rassegna degli eroi morti per amore non rappresenta una digressione rispetto a quello che sarà il tema dominante dell'ultima parte del canto, anzi lo prepara e gli dà un naturalissimo avvio.

70 Poscia ch'io ebbi 'l mio dottore udito
nomar le donne antiche e ' cavalieri,
pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.
  70 Dopo aver ascoltato il mio maestro in quella lunga rassegna di donne ed eroi dell’antichità, fui colto da compassione, e fui sul punto di perdere i sensi.
 

Pietà mi giunse: sul valore da attribuire a pietà (una delle due "parole-tema" dell'episodio che sta per cominciare; l'altra è amore) hanno scritto a lungo i critici. Per il Foscolo e il De Sanctis il termine sarebbe qui usato nella sua accezione più consueta. Esso designerebbe la "compassione" di Dante per i peccatori e quindi anche, implicitamente, la sua "comprensione" per le ragioni che li hanno indotti a peccare. Il Sapegno, in ciò più attento alla ispirazione etico-religiosa del poema, interpreta la pietà di Dante come "turbamento, che nasce dalla considerazione delle terribili conseguenze del peccato"; esso "non importa comunque mai da parte di Dante un atteggiamento di adesione e di compartecipazione e non attenua in nessun modo la recisa condanna morale".
I dannati del secondo cerchio sono tutti, per usare un'espressione dello stesso Dante, gente di molto valore, anime nobili. E' questo un particolare che può aiutarci ad intendere, nella loro origine contraddittoria e sfumata, i motivi dello "smarrimento" del Poeta.

73 I' cominciai: «Poeta, volontieri
parlerei a quei due che 'nsieme vanno,
e paion sì al vento esser leggieri».
  73 Presi a dire: "Poeta, desidererei parlare con quei due che procedono uniti, e che sembrano opporre così debole resistenza al vento".
 

Quei due che 'nsieme vanno: sono Francesca, figlia di Guido da Polenta, signore di Ravenna, e Paolo Malatesta. Poco dopo il 1275 Francesca sposò, con un matrimonio dettato da ragioni soltanto politiche, Gianciotto Malatesta, signore di Rimini e uomo rozzo e deforme. Si innamorò poi del giovane e avvenente Paolo, fratello del marito, e ne fu ricambiata. Allorché Gianciotto li sorprese, li uccise entrambi. L'eco della tragedia, avvenuta fra il 1283 e il 1285, doveva essere ancora viva quando Dante fu generosamente accolto a Ravenna, negli ultimi anni della sua vita, da Guido Novello, nipote di Guido il Vecchio da Polenta.

E paion sì al vento esser leggieri: sul significato da attribuire alla minor resistenza che Paolo e Francesca oppongono alla bufera infernale, i pareri sono discordi. Alcuni vedono in questo particolare un alleggerimento della pena, altri un aggravamento di essa, perché i due sarebbero con più violenza trascinati dal turbine. Il quesito è di quelli che rischiano di rimanere insoluti. Ma se, anziché considerare in astratto il castigo dei due cognati, volgiamo la nostra attenzione ai modi in cui il Poeta ce lo rappresenta, a quella "leggerezza di toni e poi di sentimenti, un poco stilizzata com'è della poesia giovanile di Dante e del suo stilnovismo" (Gallardo), allora le interpretazioni "romantiche" (alleggerimento della pena) sembrano più legittime di quelle strettamente "dottrinali".

76 Ed elli a me: «Vedrai quando saranno
più presso a noi; e tu allor li priega
per quello amor che i mena, ed ei verranno».
  76 E Virgilio: "Farai attenzione al momento in cui ci saranno più vicini; e tu allora pregali in nome di quell’amore che li conduce, ed essi verranno".
79 Sì tosto come il vento a noi li piega,
mossi la voce: «O anime affannate,
venite a noi parlar, s'altri nol niega!».
  79 Non appena il vento li volse verso di noi, dissi: "O anime tormentate, venite a parlarci, se qualcuno (Dio) non lo vieta!"
82 Quali colombe dal disio chiamate
con l'ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l'aere, dal voler portate;
  82 Come le colombe, ubbidendo all’impulso amoroso, si dirigono nel cielo verso l’amato nido, planando con le ali spiegate e immobili, portate dal desiderio,
85 cotali uscir de la schiera ov' è Dido,
a noi venendo per l'aere maligno,
sì forte fu l'affettüoso grido.
  85 così esse uscirono dalla schiera delle anime di cui fa parte anche Didone, venendo verso noi attraverso l’aria infernale, tanto efficace era stata la mia ardente preghiera.
 

Quali colombe, dal disio chiamate: la similitudine ne ricorda due di Virgilio (Eneide canto V, versi 213-217; canto VI, versi 190-192), ma mentre nel poeta latino le colombe non sono che "graziose colombe", qui esse paiono invece "animate da una volontà quasi umana"(Parodi).

88 «O animal grazïoso e benigno
che visitando vai per l'aere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,
  88 "O uomo cortese e benevolo che attraverso l’aria buia vieni a trovare noi che (morendo) macchiammo il mondo col nostro sangue.
91 se fosse amico il re de l'universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi c'hai pietà del nostro mal perverso.
  91 se il re del creato ci fosse amico, noi lo pregheremmo di darti serenità, dal momento che provi compassione per il nostro atroce tormento.
 

Sulle prime parole di Francesca, cosi gentili e accorate, scrive il Momigliano, " pesa stancamente tutto il dolore di quella tragedia" e aggiunge che il verso 90 "solleva questo che fu, a quei tempi, un fatto di cronaca, all'altezza d'un esemplare eterno di sciagura".
La "preghiera condizionata" (De Sanctis) dei versi 91-93, in cui alla delicatezza dell'espressione Francesca indissolubilmente unisce la consapevolezza di essere esclusa da ogni forma di speranza (Dio, rifugio e sostegno per chi soffre, non dà ascolto ai reprobi), ha ispirato una delle più belle pagine del saggio dedicato a questo episodio dal Parodi: "Francesca, laggiù nell'inferno, dove la preghiera è vana e si tramuta in bestemmia, ad un tratto, alla voce di questo vivo che ha compassione del suo affanno, ripensa alle preghiere di quando era buona e pia, e si duole di non potergli con esse impetrare da Dio, - che cosa? - quello che a lei è negato per sempre e che implora con disperato lamento, la pace! Ma che sa ella se Dante abbia bisogno di pace? Eppure, mentre l'anima di lei è sconvolta da una bufera più violenta di quella che le rugge d'intorno, come potrebbero gli uomini tutti e le fiere e tutta intera la natura non struggersi della medesima angoscia?"

94 Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi,
mentre che 'l vento, come fa, ci tace.
  94 Ascolteremo e vi diremo quelle cose che vorrete dire e ascoltare, per tutto il tempo che la bufera, come fa (adesso), attenuerà la sua violenza,
97 Siede la terra dove nata fui
su la marina dove 'l Po discende
per aver pace co' seguaci sui.
  97 La città dove nacqui si stende sul litorale verso il quale discende il Po per trovare, coi suoi affluenti, quiete.
 

Nota il De Sanctis, a proposito del modo in cui Francesca sa animare della sua rassegnata e dolente femminilità anche i particolari di minor rilievo (come potrebbe essere, se la volgessimo nel linguaggio utilitario da noi usato quotidianamente, la precisazione topografica di questi versi), che ella "anche dicendo cose indifferenti, ci mette non so che [di] molle e soave, che rivela animo nobile e delicato". Il Parodi precisa il senso dell'immagine: "Anche il Po, che discende alla marina di Ravenna, e i "suoi seguaci", i fiumi che vanno con lui, pare a Francesca che anelino al momento d'aver pace, di scomparire, di dimenticarsi nel mare".

100 Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende.
  100 Amore, che rapidamente fa presa su un cuore nobile, si impadronì di Paolo per la mia bellezza fisica, bellezza di cui fui privata (quando venni uccisa); e l’intensità di questo amore fu tale, che ancora ne sono sopraffatta.
103 Amor, ch'a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m'abbandona.
  103 Amore, che non permette che chi è amato non ami a sua volta, mi sospinse con tanta forza a innamorarmi della bellezza di Paolo, che, come ben puoi vedere (dal fatto che siamo uniti), ancora mi lega a lui.
106 Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense».
Queste parole da lor ci fuor porte
  106 Amore ci portò a morire insieme: colui che ci ha tolto la vita è atteso nel cerchio dei traditori (la Caina è la zona del nono cerchio destinata ai traditori dei parenti)." Queste parole ci vennero rivolte da loro
 

Nella prima parte del discorso di Francesca a Dante non c'è neppure un accenno alla sua personale vicenda: protagonisti del dramma non furono due fragili esseri in preda alla passione, ma questa passione stessa, che li soggiogò fino al punto di privarli di ogni difesa, di ogni capacità di reagire. Osserva il Sapegno che Francesca si sforza di spiegare e giustificare la sua colpa, "sottraendo l'impulso primo del peccato ad una precisa responsabilità individuale, per trasferirlo sul piano di una forza trascendente e irresistibile: Amore".

E' strano che il Momigliano abbia tacciato queste parole di eccessiva enfasi, mentre il Vossler si è, al contrario, meravigliato che una donna possa esprimere la propria passione in cadenze così nette e decise, oltre che in accenni di indubbia crudezza. In realtà questa prima parte del discorso di Francesca ha una funzione essenziale nell'episodio: sia perché in essa le illusioni del tempo felice, in cui la vita pareva destinata a scorrere come "letteratura", non meno raffinata che ignara delle esigenze del dovere, sono messe continuamente a raffronto con la realtà che da esse è scaturita, sia perché è proprio questa apologia di Amore che pone Dante di fronte alla necessità di valutare, sul piano delle loro conseguenze, le teorie di cui si era fatto in gioventù il propugnatore.

109 Quand' io intesi quell' anime offense,
china' il viso, e tanto il tenni basso,
fin che 'l poeta mi disse: «Che pense».
  109 Udite quelle anime travagliate, abbassai io sguardo, e lo tenni abbassato tanto a lungo, che alla fine Virgilio mi chiese: "A cosa pensi?"
112 Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo!».
  112 Quando risposi, cominciai: "Ohimè, quanti teneri pensieri, quanto reciproco desiderio condusse costoro a peccare (al doloroso passo)!"
 

Al doloroso passo: "al passo dall'amore onesto al disonesto, e dalla fama all'infamia, e dalla vita alla morte" (Buti). La risposta di Dante è come il proseguimento della sua assorta meditazione e sembra essere rivolta non tanto a Virgilio quanto a se stesso. "Gli occupa l'anima uno sgomento attonito per il mistero della vita morale degli uomini, liberi di giudizio e di volontà, eppur destinati nell'arcano consiglio della Provvidenza, altri alle vittorie della volontà buona, altri alle disfatte della ragione consigliera impotente, altri alla redenzione del pentimento e altri alle cadute irreparabili. Il senso del mistero tanto più acuto e tormentoso si accoglie nel poeta credente, quanto più viva e la pietà per ciò che al corto vedere umano sembra ineluttabile. " (Rossi-Frascino)
Nel canto quinto Dante entra, per cosi dire, in uno stato di crisi, di perplessità, di lotta con se stesso. Completo, incontrastato era stato il suo disprezzo per gli ignavi, altrettanto netta la sua simpatia per i grandi spiriti del limbo. Ma la colpa dei due cognati non era di quelle che ripugnavano al suo senso dei valori. Tutta una lunga tradizione (la Cavalleria, i trovatori, la poesia dotta siciliana fiorita alla corte di Palermo sotto gli Svevi) aveva idealizzato l'amore. Dante medesimo aveva fatto parte della scuola poetica del dolce stil novo, per la quale la donna amata era un riflesso in terra della perfezione divina e un mezzo per ascendere al Bene Supremo, a Dio. Le tre terzine in cui Francesca proclama la ineluttabile forza di Amore, riecheggiano, nel pensiero e nello stile, i principii di questa scuola poetica. Ma qui, nell'episodio di Paolo e Francesca, il cor gentil e la donna angelicata da strumenti di elevazione si convertono in strumenti di peccato. Scrive il Croce: "I due non sono aiutati a resistere, ma anzi preparati a cedere, dal cor gentile, dai dolci pensieri, dai dolci sospiri, dalle sentenze della dottrina d'amore, ch'a nullo amato amar perdona; da tutto l'idealizzamento che dell'amore avevano fatto la poesia occitanica e quella dello stil novo, e dai ricordi e dall'esempio degli appassionati e nobili eroi ed eroine dei romanzi. E' questa l'insidia che li porta all'orto del baratro e ve li spinge dentro".

115 Poi mi rivolsi a loro e parla' io,
e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e pio.
  115 Poi, rivolto a loro, parlai, e dissi: "Francesca, le tue sofferenze mi rendono triste e pietoso fino alle lagrime.
118 Ma dimmi: al tempo d'i dolci sospiri,
a che e come concedette amore
che conosceste i dubbiosi disiri?».
  118 Però dimmi: quando la vostra passione si manifestava soltanto attraverso dolci sospiri, con quale indizio e in che modo Amore permise che l’uno conoscesse i sentimenti dell’altra, fino allora incerti d’essere corrisposti?"
 

Non è oziosa curiosità quella che ha spinto Dante a formulare questa domanda. Egli vuole chiarire, a sé e agli altri, il rapporto che corre tra nobiltà d'animo, delicatezza di sentimenti e peccato. L'uomo nuovo, da poco ridestatosi in lui, si erge a giudice dei giovanili entusiasmi che lo avevano portato ad identificare bellezza e bontà, finezza di animo e di modi e vita morale.

121 E quella a me: «Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa 'l tuo dottore.
  121 E Francesca "Nulla addolora maggiormente che ripensare ai momenti di gioia quando si è nel dolore; e di ciò è consapevole il tuo maestro.
124 Ma s'a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice.
  124 Ma se un così affettuoso interesse ti spinge a interrogarmi sul modo in cui si manifestò per la prima volta il nostro amore, farò come chi parla tra le lagrime.
 

Tu hai cotanto affetto: il De Sanctis rileva come qui la parola affetto non possa essere interpretata soltanto come sinonimo di "desiderio", secondo una spiegazione scolasticamente insensibile ai valori della poesia: "Quando Francesca, sforzando la grammatica, dice affetto, non è già il desiderio che Dante abbia di conoscere la sua storia che le si presenta immediatamente innanzi, ma l'affetto col quale esprime il suo desiderio... "

127 Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
  127 Noi leggevamo un giorno, per svago, la storia di Lancillotto e dell’amore che s’impadronì di lui: eravamo soli e non avevamo nulla da temere.
 

Lancillotto del Lago è l'eroe di uno dei più celebri romanzi francesi del ciclo brettone, che Dante ben conosceva. Nel romanzo si raccontano non solo le imprese militari di Lancillotto, ma anche il suo amore per Ginevra, moglie di re Artù.
Soli eravamo e sanza alcun sospetto: osserva il De Sanctis: "Chi mai fa quest'osservazione se non l'amore colpevole? Leggono una storia d'amore e non osano di guardarsi e temono che i loro sguardi tradiscano quello che l'uno sa dell'altro e l'uno nasconde all'altro; e quando in alcuni punti della lettura veggono un'allusione al loro stato... gli occhi immemori s'incontrano, né già osano di sostenerli e li riabbassano, e la coscienza di essersi traditi e il fremito della carne si rivela nel volto che si scolara".

130 Per più fïate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
  130 Più volte quella lettura fece incontrare i nostri sguardi, e ci fece impallidire; ma solo un passo ebbe ragione di ogni nostra resistenza.
133 Quando leggemmo il disïato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
  133 Quando leggemmo come la bocca desiderata (di Ginevra) fu baciata da un così nobile innamorato, Paolo, che mai sarà separato da me,
136 la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante».
  136 mi baciò, trepidante, la bocca. Galeotto fu il libro e chi lo scrisse: quel giorno non proseguimmo oltre nella sua lettura".
 

Nel romanzo brettone il siniscalco Galehaut esorta i due innamorati a rivelarsi il loro amore, spingendo Ginevra a baciare Lancillotto. Il libro, dunque, svolge per Paolo e Francesca il ruolo che nella vicenda narrata è assegnato a Galehaut.
Che mai da me non fia diviso: sempre il De Sanctis ha saputo stupendamente cogliere il senso disperato di questo inciso in tutta la sua tragica bellezza: "tra l'amante e il peccato si gitta in mezzo l'inferno, e il tempo felice si congiunge con la miseria, e quel momento d'oblio,` il peccato, non si cancella più, diviene l'eternità".

139 Mentre che l'uno spirto questo disse,
l'altro piangëa; sì che di pietade
io venni men così com' io morisse.
  139 Mentre una delle due anime diceva queste cose, l’altra (Paolo) piangeva, così che per la compassione perdetti i sensi non altrimenti che per morte:
142 E caddi come corpo morto cade.   142 e caddi come cade un corpo inanimato.
         

 

© 2009 - Luigi De Bellis