1 |
«Pape Satàn,
pape Satàn aleppe!»,
cominciò Pluto con la voce chioccia;
e quel savio gentil, che tutto seppe, |
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1 |
"Papé Satàn, papé Satàn aleppe!" prese
a gridare Pluto con voce rauca; e quel nobile saggio
(Virgilio), dalla sconfinata dottrina, |
|
Papé Satàn,
papé Satàn aleppe: discordi sono le
interpretazioni che i commentatori hanno dato a questo
verso. Per alcuni esso non avrebbe alcun significato
riferibile ad una lingua umana; le parole poste in bocca
a Pluto sarebbero un esempio del linguaggio dei diavoli,
incomprensibile per noi, se non addirittura suono privo
di qualsiasi significato, espressione di una mente
confusa e abbrutita. Il Momigliano, ad esempio. ritiene
che esse vogliano essere un segno dell'imbecillità a cui
riduce l'avidità della ricchezza". E' più probabile,
tuttavia, che esse significhino qualcosa come: "O
Satana, o Satana, Dio! " oppure: " O Satana, O Satana,
ahimè!" Infatti papae in latino è una interiezione di
meraviglia e aleph è la prima lettera dell'alfabeto
ebraico, che può essere quindi letta come se volesse
dire " primo principio" ( e quindi Dio), oppure, con
riferimento alle Lamentazioni attribuite a Geremia che
si aprono appunto con questa parola, come una
interiezione di dolore. |
4 |
disse per
confortarmi: «Non ti noccia
la tua paura; ché, poder ch'elli abbia,
non ci torrà lo scender questa roccia». |
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4 |
per rincuorarmi così mi
parlò: "Il tuo spavento non ti arrechi danno; infatti,
per quanto egli sia potente, non ci impedirà di scendere
(dal terzo al quarto cerchio) per questo dirupo. |
7 |
Poi si
rivolse a quella 'nfiata labbia,
e disse: «Taci, maladetto lupo!
consuma dentro te con la tua rabbia. |
|
7 |
Quindi, rivolto verso quel
tumido volto, disse: "Taci, maledetto demonio: struggiti
internamente per la rabbia. |
10 |
Non è sanza
cagion l'andare al cupo:
vuolsi ne l'alto, là dove Michele
fé la vendetta del superbo strupo». |
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10 |
Non senza motivo è la
nostra andata nella voragine infernale: così si vuole
nel cielo, là dove l’arcangelo Michele punì l’orgogliosa
ribellione (di Lucifero e dei suoi seguaci)". |
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Fe' la
vendetta del superbo strepo: più che derivare
dal latino medievale stropas (gregge), per cui starebbe
ad indicare la schiera degli angeli ribelli a Dio,
strupo sembra essere metatesi di "stupro", violenza
dovuta a desiderio smodato. Giova qui ricordare che
nelle pagine di un teologo del Medioevo, Scoto Eriugena,
il peccato degli angeli che si ribellarono a Dio e
definito "lussuria". Scrive lo Scoto che, per quanto la
lussuria propriamente detta riguardi soltanto gli atti
carnali, "tuttavia ogni brama smodata di qualcosa' di
piacevole, in quanto piacevole, può essere chiamata
lussuria", a meno che oggetto della brama non sia il
bene, il che non può dirsi certo sia avvenuto nel caso
della ribellione degli angeli: il loro desiderio di una
maggiore beatitudine si opponeva infatti ai voleri di
Dio. |
13 |
Quali dal
vento le gonfiate vele
caggiono avvolte, poi che l'alber fiacca,
tal cadde a terra la fiera crudele. |
|
13 |
Come le vele gonfiate dal vento cadono
(confusamente) avviluppate, se l’albero della nave si
spezza, così piombò a terra il mostro malvagio. |
|
La figura di Pluto suscita in chi
legge l'impressione di una massa enorme e amorfa e, sul
piano morale, quella di un furore ottuso e impotente.
Essa non ci viene infatti presentata dal Poeta
attraverso questo o quel particolare del suo aspetto
esteriore, come avviene per Caronte, ad esempio, e per
Minosse. Il carattere rissoso del traghettatore
dell'Acheronte è già tutto contenuto in una
determinazione come quella degli occhi di bragie, mentre
l'enigmatico conoscitor delle peccata del secondo
cerchio resta indissolubilmente legato nella nostra
memoria - all'atto bestiale - di avvolgere la coda, per
significare un giudizio dettato dalla più pura
razionalità. Scrive il Torraca, a proposito di Pluto:
"Enfiata labbia suggerisce, si, l'imagine di un gran
faccione, ma vanamente. Ma ecco le vele gonfiate dal
vento e l'albero della nave portar in questa
indeterminatezza qualche cosa di enorme, di
gigantesco..." Per quanto riguarda il significato morale
di questa inaspettata similitudine, un altro acuto
lettore del settimo canto, il Vallone, osserva come essa
racchiuda in sé l'intera vicenda di questo guardiano
infernale "protervo, bestemmiatore, superbo e poi
schiacciato umiliato e vinto'', e aggiunge
un'osservazione generale sull'umiliazione cui,
nell'inferno dantesco, le potenze del male soggiaciono
di fronte all'affermarsi della razionalità
chiarificatrice ( Virgilio ): "Forse il destino dei
diavoli è più inesorabilmente crudele di quello delle
anime malvagie che essi custodiscono. Queste, almeno, di
tanto in tanto, possono reagire, a loro modo e nella
loro misura, contro un potere ch'è a tutti superiore...
i diavol, vinti che siano e sempre son vinti, si
degradano a "poveri diavoli", arnesi di idiota
materia... |
16 |
Così
scendemmo ne la quarta lacca,
pigliando più de la dolente ripa
che 'l mal de l'universo tutto insacca. |
|
16 |
Scendemmo in tal modo
nella quarta fossa, percorrendo un altro tratto della
china dolorosa che contiene tutto il male dell’universo. |
19 |
Ahi
giustizia di Dio! tante chi stipa
nove travaglie e pene quant' io viddi?
e perché nostra colpa sì ne scipa? |
|
19 |
Ahimè,
giustizia di Dio! chi mai ammassa tanti inimmaginabili
supplizi e dolori, quanti io ne vidi? e perché l’umana
colpa a tal punto ci strazia? |
22 |
Come fa
l'onda là sovra Cariddi,
che si frange con quella in cui s'intoppa,
così convien che qui la gente riddi. |
|
22 |
Come (nello stretto di Messina) presso Cariddi le onde
(del mar Ionio) si infrangono cozzando contro quelle del
mar Tirreno, così necessariamente avviene che qui le
turbe ballino. |
|
Scrive il Marti, a proposito di questa grandiosa
similitudine, che Dante con essa ci suggerisce non già
un "urto di persone, di individui, ma urto di gente, di
masse informi: anonime superfici in movimento che si
infrangono reciprocamente l'una contro l'altra; vaste
chiazze brulicanti e semoventi, che tristemente
spumeggiano a quel loro pendolare scontrarsi. Nessuno
stacco fra le anime e i massi che esse voltano... la
figurazione è risolta in movimento ritmico, eterno e
sempre uguale, ma anche meccanico ed insensato, di
superfici e di colore"
Così convien che qui la gente
riddi: il richiamo alla ridda, ballo
circolare dal ritmo molto veloce, che in altra
circostanza evocherebbe una scena lieta, è qui
sarcastico e sferzante. |
25 |
Qui vid' i'
gente più ch'altrove troppa,
e d'una parte e d'altra, con grand' urli,
voltando pesi per forza di poppa. |
|
25 |
Qui vidi una moltitudine più numerosa che in altri
luoghi, la quale provenendo dall’uno e dall’altro lato
del cerchio rotolava pesi, spingendoli col petto ed
emettendo alti lamenti. |
28 |
Percotëansi
'ncontro; e poscia pur lì
si rivolgea ciascun, voltando a retro,
gridando: «Perché tieni?» e «Perché burli?». |
|
28 |
(Incontrandosi) cozzavano
gli uni contro gli altri; e poi, in quello stesso punto,
ognuno si volgeva indietro, rivoltando (anche il suo
peso), e urlava: "Perché conservi?" e "Perché sperperi?" |
|
La pena degli avari e dei prodighi ricorda quella di
Sisifo, oppure quella delle anime che nel Tartaro Enea
vede intente a rotolare enormi macigni (Eneide VI,
616-617). I pesi che essi spingono stanno a significare
probabilmente i mucchi di denaro che in vita passarono
per le loro mani. |
31 |
Così
tornavan per lo cerchio tetro
da ogne mano a l'opposito punto,
gridandosi anche loro ontoso metro; |
|
31 |
In tal maniera tornavano
indietro attraverso il cerchio tenebroso da entrambe le
direzioni fino al punto diametralmente opposto,
gridandosi di nuovo (anche) il loro ritornello
ingiurioso; |
34 |
poi si
volgea ciascun, quand' era giunto,
per lo suo mezzo cerchio a l'altra giostra.
E io, ch'avea lo cor quasi compunto, |
|
34 |
poi, una volta qui
arrivato, ciascuno tornava indietro, ripercorrendo il
suo semicerchio fino allo scontro successivo. |
37 |
dissi:
«Maestro mio, or mi dimostra
che gente è questa, e se tutti fuor cherci
questi chercuti a la sinistra nostra». |
|
37 |
E io, che mi sentivo quasi
turbato, dissi: "Maestro, spiegami ora quale moltitudine
è questa, e se costoro che sono alla nostra sinistra e
hanno la tonsura, furono tutti ecclesiastici". |
40 |
Ed elli a
me: «Tutti quanti fuor guerci
sì de la mente in la vita primaia,
che con misura nullo spendio ferci. |
|
40 |
Ed egli: "Tutti quanti
ebbero la mente così ottenebrata durante la vita in
terra (la vita primaia: la prima vita), che non fecero
alcuna spesa misuratamente. |
43 |
Assai la
voce lor chiaro l'abbaia,
quando vegnono a' due punti del cerchio
dove colpa contraria li dispaia. |
|
43 |
Le loro parole lo
dichiarano abbastanza esplicitamente, allorché giungono
nei due punti del cerchio dove i loro opposti peccati li
separano. |
|
Assai la voce lor chiaro
l'abbaia: il verbo "abbaiare", riferito alla
voce di quei dannati, aggiunge una caratteristica
disarmonica, scostante, alla descrizione, così esatta e
impietosa, della loro inumana fatica. Un antico
commentatore, il Lana, spiega l'uso di questo termine
con il disprezzo che il Poeta intenderebbe qui
manifestare nei confronti degli avari e dei prodighi,
trattandoli come se fossero cani. Tra i moderni, il
Grabher mette in rilievo "la sintetica potenza di abbaia
costruito transitivamente con l'accusativo lo e piegato
a riferirsi a voce umana. E' voce d'uomini che abbaia
parole; trasfigurata in qualcosa di non più umano e
quasi di bestiale". |
46 |
Questi fuor
cherci, che non han coperchio
piloso al capo, e papi e cardinali,
in cui usa avarizia il suo soperchio». |
|
46 |
Questi, che portano la
tonsura, furono ecclesiastici, e papi e cardinali, nei
quali l’avarizia si manifestò in modo eccessivo". |
49 |
E io:
«Maestro, tra questi cotali
dovre' io ben riconoscere alcuni
che furo immondi di cotesti mali». |
|
49 |
E io: "Fra costoro,
maestro, dovrei certo riconoscere qualcuno che si
macchiò di queste colpe". |
52 |
Ed elli a
me: «Vano pensiero aduni:
la sconoscente vita che i fé sozzi,
ad ogne conoscenza or li fa bruni. |
|
52 |
E Virgilio: "Accogli nella
tua mente un pensiero assurdo: la dissennata vita che li
rese turpi, li rende ora oscuri ad ogni tentativo di
riconoscerli. |
|
Come gli ignavi, così anche coloro che posero lo scopo
della loro vita nel denaro sono destinati a rimanere
anonimi nell'inferno di Dante. Il Poeta che ha vivo
l'interesse per le forti personalità e che non si stanca
mai di frugare, con curiosità insaziata, nell'animo
umano, non considera nemmeno degni di attenzione coloro
che tutto hanno sacrificato ad una divinità così
impersonale e vile qual è il denaro. Virgilio enuncia in
questa terzina una sorta di contrappasso morale:
l'anonimato si aggiunge, infatti, come una condanna
supplementare, ai tormenti corporali che affliggono
questi peccatori. |
55 |
In etterno
verranno a li due cozzi:
questi resurgeranno del sepulcro
col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi. |
|
55 |
Per l’eternità accorreranno ai due
punti per scontrarsi: gli uni risorgeranno dalla tomba
coi pugni chiusi, gli altri con i capelli recisi. |
|
Come già nel cerchio dei golosi, anche qui, in un
immagine allucinante e sinistra, il giorno del Giudizio
Universale si impone alla fantasia del Poeta: il pugno
chiuso degli avari denuncerà, alla fine dei tempi, il
loro interesse rivolto al solo possesso dei beni
materiali, mentre lo sperpero, che in vita li privò di
tutto, sarà simboleggiato nei prodighi dai loro capelli
recisi: come se il loro peccato li avesse privati anche
di quelli. |
58 |
Mal dare e
mal tener lo mondo pulcro
ha tolto loro, e posti a questa zuffa:
qual ella sia, parole non ci appulcro. |
|
58 |
Lo spendere e il risparmiare in misura
smodata li ha privati del paradiso, e condannati a
questa mischia: per farti capire di qual genere essa
sia, non c’è bisogno che io l’adorni di belle parole. |
|
Già nel Convivio (X-XIII) Dante aveva polemicamente
preso posizione contro coloro che attribuivano alle
ricchezze un valore formativo nella vita dell'uomo e,
opponendosi ad un parere espresso dall'imperatore
Federico II, aveva sostenuto che la vera nobiltà è una
qualità dell'animo, sulla quale non può in alcun modo
influire il possesso dei beni materiali, per loro natura
caduchi e incerti. Nella canzone "Doglia mi reca ne lo
core ardire", raccolta tra le sue Rime, viene
drammaticamente prospettata dal Poeta all'avaro
l'assurdità del suo cieco affannarsi: di fronte alla
morte tutte le sue fatiche sono inutili ("dimmi, che hai
tu fatto, cieco avaro disfatto? Rispondimi, se puoi
altro che nulla"). |
61 |
Or puoi,
figliuol, veder la corta buffa
d'i ben che son commessi a la fortuna,
per che l'umana gente si rabuffa; |
|
61 |
Puoi ora vedere, figlio,
quanto sia breve l’inganno dei beni che sono affidati
alla Fortuna, per i quali il genere umano si accapiglia; |
64 |
ché tutto
l'oro ch'è sotto la luna
e che già fu, di quest' anime stanche
non poterebbe farne posare una». |
|
64 |
poiché tutte le ricchezze
che sono e furono sulla terra, non potrebbero dar pace
neppure a una sola di queste anime affaticate". |
|
Nel presentare il tema della ricchezza
perturbatrice dell'animo umano Dante si è ispirato al De
consolazione philosophiae di Severino Boezio. In una
pagina del Convivio (IV, Xll, 7) e citato, nella
traduzione in volgare, il seguente passo del filosofo
latino: "Se quanta rena volve lo mare turbato dal vento,
se quante stelle rilucono, la dea de la ricchezza
largisca, l'umana generazione non cesserà di piangere".
Il Momigliano richiama, nel suo commento, l'attenzione
sulla funzione di pausa che hanno questi versi, tra la
parte del canto che descrive il duro tormento degli
avari e dei prodighi e quella in cui viene evocata, in
un'aura di estatico silenzio, la paradisiaca figura
della Fortuna. Essi infatti "suggellano il senso di
eternità ineluttabile che spira qua e là nella
rappresentazione della travagliosa giostra; e, non più
duri, ma ispirati da una pateticità solenne, lasciano
nel lettore, nel momento che il cerchio si allontana dal
suo sguardo, un'immagine pensosa che sfuma l'asprezza
dello spettacolo". |
67 |
«Maestro
mio», diss' io, «or mi dì anche:
questa fortuna di che tu mi tocche,
che è, che i ben del mondo ha sì tra branche?». |
|
67 |
"Maestro", dissi a
Virgilio, "spiegami ancora: questa Fortuna, di cui tu mi
fai cenno, cos’è mai, per poter tenere così tra i suoi
artigli i beni della terra?" |
70 |
E quelli a
me: «Oh creature sciocche,
quanta ignoranza è quella che v'offende!
Or vo' che tu mia sentenza ne 'mbocche. |
|
70 |
E Virgilio: "O esseri
stolti, quanto grande è l’ignoranza che vi arreca danno!
Voglio dunque che tu accolga la mia spiegazione (come il
bambino riceve in bocca il cibo ). |
|
Nella digressione che a questo punto interrompe la tesa
atmosfera del canto, e a proposito della quale più di un
critico si è richiamato alle serene atmosfere del
Paradiso, Dante espone, per bocca della sua guida nel
viaggio oltremondano, una sua personale concezione di
quella che gli antichi avevano immaginato come "la dea
bendata", modificando altresì il punto di vista già
manifestato nel Convivio, in un passo del quale la
distribuzione delle ricchezze era definita ingiusta:
"Dico che la loro imperfezione primamente si può notare
ne la indiscrezione del loro avvenimento, nel quale
nulla distributiva giustizia risplende, ma tutta
iniquitade quasi sempre, la quale iniquitade è proprio
effetto d'imperfezione" (IV, Xl, 6).
Qui invece la Fortuna, pur non identificandosi con la
Provvidenza di Dio, di cui è soltanto ministra, svolge
una funzione provvidenziale. La concezione di Dante è
nuova e profonda. |
73 |
Colui lo cui
saver tutto trascende,
fece li cieli e diè lor chi conduce
sì, ch'ogne parte ad ogne parte splende, |
|
73 |
Dio, la cui sapienza
oltrepassa ogni realtà, creò i cieli e assegnò a
ciascuno di loro una guida in modo che ogni gerarchia
angelica trasmette la luce al suo cielo, |
76 |
distribuendo
igualmente la luce.
Similemente a li splendor mondani
ordinò general ministra e duce |
|
76 |
distribuendola equamente:
allo stesso modo prepose a tutte le glorie del mondo una
guida che le amministrasse tutte e |
79 |
che
permutasse a tempo li ben vani
di gente in gente e d'uno in altro sangue,
oltre la difension d'i senni umani; |
|
79 |
che trasferisse a tempo
debito i beni perituri da un popolo all’altro e da una
stirpe all’altra, senza che la previdenza degli uomini
potesse a lei opporsi; |
|
Il senso di queste terzine si chiarisce se teniamo
presente che, nella cosmologia di Dante, ad ognuno dei
nove cieli mobili è assegnata da Dio, perché ne regoli
il moto, una gerarchia angelica (intelligenza motrice) .
La Fortuna è anch'essa un'intelligenza, ministra della
volontà di Dio ma, invece di presiedere ai movimenti di
un cielo, governa quelli dei ben vani della terra. |
82 |
per ch'una
gente impera e l'altra langue,
seguendo lo giudicio di costei,
che è occulto come in erba l'angue. |
|
82 |
per questo una nazione domina, mentre
un’altra si indebolisce, secondo la decisione da lei
presa, decisione che resta nascosta come il serpente
nell’erba. |
|
L'uso della parola dei per indicare le pure intelligenze
(sprovviste quindi di attributi sensibili ) motrici dei
cieli, si spiega con la funzione nobilitante che il
Poeta attribuisce di solito al vocabolo di origine
latina. L'impasto linguistico della Commedia, in cui il
termine comune è accostato di continuo a quello aulico o
dotto, traduce, sul piano dello stile, la dialettica del
temporale e dell'eterno, che rappresenta il fondamentale
motivo animatore dell'epos dantesco. |
85 |
Vostro saver
non ha contasto a lei:
questa provede, giudica, e persegue
suo regno come il loro li altri dèi. |
|
85 |
L’accortezza degli uomini
non può contrastare con lei: essa predispone, valuta (le
opportunità), e svolge da regina il suo incarico come le
intelligenze angeliche svolgono il loro. |
88 |
Le sue
permutazion non hanno triegue:
necessità la fa esser veloce;
sì spesso vien chi vicenda consegue. |
|
88 |
I cambiamenti da essa
causati si succedono senza sosta: il suo dovere verso
Dio l’obbliga ad operare rapidamente; perciò avviene
spesso che qualcuno muti il proprio stato. |
91 |
Quest' è
colei ch'è tanto posta in croce
pur da color che le dovrien dar lode,
dandole biasmo a torto e mala voce; |
|
91 |
Questa è colei che tanto è
avversata anche da coloro che dovrebbero elogiarla,
laddove invece la biasimano ingiustamente e la
denigrano; |
94 |
ma ella s'è
beata e ciò non ode:
con l'altre prime creature lieta
volve sua spera e beata si gode. |
|
94 |
ma essa se ne sta beata e
non li ascolta: serena, insieme alle intelligenze
angeliche, governa il moto della sua sfera e gode della
sua beatitudine. |
97 |
Or
discendiamo omai a maggior pieta;
già ogne stella cade che saliva
quand' io mi mossi, e 'l troppo star si vieta». |
|
97 |
Ma è tempo di
scendere ormai verso un dolore più grande; già ogni
stella che, quando venni in tuo aiuto, saliva in cielo,
tramonta e non ci è concesso un lungo indugio". |
|
Il Momigliano avverte acutamente la grande solennità
dell'accenno al cielo stellato che Virgilio fa qui, per
la prima volta, da quando i due poeti sono entrati nella
voragine infernale. Il Getto, dal canto suo, nota come
Dante sappia cogliere,"in quel declinare di stelle, in
quella inesorabile vicenda di astri che è la vicenda del
tempo'', il "solenne ritmo universale, e l'assorto
respiro... che ad esso si accompagna". |
100 |
Noi
ricidemmo il cerchio a l'altra riva
sovr' una fonte che bolle e riversa
per un fossato che da lei deriva. |
|
100 |
Attraversammo
il cerchio fino al margine opposto, all’altezza di una
sorgente che ribolle e si riversa in un fossato che da
essa deriva. |
103 |
L'acqua era
buia assai più che persa;
e noi, in compagnia de l'onde bige,
intrammo giù per una via diversa. |
|
103 |
L’acqua era più nera che
livida; e noi, insieme alle onde torbide, scendemmo nel
cerchio quinto attraverso un cammino malagevole. |
106 |
In la palude
va c'ha nome Stige
questo tristo ruscel, quand' è disceso
al piè de le maligne piagge grige. |
|
106 |
Questo triste ruscello
sfocia nella palude chiamata Stige, dopo essere sceso
fino alla base dei crudeli e foschi dirupi. |
|
Nel quinto cerchio il paesaggio e la atmosfera appaiono
profondamente diversi rispetto a quelli del cerchio
precedente; lo stile stesso della terzina dantesca ne
risente e non abbiamo più una sensazione di asperità, ma
di diffusa tristezza. A questa sensazione contribuiscono
le note coloristiche (buia.., bige... grige ). |
109 |
E io, che di
mirare stava inteso,
vidi genti fangose in quel pantano,
ignude tutte, con sembiante offeso. |
|
109 |
Ed io, che ero intento a
guardare, vidi in quella palude moltitudini imbrattate
di fango, tutte nude, con l’espressione crucciata. |
112 |
Queste si
percotean non pur con mano,
ma con la testa e col petto e coi piedi,
troncandosi co' denti a brano a brano. |
|
112 |
Questi peccatori si
colpivano l’un l’altro non solo con le mani, ma con la
testa e col petto e coi piedi, e si dilaniavano a pezzo
a pezzo coi denti. |
115 |
Lo buon
maestro disse: «Figlio, or vedi
l'anime di color cui vinse l'ira;
e anche vo' che tu per certo credi |
|
115 |
Virgilio disse: "Figlio,
puoi ora vedere gli spiriti di coloro che furono
sopraffatti dall’ira; e voglio che tu inoltre sappia |
118 |
che sotto
l'acqua è gente che sospira,
e fanno pullular quest' acqua al summo,
come l'occhio ti dice, u' che s'aggira. |
|
118 |
che sotto il pelo
dell’acqua vi sono dannati che sospirano, e fanno
gorgogliare quest’acqua alla superficie, come puoi
vedere, da qualunque parte tu guardi. |
121 |
Fitti nel
limo dicon: "Tristi fummo
ne l'aere dolce che dal sol s'allegra,
portando dentro accidïoso fummo: |
|
121 |
Immersi nella fanghiglia,
dicono: "Fummo malinconici nell’aria dolce allietata dal
sole, portando nel nostro animo la caligine
dell’accidia: |
124 |
or ci
attristiam ne la belletta negra".
Quest' inno si gorgoglian ne la strozza,
ché dir nol posson con parola integra». |
|
124 |
ora ci addoloriamo nella
nera melma". Si gorgogliano questo lamento (inno: qui in
senso ironico) in gola, perché non lo possono
pronunciare con parole chiare e complete". |
|
Secondo Pietro Alighieri nella palude stigia si
troverebbero gli iracondi e i superbi e, sotto di essi,
immersi interamente nel fango, gli accidiosi e gli
invidiosi. Questo parere non sembra tuttavia suffragato
da alcun richiamo al testo. Più plausibile è l'opinione
che alla superficie della palude si trovino gli "
iracondi acuti " ( la cui collera suole cioè prorompere
con impetuosa violenza), mentre immersi in essa
sarebbero gli accidiosi, che corrisponderebbero, in
questa partizione dantesca, agli "iracondi amari" di
Aristotile e San Tommaso. L'accidioso fummo starebbe
quindi ad indicare l'ira a lungo repressa. Il
contrappasso risulta evidente nel caso degli iracondi
acuti: il loro sbranarsi a vicenda esemplifica in modo
inequivocabile la passione dell'animo che li indusse a
compiere il male. Per gli iracondi amari la
corrispondenza tra pena e peccato potrebbe essere la
seguente: come in vita hanno soffocato dentro di se
l'ira, pur continuando ad alimentarla segretamente, così
ora sono soffocati dalla melma.
Quest'inno si gorgoglian nella strozza: nota il Grabber
come questa ardita immagine (vicina, per vigore
espressivo all'abbaia del verso 43) "fonde in un tutto
la voce umana e quella dell'acqua, che ne la strozza
soffoca le parole umane per trasformarle nel gorgogliare
dell'acqua stessa". |
127 |
Così girammo
de la lorda pozza
grand' arco, tra la ripa secca e 'l mézzo,
con li occhi vòlti a chi del fango ingozza. |
|
127 |
Costeggiammo così per
lungo tratto la sozza palude, tenendoci tra il pendio
asciutto e la melma, con lo sguardo rivolto a coloro che
ingurgitano fango: |
130 |
Venimmo al
piè d'una torre al da sezzo. |
|
130 |
giungemmo alla fine alla
base d’una torre. |