1 |
Io dico,
seguitando, ch'assai prima
che noi fossimo al piè de l'alta torre,
li occhi nostri n'andar suso a la cima |
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1 |
Proseguendo il mio racconto, dico che, molto prima di
giungere ai piedi dell’alta torre, i nostri sguardi si
diressero verso la sua sommità . |
4 |
per due
fiammette che i vedemmo porre,
e un'altra da lungi render cenno,
tanto ch'a pena il potea l'occhio tòrre. |
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4 |
attratti da due fiammelle
che vedemmo apparire lassù, e da un’altra che rispondeva
ai segnali da tanto lontano, che a stento il nostro
sguardo poteva distinguerla |
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In questo
canto, uno dei più ricchi di movimento di tutto il
poema, anche il paesaggio si anima, quasi ad incarnare
visibilmente lo stato di attesa e la trepidazione del
Poeta.
I segnali luminosi che, accendendosi nella notte
infernale, sembrano preannunciare un evento insolito e
misterioso, sono uguali a quelli che, in terra,
servivano a trasmettere informazioni militari. I diavoli
che difendono le mura della strana città, alla quale i
due viandanti si stanno avvicinando, sono organizzati
militarmente: diversamente che nei guardiani dei cerchi
superiori, in essi il male è guidato da una intelligenza
viva. |
7 |
E io mi
volsi al mar di tutto 'l senno;
dissi: «Questo che dice? e che risponde
quell' altro foco? e chi son quei che 'l fenno?». |
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7 |
Allora mi rivolsi a
Virgilio, dicendo: "Che significato ha questo segnale? e
quale risposta dà quell’altra luce? e chi sono quelli
che l’hanno accesa?" |
10 |
Ed elli a
me: «Su per le sucide onde
già scorgere puoi quello che s'aspetta,
se 'l fummo del pantan nol ti nasconde». |
|
10 |
E Virgilio di rimando:
"Sull’acqua melmosa puoi già scorgere colui che è atteso
(da chi ha fatto i segnali), se i vapori che lo stagno
esala non lo celano ai tuoi occhi". |
13 |
Corda non
pinse mai da sé saetta
che sì corresse via per l'aere snella,
com' io vidi una nave piccioletta |
|
13 |
Nessuna corda d’arco scoccò mai una freccia che volasse
nell’aria con una velocità paragonabile a quella della
piccola imbarcazione che vidi in quell’istante |
16 |
venir per
l'acqua verso noi in quella,
sotto 'l governo d'un sol galeoto,
che gridava: «Or se' giunta, anima fella!». |
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16 |
dirigersi sull’acqua verso
di noi, pilotata da un solo nocchiero, che urlava: "Ti
ho finalmente raggiunto, spirito malvagio!" |
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La similitudine è già in Virgilio:
"fugge sulle onde, più rapida di un dardo e di una
saetta che uguaglia i venti" (Eneide X, 247-248). Dante
la ricrea conferendole maggiore essenzialità e vigore, e
imprimendo alle parole "un movimento rapido e
incalzante, in cui viene a culminare il senso di
tensione e di attesa delle terzine che precedono e si
preannunzia il movimento drammatico, violento e
concitato, dell'episodio che seguirà" (Sapegno).
Da notare anche la sapiente scelta delle parole e la
suggestione che queste esercitano anche al di là del
loro significato più immediato. Come nota il Venturi,
nel primo verso corda non pinse mai da sé saetta, "i
suoni esprimono il sibilar della freccia; nel verso
successivo il celere volo". |
19 |
«Flegïàs,
Flegïàs, tu gridi a vòto»,
disse lo mio segnore, «a questa volta:
più non ci avrai che sol passando il loto». |
|
19 |
"Flegiàs, Flegiàs, tu gridi inutilmente
contro di noi" ribatte il mio maestro, "a non ci avrai
in tuo potere che il tempo necessario per attraversare
la palude fangosa." |
|
Flegiàs, figlio di Marte, per avere incendiato, accecato
dall'ira, il tempio di Apollo a Delfi, fu punito nell'Averno
(cfr. Virgilio, Eneide VI, 618-620). E questo un altro
dei personaggi tratti dalla mitologia e ricreati da
Dante in forme nuove, meglio rispondenti alla sostanza
profondamente religiosa e morale del suo poema. La
figura di Flegiàs è "drammatizzata nella sua qualità
essenziale: l'ardore dell'ira: per cui diventa uno
scorcio appena balenante ma tempestoso: scolpito proprio
nel secco rilievo della sua violenta irruzione e del
furioso gridare (versi 13-18) e poi ( verso 24 ) nel
torbido silenzio dell'ira accolta" (Grabher).
La risposta di Virgilio a Flegias non ha la calma
solenne delle risposte da lui date ai guardiani dei
cerchi superiori. Una impazienza irosa sembra
trasmettersi alle sue parole. Il peccato punito in
questo cerchio - l'ira - "si propaga all'intorno, nello
scenario, in Virgilio, in Dante, che proprio qui dà il
primo e più continuato segno del suo aspro spirito
combattivo" (Momigliano). |
22 |
Qual è colui
che grande inganno ascolta
che li sia fatto, e poi se ne rammarca,
fecesi Flegïàs ne l'ira accolta. |
|
22 |
Come colui che apprende di essere stato gravemente
ingannato, e allora prova rammarico, così divenne
Flegiàs per l’ira che in lui si raccolse. |
25 |
Lo duca mio
discese ne la barca,
e poi mi fece intrare appresso lui;
e sol quand' io fui dentro parve carca. |
|
25 |
Virgilio scese nella barca, e poi mi fece scendere dopo
di lui; soltanto quando anch’io fui entrato, essa sembrò
carica (gli abitanti dell’oltretomba, essendo esseri
privi del corpo, non hanno peso). |
28 |
Tosto che 'l
duca e io nel legno fui,
segando se ne va l'antica prora
de l'acqua più che non suol con altrui. |
|
28 |
Non appena Virgilio e io
fummo a bordo, l’antica (perché coeva dell’inferno)
barca cominciò a fendere l’acqua, immergendosi in essa
più profondamente di quanto non faccia di solito, quando
trasporta le anime. |
31 |
Mentre noi
corravam la morta gora,
dinanzi mi si fece un pien di fango,
e disse: «Chi se' tu che vieni anzi ora?». |
|
31 |
Mentre solcavamo
l’immobile palude, mi si parò davanti uno spirito
coperto di fango, e disse: "Chi sei tu che arrivi
anzitempo (prima del termine stabilito, cioè prima della
morte?" |
|
In questa terzina, alla stagnante immobilità dello Stige,
si contrappone l'aspra repentinità dell'apostrofe del
dannato che, nella maligna domanda rivolta a Dante,
rivela il suo godimento per le sofferenze altrui. Il suo
apparire improvviso può ricordarci quello di Ciacco nel
cerchio dei golosi, ma il dialogo con Dante è improntato
qui a tutt'altro spirito.
Nell'episodio del canto sesto il Poeta era preso da un
sentimento di compassione e quasi di riverente rispetto
per il concittadino che aveva conosciuto di persona i
grandi uomini politici della passata generazione; qui
invece reagisce violentemente contro il suo
interlocutore e, come vedremo fra poco, gode del suo
strazio. Possiamo restare meravigliati per tale
atteggiamento di Dante, in cui il Momigliano ha
ravvisato addirittura "qualcosa di satanico", ma non
dobbiamo dimenticare che l'iracondo nei riguardi del
quale egli manifesta tale spirito vendicativo, come
osserva il Grabher, "non è che lo spunto realistico, cui
Dante sempre attinge, per passare dal contingente
all'eterno, dal particolare all'universale; per colpire
quanti si tengono or là su gran regi e tuffarli tutti,
idealmente, come porci in brago".
Il dannato è il fiorentino Filippo dei Cavicciuli (un
ramo degli Adimari)', |
34 |
E io a lui:
«S'i' vegno, non rimango;
ma tu chi se', che sì se' fatto brutto?».
Rispuose: «Vedi che son un che piango». |
|
34 |
Ed io: "Se arrivo, non è certo per
rimanere; ma chi sei tu, reso cosi sporco dal fango?"
Rispose: "Vedi bene che sono uno di quelli che piangono
(cioè un dannato)". |
|
Il motivo che spinge Filippo Argenti a celare il suo
nome è il desiderio, comune anche agli altri dannati, di
non avere cattiva fama tra i vivi. Egli cerca di reagire
al disprezzo manifestatogli dal Poeta ostentando la
propria infelice condizione (un che piango). Ma le sue
parole tradiscono un'insofferenza sprezzante e amara. Il
loro senso è: lo vedi da te che sono un dannato; che
bisogno c'è di farmi questa domanda? |
37 |
E io a lui:
«Con piangere e con lutto,
spirito maladetto, ti rimani;
ch'i' ti conosco, ancor sie lordo tutto». |
|
37 |
Ed io: "Restatene, anima maledetta, col
pianto e col dolore; perché ti riconosco, anche se sei
tutto imbrattato di fango". |
|
Il tono della replica di Dante, in cui egli riprende le
parole del suo interlucatore per ritorcerle contro di
lui (chi se' tu che vieni... s'i' degno, non rimango...;
un che piango... con piangere e con lutto), è dettato da
un'ira repressa, che finirà col manifestarsi
esplicitamente nella soddisfazione con cui il Poeta
assisterà al tormento del peccatore. |
40 |
Allor
distese al legno ambo le mani;
per che 'l maestro accorto lo sospinse,
dicendo: «Via costà con li altri cani!». |
|
40 |
Allora allungò verso la
barca entrambe le mani (per rovesciarla o per colpire
Dante ); ma Virgilio pronto lo respinse, dicendogli:
"Via di qui, vattene a stare con gli altri maledetti!" |
43 |
Lo collo poi
con le braccia mi cinse;
basciommi 'l volto e disse: «Alma sdegnosa,
benedetta colei che 'n te s'incinse! |
|
43 |
Poi mi abbraccio: mi baciò
in viso, e disse: "Anima fiera, sia benedetta colei che
ti ha portato nel grembo! |
46 |
Quei fu al
mondo persona orgogliosa;
bontà non è che sua memoria fregi:
così s'è l'ombra sua qui furïosa. |
|
46 |
Quello fu in vita un
prepotente; nessuna azione buona abbellisce il ricordo
che di sé ha lasciato: per questo la sua anima e qui in
preda al furore. |
49 |
Quanti si
tegnon or là sù gran regi
che qui staranno come porci in brago,
di sé lasciando orribili dispregi!». |
|
49 |
Quanti che si considerano
adesso nel mondo persone di grande importanza, qui
staranno come porci nel fango, lasciando di sé il
ricordo di atti spregevoli!" |
|
L'intervento di Virgilio conclude l'incontro del suo
discepolo col dannato e conferisce a questo episodio una
dignità esemplare. Ma la figura del saggio, che il poeta
latino di solito incarna, ci appare qui singolarmente
animata. Egli non è soltanto il commentatore distaccato
dell'episodio al quale ha assistito, ma ne diventa uno
dei protagonisti. Il personaggio di Virgilio perde in
tal modo ogni schematicità inerente alla sua funzione di
simbolo, per riflettere in sé l'animo appassionato del
discepolo ed inserirsi, con polemica asprezza, in quello
che è uno dei temi etici dell'Inferno: la condanna della
superbia che boriosamente ostenta la propria
autosufficienza. |
52 |
E io:
«Maestro, molto sarei vago
di vederlo attuffare in questa broda
prima che noi uscissimo del lago». |
|
52 |
Ed io: "Maestro, sarei
molto desideroso, prima di uscire dalla palude, di
vederlo immergere in questa melma". |
55 |
Ed elli a
me: «Avante che la proda
ti si lasci veder, tu sarai sazio:
di tal disïo convien che tu goda». |
|
55 |
E Virgilio: "Prima che tu
possa vedere la riva, sarai appagato: è giusto che tu
goda del soddisfacimento di questo tuo desiderio". |
58 |
Dopo ciò
poco vid' io quello strazio
far di costui a le fangose genti,
che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio. |
|
58 |
Poco dopo vidi gli
iracondi fare di lui un tale scempio, che per esso
ancora glorifico e rendo grazie a Dio. |
|
Che Dio ancor ne lodo e ne
ringrazio: Dante gioisce dello spettacolo
offerto dai dannati che puniscono Filippo Argenti, sia
per motivi di carattere contingente, come potrebbe
essere la sua inimicizia determinata da motivi politici
nei confronti della oltracotata schiatta (Paradiso XVI,
115) degli Adimari, sia perché questo spettacolo è una
dimostrazione inoppugnabile della giustizia di Dio,
vendicatore delle offese e riparatore dei torti. Ciò non
toglie che la scena, considerata in sé, sia
manifestazione, da parte dei dannati che vi partecipano,
di uno spirito ottuso e brutale: i seviziatori appaiono,
non meno della loro vittima, lontani dalla ragione e da
Dio. |
61 |
Tutti
gridavano: «A Filippo Argenti!»;
e 'l fiorentino spirito bizzarro
in sé medesmo si volvea co' denti. |
|
61 |
Tutti insieme gridavano:
"Addosso a Filippo Argenti!"; e il rabbioso dannato
fiorentino volgeva contro sé stesso la propria ira,
dilaniandosi coi denti. |
64 |
Quivi il
lasciammo, che più non ne narro;
ma ne l'orecchie mi percosse un duolo,
per ch'io avante l'occhio intento sbarro. |
|
64 |
Lo abbandonammo a questo
punto, in condizioni tali, che non occorre aggiungere
altre parole; ma ecco che un suono doloroso colpì il mio
udito, per la qual cosa spalancai gli occhi guardando
attentamente davanti a me. |
|
In questo canto il linguaggio è sempre teso e ricco di
movimento drammatico; il presente storico sbarro
sottolinea la subitaneità della nuova impressione che il
Poeta avverte. |
67 |
Lo buon
maestro disse: «Omai, figliuolo,
s'appressa la città c'ha nome Dite,
coi gravi cittadin, col grande stuolo». |
|
67 |
Virgilio mi disse: "Ormai, figlio, si
avvicina la città chiamata Dite, coi suoi abitanti
oppressi dal dolore, col grande esercito (dei diavoli)". |
|
Dite, o Plutone, era per gli antichi il sovrano del
regno dei morti, Dante lo identifica con Lucifero. La
città che da lui prende nome è l'insieme dei cerchi
infernali dal sesto al nono, che costituiscono il basso
inferno, di contro all'alto che racchiude i primi cinque
cerchi. In essa sono punite due categorie di peccati:
quelli di violenza e quelli di malizia. |
70 |
E io:
«Maestro, già le sue meschite
là entro certe ne la valle cerno,
vermiglie come se di foco uscite fossero». |
|
70 |
Ed io: "Maestro, distinguo già
chiaramente laggiù nell’avvallamento le sue torri,
rosseggianti come se fossero uscite dal fuoco". |
|
Già le sue meschite...
: secondo il Boccaccio le torri fortificate poste a
difesa della città di Dite sono chiamate meschite
(moschee, dall'arabo masghid "siccome edifici composti
ad onor del demonio, e non di Dio".
Il paesaggio squallido e geometrico nel cerchio degli
avari e prodighi, intriso di tristezza e umor nero in
quello degli iracondi, assume qui un rilievo allucinato,
che trascende ogni possibilità di riferimenti umani.
Intorno alla città di Dite, nota il Grabher,"il Poeta...
crea un senso di ermetico isolamento e di grandiosità
desolata". Già in Virgilio (Eneide Vl, 548 sgg.) la
città del Tartaro era difesa da torri di ferro rovente.
Ma, nell'abbondanza dei particolari, l'aspetto sinistro
delle fortificazioni infernali non spiccava come nei
pochi cenni che vi dedica Dante. |
73 |
Ed ei
mi disse: «Il foco etterno
ch'entro l'affoca le dimostra rosse,
come tu vedi in questo basso inferno». |
|
73 |
E Virgilio mi disse: "Il
fuoco eterno che all’interno le arroventa, le fa
apparire rosse, come puoi vedere in questa parte bassa
dell’inferno". |
76 |
Noi pur
giugnemmo dentro a l'alte fosse
che vallan quella terra sconsolata:
le mura mi parean che ferro fosse. |
|
76 |
Arrivammo infine dentro i
profondi fossati che difendono quella città desolata: mi
sembrava che le mura fossero di ferro. |
79 |
Non sanza
prima far grande aggirata,
venimmo in parte dove il nocchier forte
«Usciteci», gridò: «qui è l'intrata». |
|
79 |
Non senza aver prima fatto
un ampio giro, giungemmo in un punto dove il nocchiero
gridò ad alta voce: "Uscite da qui (dalla barca): ecco
la porta (della città di Dite)". |
82 |
Io vidi più
di mille in su le porte
da ciel piovuti, che stizzosamente
dicean: «Chi è costui che sanza morte |
|
82 |
Vidi più di mille diavoli
a guardia delle porte, i quali con stizza dicevano: "Chi
e costui che ancora in vita |
|
A proposito dell'immagine da ciel piovuti, il Romagnoli
rileva in essa una certa ambiguità: "collocate così le
parole, pare che si tratti di gente piovuta allora
allora". In realtà, leggendo questi versi, è difficile
soffermarsi sul valore logico che in essi le parole
assumono, tanto vigorosa è la capacità del Poeta di
infondere vita e concretezza alle creazioni della sua
fantasia. Giustamente osserva il Bosco: "con quella
semplice parola, piovuti, Dante riesce a trasformare il
concetto del loro gran numero, in un'immagine: una
pioggia di angeli; tutta l'aria piena di angeli
precipitanti". |
85 |
va per lo
regno de la morta gente?».
E 'l savio mio maestro fece segno
di voler lor parlar segretamente. |
|
85 |
visita il regno dei
morti?". E il mio saggio maestro accennò di voler
parlare con loro in disparte. |
88 |
Allor
chiusero un poco il gran disdegno
e disser: «Vien tu solo, e quei sen vada
che sì ardito intrò per questo regno. |
|
88 |
Allora frenarono un poco
la loro grande ira, e dissero: "Vieni soltanto tu, e
vada via quello, che con tanto ardire e penetrato in
questo regno. |
91 |
Sol si
ritorni per la folle strada:
pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai,
che li ha' iscorta sì buia contrada». |
|
91 |
Ripercorra da solo il
cammino temerario (fatto fin qui): provi, se ne è
capace; perché tu, che gli hai fatto da guida in un
paese così buio, resterai qui". |
94 |
Pensa,
lettor, se io mi sconfortai
nel suon de le parole maladette,
ché non credetti ritornarci mai. |
|
94 |
Immagina, lettore, quanto
mi perdetti d’animo nell’udire queste parole maledette,
perché credetti di non poter mai più tornare fra i vivi. |
|
Come nei cerchi superiori, anche all'ingresso del sesto
il cammino dei due poeti è ostacolato dalle potenze
infernali. Ma i difensori della città di Dite sono -
come abbiamo già detto dotati di intelligenza oltre che
malvagi. Assai più difficile sarà averne ragione. Mentre
Caronte, Minosse, Cerbero, Pluto, simboli di cieco
furore, si trovavano disarmati e impotenti di fronte
all'intelligenza, simboleggiata da Virgilio, i demoni
posti a custodia dei cerchi inferiori del regno di
Lucifero sono in grado di opporre ragione a ragione,
intelligenza a intelligenza: il male non si configura in
loro nelle sue forme più vistose e brutali, come
disordinato imperversare degli istinti, ma si nasconde
insidiosamente dietro le apparenze di un vivere
disciplinato. Qui appunto è il grande pericolo che Dante
e Virgilio devono fronteggiare: a sbarrare il cammino
loro prescritto in cielo trovano non la natura deforme,
ma una città. L'intelligenza al servizio del male ha
nelle mura di Dite la sua prima, indimenticabile
espressione visiva. La scena drammatica che qui comincia
e si svilupperà per buona parte del canto seguente ha un
significato allegorico ( la ragione che vuole il bene
non può trionfare su quella indirizzata al male senza il
soccorso della Grazia ), ma, come ha rilevato il Croce,
"ne ha uno altresì effettivo e poetico, che tutta
l'informa e la rende per se comprensibile e
chiarissima".
Questo significato fa "tutt'una cosa con lo svolgimento
stesso della scena: è la tensione che si prova tra le
difficoltà e gli ostacoli, la fiducia che si avvicenda
con la sfiducia e pur la vince, nella lotta del giusto
contro l'ingiusto, della virtù contro l'iniquità, del
diritto contro la forza". |
97 |
«O caro duca
mio, che più di sette
volte m'hai sicurtà renduta e tratto
d'alto periglio che 'ncontra mi stette, |
|
97 |
"Mia amata
guida, che innumerevoli volte mi hai ridato coraggio e
salvato dai grandi pericoli che mi si pararono contro, |
100 |
non mi
lasciar», diss' io, «così disfatto;
e se 'l passar più oltre ci è negato,
ritroviam l'orme nostre insieme ratto». |
|
100 |
non mi
abbandonare " dissi " in questo stato di angoscia; e se
non ci è consentito di andare avanti, ripercorriamo
subito insieme il cammino che abbiamo fatto (per venire
fin qui)." |
103 |
E quel
segnor che lì m'avea menato,
mi disse: «Non temer; ché 'l nostro passo
non ci può tòrre alcun: da tal n'è dato. |
|
103 |
E Virgilio, che mi aveva
condotto li, mi disse: "Non aver paura; perché nessuno
può precluderci il passaggio: tanto potente è colui dal
quale è voluto. |
106 |
Ma qui
m'attendi, e lo spirito lasso
conforta e ciba di speranza buona,
ch'i' non ti lascerò nel mondo basso». |
|
106 |
Tu attendimi qui, e
conforta il tuo animo prostrato alimentandolo con la
speranza che non inganna, poiché io non ti abbandonerò
in questa parte bassa dell’inferno (nel mondo basso)". |
109 |
Così sen va,
e quivi m'abbandona
lo dolce padre, e io rimagno in forse,
che sì e no nel capo mi tenciona. |
|
109 |
Così dicendo il mio padre
affettuoso se ne va, e qui mi lascia solo, e io resto
nel dubbio, poiché nella mia testa il timore combatte
con la speranza. |
|
Dante è in ansia per l'esito del colloquio di Virgilio
coi diavoli, anzi ha già cominciato a disperare: è la
prima volta che i ministri di Satana osano ribattere
alle parole del suo maestro; e ribattono con una
proposta terribile, in tutto degna della loro natura:
Virgilio resti prigioniero nelle loro mani e Dante sia
pur libero di tornarsene indietro, ammesso che ne sia
capace. Virgilio lo rincuora, ma Dante continua a
dubitare della potenza della sua guida, pur sentendo che
in essa sono riposte tutte le sue speranze di salvezza.
Da ciò quella ricchezza di espressioni affettuose verso
il maestro, in cui e tutto il suo timore e il desiderio
insieme di confidente abbandono. |
112 |
Udir non
potti quello ch'a lor porse;
ma ei non stette là con essi guari,
che ciascun dentro a pruova si ricorse. |
|
112 |
Non potei udire quello che
disse loro: ma egli non si trattenne a lungo là con
essi, che già ciascuno dei diavoli gareggiava in
velocità con gli altri nel tornare correndo dentro le
mura. |
115 |
Chiuser le
porte que' nostri avversari
nel petto al mio segnor, che fuor rimase
e rivolsesi a me con passi rari. |
|
115 |
Quei nostri nemici
chiusero le porte davanti a Virgilio, che restò fuori, e
tornò verso di me con passi lenti. |
118 |
Li occhi a
la terra e le ciglia avea rase
d'ogne baldanza, e dicea ne' sospiri:
«Chi m'ha negate le dolenti case!». |
|
118 |
Teneva gli occhi abbassati
ed aveva un’espressione sfiduciata, e diceva sospirando:
"Da chi mai mi viene impedito l’ingresso nelle sedi del
dolore!". |
|
Anche in questo suo mesto ritorno dal colloquio con i
guardiani della città del male Virgilio è, non meno che
nell'episodio di Filippo Argenti, personaggio vivo e
umanissimo. Egli non è il maestro che impartisce la
verità dall'alto, ma partecipa all'azione e si getta
allo sbaraglio per trarre in salvo il suo discepolo. Le
qualità del suo animo non sono didascalicamente
enunciate, ma risultano da tutti i suoi atti. |
121 |
E a me
disse: «Tu, perch' io m'adiri,
non sbigottir, ch'io vincerò la prova,
qual ch'a la difension dentro s'aggiri. |
|
121 |
E rivolto a me: "Anche se
io mi cruccio, non perderti d’animo, perché vincerò
questa prova di forza, chiunque dentro le mura si
adoperi per vietarci l’ingresso. |
124 |
Questa lor
tracotanza non è nova;
ché già l'usaro a men segreta porta,
la qual sanza serrame ancor si trova. |
|
124 |
Questa loro presunzione
non è nuova: perché già l’adoperarono davanti a una
porta meno interna, la quale si trova ancor oggi
spalancata. |
|
In questa terzina è evidente l'allusione alla discesa di
Cristo nel regno dei dannati: il Redentore, dopo la sua
morte, liberò dal limbo le anime dei Patriarchi
dell'Antico Testamento, scardinando la porta
dell'inferno, esterna (men secreta) rispetto a quella di
Dite. |
127 |
Sovr' essa
vedestù la scritta morta:
e già di qua da lei discende l'erta,
passando per li cerchi sanza scorta, |
|
127 |
Sopra di essa hai veduto
l’iscrizione che parla della morte eterna: e varcatala
già scende per la china, passando di cerchio in cerchio
senza guida o protezione, |
130 |
tal che per
lui ne fia la terra aperta». |
|
130 |
colui ad opera del quale
la città ci sarà aperta". |