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DIVINA
COMMEDIA: PARAFRASI
PURGATORIO
CANTO I° |
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1 |
Per correr
miglior acque alza le vele
omai la navicella del mio ingegno,
che lascia dietro a sé mar sì crudele; |
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1 |
La navicella dei mio ingegno, che lascia dietro di sé un
mare così tempestoso (l'inferno), si prepara a una
materia più serena (il purgatorio); |
4 |
e canterò di
quel secondo regno
dove l'umano spirito si purga
e di salire al ciel diventa degno. |
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4 |
e canterò del secondo
regno (dell'oltretomba) nel quale l'anima umana si
purifica e diviene degna di salire al cielo. |
7 |
Ma qui la
morta poesì resurga,
o sante Muse, poi che vostro sono;
e qui Calïopè alquanto surga, |
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7 |
Ma qui la poesia, che ha
avuto finora per argomento la morte spirituale (dei
dannati), riviva (trattando della vita spirituale di
coloro che raggiungeranno la beatitudine), o sante Muse,
poiché a voi ho consacrato la mia vita; e a questo punto
si levi più alta la voce di Calliope (la maggiore delle
nove Muse, ritenuta dagli antichi l'ispiratrice della
poesia epica; il nome, etimologicamente, significa «
dalla bella voce »), |
10 |
seguitando
il mio canto con quel suono
di cui le Piche misere sentiro
lo colpo tal, che disperar perdono. |
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10 |
accompagnando il mio canto
con quella melodia della quale le sciagurate figlie di
Pierio, poi trasformate in gazze, avvertirono la
superiorità a tal punto che disperarono di sottrarsi
alla punizione che le attendeva. |
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Narra Ovidio (Metamorfosi V, versi 300 sgg.) che, avendo
le figlie del re Pierio osato sfidare le Muse nel canto,
furono sconfitte da Calliope e trasformate in piche.
Anche nel Purgatorio Dante fa grande uso dei miti
dell'antichità classica. Osserva il D'Ovidio: "nel
simbolismo, che permetteva di veder sotto a quei
fantasmi una verità leggiadramente velata, egli
acquetava la sua coscienza di cristiano; e accarezzava
con il immaginazione compiacente le belle favole, alle
quali come poeta e come studioso dell'antichità teneva
assai".
Nell'esordio del Purgatorio il Raimondi nota che il
discorso del Poeta corre su un pìano retorico e su uno
morale. " Il mar crudele che ci lasciamo dietro, non è
soltanto il mare delle rime aspre e chiocce, il pelago
della poesia di cui si parlerà più tardi nel Paradiso;
ma è insieme l'acqua perigliosa che s'era intravista
attraverso una comparazione nel primo canto
dell'Inferno: ossia, come spiega il Convivio, il « mare
di questa vita» che ogni cristiano ha da percorrere per
giungere al suo «porto ». Ed è poi ancora lo stesso mare
a cui pensa il lettore della Bibbia, ogni volta che
ricorda la vicenda degli Ebrei fuggiti dall'Egitto: un
mare-simbolo, che si converte in certezza di acque
migliori, perché prefigura, come mistero della fede,
l'idea del battesimo e, a un tempo, quella della
vittoria di Cristo sulla morte."
Per quel che riguarda la tonalità di questo proemio, in
esso si preannunciano quell'euritmia e quella
delicatezza di sfumature che saranno caratteristici del
canto. "La stessa proposizione ha un accento riposato e
fidente, piuttosto che squillante: né inganni la lieve
impennata, piuttosto verbale ed apparente che reale,
dell'«alzar le vele», giacché essa sta come espressione
asseverativa e non ortativa o iussiva... Non dice: tu, o
ingegno, alza le vele, ma semplicemente: la navicella
del mio ingegno alza le vele per correre ora acque più
pacate e tranquille, quella navicella che lascia dietro
di sé il mare crudele dell'inferno. Era mare, ed ora son
solo acque; era vasto pelago, ed ora è navigazione per
acque più chiuse e quiete." (Sansone) |
13 |
Dolce color
d'orïental zaffiro,
che s'accoglieva nel sereno aspetto
del mezzo, puro infino al primo giro, |
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13 |
Un tenero colore di zaffiro orientale (la più pura e
splendente fra le varie qualità di zaffiri, secondo
quanto attestano i Lapidari medievali), contenuto nella
limpida atmosfera, pura fino al cerchio dell'orizzonte, |
16 |
a li occhi
miei ricominciò diletto,
tosto ch'io usci' fuor de l'aura morta
che m'avea contristati li occhi e 'l petto. |
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16 |
procurò nuovamente gioia
ai miei occhi, appena uscii dall'aria infernale, che
aveva rattristato la mia vista e il mio animo. |
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Per un poeta romantico come il Coleridge il cielo
assumeva l'aspetto delI' "interno di un bacino di
zaffiro". Dante è assai più preciso nel determinare le
sue sensazioni; le sue metafore, pur radicate in un
fondo analogico, non sono mai considerate in se stesse,
in quanto pure intuizioni, attimi di felice contatto con
una realtà più ricca dì quella che il linguaggio comune
ci offre, ma si ordinano in una gerarchia razionale di
significati. L'immagine del Coleridge può servire "a
mostrare per contrasto come in Dante la gioia della
scoperta sensitiva sia subito controllata
dall'intelligenza: nella terzina, a parte il
contrappunto allusivo-simbolico dello sfondo, interviene
infatti, quasi a frenare ogni suggestione pittorica, il
gusto didascalico della descriptio temporis con i
tecnicismi di aspetto del mezzo e primo giro in
corrispondenza di aggettivi affettivi come sereno e
puro.(Raimondi) |
19 |
Lo bel
pianeto che d'amar conforta
faceva tutto rider l'orïente,
velando i Pesci ch'erano in sua scorta. |
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19 |
Venere, il bel pianeta che predispone
all'amore, faceva gioire tutta la parte orientale del
cielo, attenuando con la sua luce quella della
costellazione dei Pesci, con la quale si trovava in
congiunzione. |
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L'accenno al pianeta Venere, attraverso qualificazioni
(bel... rider) che si riferiscono direttamente alla dea
della bellezza e dell'amore, ha un significato
allegorico, per cui l'amore paganamente celebrato dai
poeti dell'antichità classica viene interpretato come
una semplice, imperfetta prefigurazione dell'unico amore
degno di questo nome: la carità cristiana. Nel Convivio
(Il, V, 13) è detto: "...ragionevole è credere che li
movitori... [del cielo] di Venere siano li Troni; li
quali ... fanno la loro operazione, connaturale ad essi,
cioè lo movimento di quello cielo, pieno di amore, dal
quale prende la forma del detto cielo uno ardore
virtuoso per lo quale le anime di qua giuso s'accendono
ad amore, secondo la loro disposizione". |
22 |
I' mi volsi
a man destra, e puosi mente
a l'altro polo, e vidi quattro stelle
non viste mai fuor ch'a la prima gente. |
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22 |
Mi volsi a destra, e diressi la mia attenzione al polo
australe, e vidi quattro stelle che soltanto i primi
uomini (Adamo ed Eva) videro. |
25 |
Goder pareva
'l ciel di lor fiammelle:
oh settentrïonal vedovo sito,
poi che privato se' di mirar quelle! |
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25 |
Il cielo sembrava gioire delle loro luci intensissime: o
luogo settentrionale spoglio, dal momento che ti è
preclusa la possibilità di vederle! |
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Le quattro stelle splendenti nel cielo australe e che
solo Adamo ed Eva, prima della loro cacciata dal
paradiso terrestre (situato, per Dante, sulla sommità
del monte del purgatorio) poterono vedere, simboleggiano
le quattro virtù cardinali. Questo simbolo deve essere
interpretato - secondo quanto scrive, sulla base di
alcune osservazioni del Singleton, il Raimondi - nel
senso che Dante rimpiange (oh settentrional vedovo sito)
"una perdita irrimediabile, iscritta per sempre nella
storia dell'uomo, per cui nessuno potrà mai far ritorno
al paradiso terrestre con la stessa innocenza e la
giustizia onde Dio aveva fatto dono nella persona di
Adamo alla natura umana". Questo rimpianto "si colora di
tristezza... e reca in sé, al fondo, la mestizia della
condizione umana, della nostra umanità postedenica,
necessariamente affaticata e corrotta, fuori per sempre
della dolcissima felicità dell'innocenza.
Ed è perciò che il simbolo... trapassa in accenti umani
che hanno la vibrazione della poesia".(Sansone) |
28 |
Com' io da
loro sguardo fui partito,
un poco me volgendo a l'altro polo,
là onde 'l Carro già era sparito, |
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28 |
Appena mi fui distolto dal
guardarle, volgendomi un poco verso il polo boreale. nel
quale l'Orsa Maggiore non era più visibile, |
31 |
vidi presso
di me un veglio solo,
degno di tanta reverenza in vista,
che più non dee a padre alcun figliuolo. |
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31 |
vidi vicino a me, solo, un
vecchio, degno nell'aspetto di una riverenza tale, che
nessun figlio è tenuto ad una riverenza maggiore verso
suo padre. |
34 |
Lunga la
barba e di pel bianco mista
portava, a' suoi capelli simigliante,
de' quai cadeva al petto doppia lista. |
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34 |
Portava la barba lunga e
brizzolata, simile ai suoi capelli, dei quali due
ciocche scendevano sul petto. |
37 |
Li raggi de
le quattro luci sante
fregiavan sì la sua faccia di lume,
ch'i' 'l vedea come 'l sol fosse davante. |
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37 |
A tal punto i raggi delle
quattro stelle sante ornavano di luce il suo volto, che
io lo vedevo (illuminato) come se davanti a lui ci fosse
il sole. |
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Il veglio, sul cui volto convergono, quasi isolandolo
"in una sacra oasi di luce". (Momigliano) i raggi delle
quattro stelle che adornano e rendono santo il cielo
australe, è Marco Porcio Catone Uticense (95-46 a. C.),
strenuo difensore della libertà e delle istituzioni
repubblicane in un periodo in cui, attraverso lotte
sanguinose, maturavano in Roma quelle nuove forme di
governo, imposte con la forza e basate
sull'accentramento di tutti i poteri nelle mani di un
singolo, che avrebbero condotto, con Augusto,
all'impero. Si oppose in gioventù alla dittatura di
Silla, poi, insieme con Cicerone, al tentativo eversore
di Catilina; denunciò i pericoli insiti in una forma di
governo, quale il primo triumvirato, tendente a
sovrapporsi alle magistrature della repubblica. Nella
guerra civile tra Cesare e Pompeo fu seguace di questo
ultimo. Dopo la morte di Pompeo comandò un esercito di
anticesariani in Africa. Sconfitto ad Utica, si diede la
morte per non cadere prigioniero di Cesare e per non
sopravvivere al crollo della libertà repubblicana.
Dopo avere, nel Convivio (IV, XXVIII, 15-19) e nella
Monarchia (II, V, 15), manifestato la sua ammirazione
per Catone, Dante pone questo pagano, suicida ed
avversario dell'idea imperiale, quale custode del
purgatorio, tra le anime alle quali è assicurata la
beatitudine. Osserva l'Auerbach che questo avviene
perché la "storia dì Catone è isolata dal suo contesto
politico-terreno... ed è diventata figura futurorum
[simbolo di cose future]. Catone è una « figura », o
piuttosto era tale il Catone terreno, che a Utica
rinunciò alla vita per la libertà, e il Catone che qui
appare nel purgatorio è la figura svelata o adempiuta,
la verità dì quell'avvenimento figurale. Infattì la
libertà politica e terrena per cui è morto era soltanto
umbra futurorum: una prefigurazione di quella libertà
cristiana che ora egli è chiamato a custodire". Nel
personaggio di Catone - scrive il De Sanctis - "vi è il
savio antico, e qualche altra cosa ancora; il savio
cristianizzato, sulla cui fronte il poeta ha versato
l'acqua battesimale della nuova religione... Vi è dunque
in quell'aspetto iI savio antico, ma qualche altra cosa
ancora; vi è il paradiso, la grazia illuminante, le
quattro mistiche stelle dei purgatorio, che comunicano
splendore e vita alla calma de' suoi lineamenti, e lo
fanno parere un sole".
Già in Lucano, la fonte alla quale Dante ha maggiormente
attinto per delineare i tratti fisici e morali del
personaggio di Catone, la figura di questo seguace della
dottrina stoica appare permeata di un sentire religioso
in cui sono come presagiti alcuni dei più sublimi temi
del messaggio cristiano. Nel momento in cui decide di
prendere parte alla guerra civile, l'eroe di Lucano (Farsaglia
II, versi 306-313) esclama: "E così piacesse agli dei
del cielo e dell'inferno che sul mio capo si potesser
raccogliere tutte le espiazioni. E, nuovo Decio, cadessi
trafitto da ambe le schiere, ed io trapassato da tutte
le aste stessi in mezzo a ricevere le ferite di tutta la
guerra; e questo sangue redimesse i popoli, e questa
morte redimesse tutte le corruttele romane" (traduzione
del D'Ovidio). E quando il suo luogotenente Labieno lo
esorta ad interrogare l'oracolo di Giove Ammone, Catone
risponde che Dio non ha scelto le sterìli sabbie del
deserto africano "per ricantare il vero a pochi, né lo
ha sommerso in questa polvere. C'è forse una sede di
Dio, fuorché la terra e il mare e l'aria e il cielo e la
virtù ?... Giove è tutto quanto tu vedi, dovunque ti
muovi". |
40 |
«Chi siete
voi che contro al cieco fiume
fuggita avete la pregione etterna?»,
diss' el, movendo quelle oneste piume. |
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40 |
«Chi siete voi, che
seguendo una direzione opposta a quella del fiume
sotterraneo (il ruscelletto di cui al verso 130 dei
canto XXXIV dell'Inferno) siete evasi dal carcere eterno
(l'inferno)?» disse, muovendo la sua veneranda barba. |
43 |
«Chi v'ha
guidati, o che vi fu lucerna,
uscendo fuor de la profonda notte
che sempre nera fa la valle inferna? |
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43 |
«Chi vi ha fatto da guida?
o che cosa vi ha rischiarato il cammino, mentre uscivate
dalle tenebre profonde che rendono sempre nera la
voragine infernale? |
46 |
Son le leggi
d'abisso così rotte?
o è mutato in ciel novo consiglio,
che, dannati, venite a le mie grotte?». |
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46 |
A tal punto sono violate
le leggi dell'inferno? o in cielo é stato fatto un nuovo
decreto, per cui, pur essendo dannati, giungete alla
montagna da me custodita?» |
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Nelle domande che Catone rivolge ai due pellegrini è
stata indicata una espressione di sdegno (Scartazzini),
di sbigottimento (Grabher), di stupore (Fassò). Il
Mattalia scorge in Catone i "trattí psicologici del duro
legalitatario, del sospettoso (non vogliamo proprio dir
burocratico) custode del Regolamento". Simili
caratterizzazioni tuttavia, per eccesso di realismo
psicologico, non rendono conto della maestà della figura
di Catone, dell'aura di miracolo che la circonda, del
sovrannaturale che in essa si incarna. Rileva
opportunamente il Sansone che "al fondo del suo
domandare c'è il presentimento di qualcosa di
provvidenziale che regga il viaggio dei due pellegrini",
mentre il Raimondi, analizzando i versi 40-48, osserva:
"Sono tutte domande le sue, come di persona sorpresa che
voglia sapere e incalzi I'interlocutore; ma la
didascalia delle piume oneste, che interrompe il
discorso diretto quasi per indicare il tono della scena
con un lontano riferimento, forse, alle lanose gote di
Caronte, e più ancora le formule numinose e le antitesi
gravi che affollano la sua apostrofe (da lucerna a
profonda notte, da valle inferna a leggi d'abisso, da
novo consiglio a dannati, venite alle mie grotte)
rivelano che, interrogando Virgilio, Catone non mira a
informarsi, quanto a provocare in chi gli sta davanti
una presa di posizione che deve poi valere, in fondo,
come una specie di abiura, di decisa rinunzia". |
49 |
Lo duca mio
allor mi diè di piglio,
e con parole e con mani e con cenni
reverenti mi fé le gambe e 'l ciglio. |
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49 |
Virgilio allora mi
afferrò,e mi fece inginocchiare e abbassare gli occhi in
segno di riverenza, incitandomi a ciò con parole e con
l'atto delle sue mani e con segni. |
52 |
Poscia
rispuose lui: «Da me non venni:
donna scese del ciel, per li cui prieghi
de la mia compagnia costui sovvenni. |
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52 |
Poi gli rispose: «Non sono
arrivato di mia iniziativa: scese dal cielo una donna
(Beatrice), grazie alle cui preghiere soccorsi costui
con la mia compagnia. |
55 |
Ma da ch'è
tuo voler che più si spieghi
di nostra condizion com' ell' è vera,
esser non puote il mio che a te si nieghi. |
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55 |
Ma poiché è tuo desiderio
che la nostra condizione, quale essa è veramente, ti
venga maggiormente chiarita, non può essere mio
desiderio che questo (chiarimento) ti sia negato. |
58 |
Questi non
vide mai l'ultima sera;
ma per la sua follia le fu sì presso,
che molto poco tempo a volger era. |
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58 |
Costui non vide mai la
morte (Sia quella corporale che quella spirituale; non
morì cioè e non è dannato); ma a causa dei suoi peccati
fu così vicino alla morte spirituale, che pochissimo
tempo sarebbe dovuto trascorrere (perché egli la
vedesse). |
61 |
Sì com' io
dissi, fui mandato ad esso
per lui campare; e non lì era altra via
che questa per la quale i' mi son messo. |
|
61 |
Come ti ho detto, fui
inviato da lui per salvarlo; e non era possibile
percorrere altra via che questa per la quale mi sono
incamminato. |
64 |
Mostrata ho
lui tutta la gente ria;
e ora intendo mostrar quelli spirti
che purgan sé sotto la tua balìa. |
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64 |
Gli ho mostrato tutti i
dannati; ed ora intendo mostrargli quelle anime che si
purificano sotto la tua giurisdizione. |
67 |
Com' io l'ho
tratto, saria lungo a dirti;
de l'alto scende virtù che m'aiuta
conducerlo a vederti e a udirti. |
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67 |
Lungo sarebbe riferirti
come l'ho portato fin qui: dal cielo scende una forza
che mi aiuta a guidarlo per vederti e per ascoltarti. |
70 |
Or ti
piaccia gradir la sua venuta:
libertà va cercando, ch'è sì cara,
come sa chi per lei vita rifiuta. |
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70 |
Voglia tu dunque
considerare benevolmente il suo arrivo: egli va in cerca
della libertà, che è tanto preziosa, come sa colui che
per essa rifiuta di vivere. |
73 |
Tu 'l sai,
ché non ti fu per lei amara
in Utica la morte, ove lasciasti
la vesta ch'al gran dì sarà sì chiara. |
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73 |
Tu lo sai, poiché in suo
nome (per lei: la libertà) non fu per te dolorosa la
morte a Utica, dove lasciasti il tuo corpo che il giorno
della risurrezione dei morti risplenderà (con l'anima)
di tanta gloria. |
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Nota finemente il Momigliano che nella terzina 73 "il
discorso di Virgilio si accende e si fa, per un momento,
inno: e l'inno si corona con la fiammeggiante immagine
dì Catone splendente di gloria nel giorno della
resurrezione, quando le anime riprendono il loro corpo
(la vesta) : bastano a quest'apoteosi due parole: al
gran dì, sì chiara". |
76 |
Non son li
editti etterni per noi guasti,
ché questi vive e Minòs me non lega;
ma son del cerchio ove son li occhi casti |
|
76 |
Le leggi di Dio non sono
state violate da noi; poiché costui è vivo, ed io non
sono un dannato, assegnato a Minosse (e Minòs me non
lega. la giurisdizione di Minosse inizia con il secondo
cerchio dell'inferno; cfr. Inferno V, 4-15); ma provengo
dal limbo, dove sono gli occhi pudichi |
79 |
di Marzia
tua, che 'n vista ancor ti priega,
o santo petto, che per tua la tegni:
per lo suo amore adunque a noi ti piega. |
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79 |
della tua Marzia, che nel
sembiante ancora ti prega, o animo venerabile, che tu la
consideri tua: per l'amore che ella ti porta
accondiscendi dunque alla nostra richiesta. |
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Marzia, moglie di Catone e poi di Quinto Ortensio, dopo
la morte di questi si rimaritò con Catone. Nel Convivio
(IV, XXVIII, 13-19) Dante interpreta allegoricamente il
ritorno di Marzia al suo primo marito, scorgendo in esso
adombrato il ritorno dell'anima a Dio nel periodo della
vecchiaia. Improntate a profondo affetto sono le parole
che Dante fa rivolgere da Marzia al suo primo marito: "«
Dammi li patti de li antichi letti, dammi lo nome solo
del maritaggio »; che è a dire che la nobile anima dice
a Dio: « Dammi, Signor mio, omai lo riposo di te; dammi,
almeno, che io in questa tanta vita sia chiamata tua ».
E dice Marzia: « Due ragioni mi muovono a dire questo:
l'una si è che dopo me si dica ch'io sia morta moglie di
Catone; l'altra, che dopo me si dica che tu non mi
scacciasti, ma di buono animo mi maritasti»". |
82 |
Lasciane
andar per li tuoi sette regni;
grazie riporterò di te a lei,
se d'esser mentovato là giù degni». |
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82 |
Lasciaci andare per i sette gironi del
tuo dominio (il purgatorio): riferirò a lei, nei tuoi
riguardi, cose gradite, se hai piacere di essere
nominato laggiù». |
|
Come quello di Catone, anche l'atteggiamento di Virgilio
in questo episodio è stato generalmente interpretato su
un piano angustamente psicologico, senza tener conto
della dimensione allegorico-figurale che in esso si
esprime. Il D'Ovidio è giunto addirittura a vedere in
esso, con alquanto discutibile gusto, quello di "una
buona istitutrice, che guida per mano alla signora
incollerita la figlioletta colpevole e penitente". E'
più che naturale che, considerando l'episodio da un tale
punto di vista, sia sfuggito al critico il carattere
religioso e rituale che il colloquio tra Catone e
Virgilio riveste. Nel turbamento di Virgilio - osserva
il Bigi - "Dante ha voluto significare l'atteggiamento
della scienza o ragione umana di fronte alla
sopraggiunta consapevolezza della nuova condizione di
libertà: un atteggiamento complesso, in cui la sicurezza
di possedere l'autorizzazione teologica per poter
affrontare l'alto compito che attende l'anima penitente,
non esclude il tentativo di ricorrere anche ai nobili ma
qui inadeguati mezzi umani della parola ornata e
affettuosa. Questo significato di Virgilio (su cui poco
o nulla dicono i commentatori moderni) non sfugge ai
commentatori antichi: e il Buti, a proposito
dell'accenno di Virgilio a Marzia, osserva: "Si può
notare che in questo finga l'autore che Virgilio parli a
questo modo, per dare ad intendere che la ragione umana
non apprende de le cose dell'altra vita se non come
pratica in questa de le cose mondane ". |
85 |
«Marzïa
piacque tanto a li occhi miei
mentre ch'i' fu' di là», diss' elli allora,
«che quante grazie volse da me, fei. |
|
85 |
«Marzia mi fu tanto cara
(piacque tanto alli occhi miei) mentre fui in vita»
disse Catone allora, «che le concessi tutte le cose a
lei gradite e da lei desiderate. |
88 |
Or che di là
dal mal fiume dimora,
più muover non mi può, per quella legge
che fatta fu quando me n'usci' fora. |
|
88 |
Ora che ella risiede al di
là dell'Acheronte, non può più influire sul mio volere,
in virtù di quella legge (che separa in modo netto gli
spiriti dannati da quelli salvati) la quale fu stabilita
quando uscii fuori dal limbo (insieme ai patriarchi
dell'Antico Testamento; cfr., Inferno IV, versi 53-63). |
91 |
Ma se donna
del ciel ti move e regge,
come tu di', non c'è mestier lusinghe:
bastisi ben che per lei mi richegge. |
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91 |
Ma se una beata ti incita
ad andare e ti guida, come tu dici, non occorre che tu
mi lusinghi: ti sia sufficiente rivolgermi la tua
richiesta in nome suo. |
94 |
Va dunque, e
fa che tu costui ricinghe
d'un giunco schietto e che li lavi 'l viso,
sì ch'ogne sucidume quindi stinghe; |
|
94 |
Dunque vai, e fa in modo
di cingere costui di un giunco liscio e di lavargli il
volto, in modo da cancellare da esso ogni sudiciume; |
97 |
ché non si
converria, l'occhio sorpriso
d'alcuna nebbia, andar dinanzi al primo
ministro, ch'è di quei di paradiso. |
|
97 |
poiché
sarebbe disdicevole, con l'occhio offuscato da qualcosa
di torbido, presentarsi davanti al primo esecutore dei
decreti di Dio, che è un angelo (di quei di paradiso; si
tratta dell'angelo posto a custodia della porta del
purgatorio; cfr. Purgatorio canto IX, versi 78 sgg.). |
100 |
Questa
isoletta intorno ad imo ad imo,
là giù colà dove la batte l'onda,
porta di giunchi sovra 'l molle limo: |
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100 |
Questa
piccola isola, nella sua parte più bassa, sulla spiaggia
percossa dalle onde, è coperta tutt'intorno sull'umida
sabbia da giunchi: |
103 |
null' altra
pianta che facesse fronda
o indurasse, vi puote aver vita,
però ch'a le percosse non seconda. |
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103 |
nessun'altra pianta, di
quelle che portano rami con foglie o diventano rigide,
può vivervi, poiché non asseconda (flettendosi) i colpi
(delle onde). |
106 |
Poscia non
sia di qua vostra reddita;
lo sol vi mosterrà, che surge omai,
prendere il monte a più lieve salita». |
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106 |
Il vostro ritorno non
avvenga poi da questa parte; il sole, che sta per
sorgere, vi indicherà da che parte affrontare più
agevolmente la salita del monte.» |
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Gran parte dei critici hanno veduto in Catone soltanto
il guardiano rigoroso ed ìnflessibile, accentuandone
indebitamente la severità e la rudezza. Valga per tutti
il giudizio del Croce, per il quale Catone è "la figura
in cui il Poeta attua uno dei lati del suo ideale etico:
la rigida rettitudine, l'adempimento dell'alto dovere,
che par che non possa adempiersi, né operare sugli altri
affinché a lor volta lo adempiano, senza rivestirsi di
una certa asprezza, senza l'abito ritroso e alquanto
diffidente di chi vigila sempre su se stesso e sugli
altri". Questa interpretazione « laica » del personaggio
di Catone non tiene conto del progressivo
interiorizzarsi e spiritualizzarsi della sua figura in
questo secondo discorso che rivolge ai due pellegrini.
Nota il Sansone che nella figura del veglia "la severità
e rigidità del filosofo stoico appare attenuata di
affettuosità e umana temperanza" e che, per quel che
riguarda in particolare la terzina 97, Catone lascia
trasparite nelle sue parole "una distanza dalle pure
essenze divine, che, quasi Io agguaglia ai suoi due
ascoltatori, e che distende ogni tensione e insieme
riapre l'atmosfera dell'attesa e del prodigio.
Gli angeli sono quei di paradiso, creature di così alto
privilegio che Catone non osa indicarle se non con una
perifrasi". Poi, a poco a poco, il suo dire perde ogni
residua asprezza: "l'accento è queto e quasi intimo, e
la semplicità degli annunzi ribadisce la consuetudine
del soprannaturale, nei modi che qui assume la
condizione lirica del meraviglioso, cioè non nel
rilievo, ma in una sua naturale misura". |
109 |
Così sparì;
e io sù mi levai
sanza parlare, e tutto mi ritrassi
al duca mio, e li occhi a lui drizzai. |
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109 |
Ciò detto si dileguò; ed
io mi levai in piedi senza parlare, e mi accostai con
tutto il corpo a Virgilio, e rivolsi a lui lo sguardo. |
112 |
El cominciò:
«Figliuol, segui i miei passi:
volgianci in dietro, ché di qua dichina
questa pianura a' suoi termini bassi». |
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112 |
Egli cominciò a parlare:
«Segui i miei passi: volgiamoci indietro, poiché da
questa parte la pianura scende verso il suo orlo basso
(la spiaggia)». |
115 |
L'alba
vinceva l'ora mattutina
che fuggia innanzi, sì che di lontano
conobbi il tremolar de la marina. |
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115 |
L'alba trionfava
dell'ultima ora della notte (l'ora mattutina è l'ultima
delle ore canoniche della notte), la quale le fuggiva
dinanzi, in modo che da lontano distinsi il tremolio
della luce sul mare. |
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Più che nelle due altre cantiche, in cui riflette una
condizione remota - nell'orrore delle tenebre o nel
tripudio di una luce che non tramonta - da quella
terrestre, e partecipa, fuori del tempo, di una certa
astrazione, il paesaggio del purgatorio appare intimo,
vibrante di umana trepidazione, penetrato di
spiritualità. Le vicende della luce e del buio, che
accompagneranno i due pellegrini nell'ascesa della
montagna dell'espiazione, ne interpreteranno gli stati
d'animo, ad essi docilmente accordandosi. Qui in
particolare il "cielo notturno e sereno che via via si
stenebra, è un maestoso e pensoso preludio dell'ascesa
purificatrice a cui Dante si prepara" (Momigliano).
Nella terzina 115 il gusto prezioso delle
personificazioni - per cui l'apparire della luce si
configura come una gioiosa vittoria di quest'ultima
sulle tenebre debellate e messe in fuga - si risolve sul
piano di una impressione direttamente ed intensamente
rivissuta dalla memoria: il mare si annuncia di lontano
attraverso la mobilità della luce che in esso si
specchia. Nel tremolar della marina è la traduzione
visiva della fiduciosa trepidazione dei due viandanti,
il partecipe, beneaugurante consenso del creato alla
speranza che li anima. |
118 |
Noi andavam
per lo solingo piano
com' om che torna a la perduta strada,
che 'nfino ad essa li pare ire in vano. |
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118 |
Noi avanzavamo nella
pianura solitaria come colui che torna alla strada che
ha smarrito, il quale ritiene che il suo cammino sia
inutile finché non l'abbia ritrovata. |
121 |
Quando noi
fummo là 've la rugiada
pugna col sole, per essere in parte
dove, ad orezza, poco si dirada, |
|
121 |
Quando fummo là dove la
rugiada resiste, opponendosi, al sole e, per il fatto di
essere in una zona dove spira un venticello, evapora
poco, |
124 |
ambo le mani
in su l'erbetta sparte
soavemente 'l mio maestro pose:
ond' io, che fui accorto di sua arte, |
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124 |
Virgilio posò
delicatamente entrambe le mani aperte sulla tenera erba:
per cui io, che compresi lo scopo del suo gesto, |
127 |
porsi ver'
lui le guance lagrimose;
ivi mi fece tutto discoverto
quel color che l'inferno mi nascose. |
|
127 |
gli porsi le guance
bagnate di lagrime: su di esse egli fece riapparire
interamente quel colore (il mio colorito naturale) che
l'inferno aveva occultato (con la sua caligine). |
|
Il combattimento della rugiada col sole ripropone, sul
piano di una maggior discrezione, quello trionfale e
squillante dell'alba che mette in fuga le tenebre. Qui
il calore tarda ad essere vittorioso; la rugiada
mantiene intatta la sua freschezza, la sua forza
purificatrice, perché Dante possa, con l'aiuto del
maestro, detergersi degli orrori della notte trascorsa
fra i dannati. |
130 |
Venimmo poi
in sul lito diserto,
che mai non vide navicar sue acque
omo, che di tornar sia poscia esperto. |
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130 |
Giungemmo quindi sulla
spiaggia deserta, che mai vide solcate le sue acque da
qualcuno che sia poi riuscito a tornare indietro (Ulisse
infatti, giunto in vista della montagna del purgatorio,
naufragò). |
133 |
Quivi mi
cinse sì com' altrui piacque:
oh maraviglia! ché qual elli scelse
l'umile pianta, cotal si rinacque |
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133 |
Qui mi cinse come Catone
aveva voluto: o meraviglia! infatti l'umile giunco
ricrebbe tale quale egli l'aveva scelto (cioè schietto,
liscio) |
136 |
subitamente
là onde l'avelse. |
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136 |
immediatamente, nel punto
in cui l'aveva strappato. |
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Il giunco pieghevole e puro simboleggia l'umiltà; il suo
istantaneo rinascere la fecondità di questa disposizione
dell'animo, per cui un atto d'umiltà non si esaurisce in
se stesso, ma dà origine ad altri atti d'umiltà.
Il sovrannaturale, ovunque presente nel canto, e al
quale hanno alluso allegorie, simboli, riti, trova, nel
miracolo dei giunco che ricresce, la sua conferma
esplicita ed inequivocabile. |
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