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DIVINA
COMMEDIA: PARAFRASI
PURGATORIO
CANTO XI° |
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1 |
«O Padre
nostro, che ne' cieli stai,
non circunscritto, ma per più amore
ch'ai primi effetti di là sù tu hai, |
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1 |
«Padre nostro, che stai nel cielo, non perché limitato
da questo, ma per il maggiore amore che tu nutri per i
cieli e gli angeli (primi effetti di là su: le prime
opere create dà Dio), |
4 |
laudato sia
'l tuo nome e 'l tuo valore
da ogne creatura, com' è degno
di render grazie al tuo dolce vapore. |
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4 |
il tuo nome e la tua
potenza siano oggetto di lode da parte di tutte le
creature, così come è giusto rendere grazie al tuo
amoroso spirito. |
7 |
Vegna ver'
noi la pace del tuo regno,
ché noi ad essa non potem da noi,
s'ella non vien, con tutto nostro ingegno. |
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7 |
Ci sia concessa la pace
del tuo regno, perché noi con le nostre sole forze, per
quanto ci adoperiamo, non possiamo pervenire ad essa, se
non ci viene incontro. |
10 |
Come del suo
voler li angeli tuoi
fan sacrificio a te, cantando osanna,
così facciano li uomini de' suoi. |
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10 |
Come i tuoi angeli
sottomettono a te la loro volontà, acclamandoti, così
siano pronti a fare gli uomini della loro. |
13 |
Dà oggi a
noi la cotidiana manna,
sanza la qual per questo aspro diserto
a retro va chi più di gir s'affanna. |
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13 |
Donaci oggi la grazia divina, senza la quale retrocede
colui che più si sforza di procedere attraverso le
difficoltà del mondo, |
16 |
E come noi
lo mal ch'avem sofferto
perdoniamo a ciascuno, e tu perdona
benigno, e non guardar lo nostro merto. |
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16 |
E come noi perdoniamo a
ciascun nostro nemico il male che abbiamo ricevuto,
anche tu perdona a noi con misericordia, senza guardare
i nostri meriti insufficienti. |
19 |
Nostra virtù
che di legger s'adona,
non spermentar con l'antico avversaro,
ma libera da lui che sì la sprona. |
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19 |
Non mettere
alla prova la nostra forza che facilmente si abbatte,
con le tentazioni del demonio, ma liberala da lui che
con tanta insistenza la spìnge (al male). |
22 |
Quest'
ultima preghiera, segnor caro,
già non si fa per noi, ché non bisogna,
ma per color che dietro a noi restaro». |
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22 |
L'ultima parte della preghiera, o dolce Signore, non è
più fatta per noi, dal momento che essa per noi non è
più necessaria, ma per coloro che abbiamo lasciato sulla
terra.» |
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Coscienza dei limiti umani e vibrante ansia dei beni
superiori, non più caduchi ma perfetti, sorreggono la
parafrasi del « Pater Noster », la preghiera evangelica
più alta, che è confessione di umiltà del singolo uomo
di fronte a Dio e voce corale di tutta la cristianità.
Un largo filone critico, a partire dal Tommaseo,
denuncia la scarsa validità poetica di queste terzine,
che si dispongono come dottrinale svolgimento della
ieratica semplicità delle parole di Cristo (Matteo VI,
9-13; Luca XI, 2-4) e giustifica l'inizio del canto XI
come il prodotto di un gusto particolare del Medioevo,
che amava parafrasare, in un genere Il tra dottrinale e
retorico" (Parodi), le più conosciute preghiere biblíche.
Senza dubbio il commento delle parole sacre è in parte
teologico - guidato dalla esatta terminologia della
filosofia scolastica (circunscritto, primi effetti) - e
in parte morale - come nel dolente accenno all'aspro
diserto che l'umanità deve percorrere e ai suoi sforzi
inutili (verso 15) senza l'aiuto divino - ma il rilievo
in cui è posto il dramma della debolezza umana e il
confidente abbandono in Dio (versi 7-9; versi 13, 18;
versi 19-21), e la lentezza del ritmo con cui si snoda
la preghiera, non canto esaltante, ma faticosa
espressione che richiama il verso finale del canto
precedente, piangendo parca dicer: "Più non posso",
arricchiscono la parafrasi di un particolare tono di
poesia.
Il Fallani nota che l'aver risolto la preghiera nel
ritmo della terzina, con pause efficaci, con riprese e
lievi varianti e amplificazioni, non ha sfigurato la
purezza originale dell'oratio, mentre questo gruppo che
espia il suo orgoglio di fama e di gloria terrena e che
per la superbia era costretto, un tempo, ad un'azione
egoistica e vana, ora con la preghiera per color che
dietro noi restaro entra nel circolo vastissimo e corale
di tutto il mondo ch'è allo stato di prova".
Di grande efficacia è l'aver fatto recitare direttamente
la preghiera dai superbi, perché le pause di riflessione
trovano così la loro giustificazione: il rapporto fra
Dio e le creature che deve essere vissuto come rapporto
fra padre e figlio, il rapporto fra gli uomini che
vengono così trasformati in fratelli, il dovere
dell'amore e il bisogno della preghiera reciproca sono
realtà che i superbi intendono solo ora, con estrema
chiarezza, mentre, curvati verso la terra, gemono sotto
il peso del rnacigno che li doma. Per questo, pur nel
legame che impone di per sé la preghiera dei Pater, "il
Poeta ha saputo trovare una cadenza ritmica solenne,
quasi di salmo gregoriano, che scaturisce dalla realtà
vivente dei peccatori... riguadagnati alla Grazia nella
rappresentazione del loro ultimo dramma, prima della
visione beatifica" (Fallani).
L'espressione quest'ultima preghiera è riferita da molti
commentatori alla terzina 19: i superbi chiedono al
signor caro la grazia di assistere chi in terra è ancora
esposto alla tentazione, "fatti teneri della tenerezza
che il Padre ha mostrato loro, salvandoli dal pericolo
estremo" (Marzot). Il Porena più giustamente ritiene che
essa comprenda tutta l'ultima parte della preghiera
(versi 13-21), in cui i riferimenti alla vita terrena
sono continui e diretti. |
25 |
Così a sé e
noi buona ramogna
quell' ombre orando, andavan sotto 'l pondo,
simile a quel che talvolta si sogna, |
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25 |
Così quelle ombre innalzando una preghiera di buon
augurio per sé e per gli uomini, procedevano sotto il
peso dei massi, peso simile a quello che talvolta ci
opprime nell'incubo di un sogno, |
28 |
disparmente
angosciate tutte a tondo
e lasse su per la prima cornice,
purgando la caligine del mondo. |
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28 |
girando tutte intorno al
monte lungo la prima cornice, travagliate in modo
diverso (disparmente: secondo la gravità del peccato) e
sfinite, purificandosi delle brutture del peccato. |
31 |
Se di là
sempre ben per noi si dice,
di qua che dire e far per lor si puote
da quei c'hanno al voler buona radice? |
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31 |
Se nel purgatorio pregano
sempre per noi, quali preghiere e quali opere si
potrebbero fare nel mondo per le anime penitenti da
parte di coloro la cui volontà di suffragio nasce da un
cuore in grazia di Dio? |
34 |
Ben si de'
loro atar lavar le note
che portar quinci, sì che, mondi e lievi,
possano uscire a le stellate ruote. |
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34 |
E' giusto aiutarle a
cancellare le macchie di peccato che hanno portato dal
mondo, in modo che, purificate e prive di peccato,
possano salire al cielo. |
37 |
«Deh, se
giustizia e pietà vi disgrievi
tosto, sì che possiate muover l'ala,
che secondo il disio vostro vi lievi, |
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37 |
«Possano la giustizia e la
misericordia liberarvi presto dal peso, in modo che
possiate iniziare il volo, che vi innalzi dove
desiderate, (in nome di questo augurio) |
40 |
mostrate da
qual mano inver' la scala
si va più corto; e se c'è più d'un varco,
quel ne 'nsegnate che men erto cala; |
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40 |
indicateci da quale parte
si giunge prima alla scala (che porta al secondo
girone); e se esistono più passaggi, mostrateci quello
che sale meno ripido, |
43 |
ché questi
che vien meco, per lo 'ncarco
de la carne d'Adamo onde si veste,
al montar sù, contra sua voglia, è parco». |
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43 |
perché questo che procede
con me, a causa del peso del corpo di cui è rivestito, è
lento nel salire, di contro al suo desiderio.» |
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Il centro drammatico del canto. più che negli incontri
che ne occupano la seconda parte, si risolve nelle
terzine 25-39, il cui motivo conduttore . la sofferenza
delle anime, la loro serena rassegnazione e la commossa
partecipazione di Dante - non solo si dispone lungo
l'arco dei tre canti dedicati ai superbi, ma è momento
ricorrente in ogni altra cornice, perché è da questo che
nasce la poesia del Purgatorio. Essa infatti "si muove
tra i limiti di un passato, che perdura per rendere
possibile il rimorso salutifero, e, il futuro, di cui
l'anima coglie qualche vivido presagio. E questi due
aspetti si scontrano dentro l'anima del penitente. che
non ha una storia intermedia, su cui posi col
pensiero... L'umano delle anime penitenti si esprime o
si esalta in due sospiri: uno di rimorso, uno di
speranza , (Marzot). Per questo la nuova siuazione
poetica si sdoppia tra lo spettacolo di quello che
l'uomo fu in terra - animoso, prode, magnanimo - e il
senso dì quiete laboriosa, nell'esercizio mite della
penitenza, che rintuzza ogni aggressività di natura e
pone un sorriso nella realtà della propria storia,
sempre più lontanante. I motivi drammatici emergenti da
questa disposizione interiore delle anime e dalla
figurazione scenica si ripercuotono nell'animo, di Dante
- la cui umanità appare tutta in due versi (35-36) - e
preparano gli episodi seguenti. |
46 |
Le lor
parole, che rendero a queste
che dette avea colui cu' io seguiva,
non fur da cui venisser manifeste; |
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46 |
Le parole, che risposero a
quanto aveva detto la mia guida, non si capì da quale
anima fossero pronunciate; |
49 |
ma fu detto:
«A man destra per la riva
con noi venite, e troverete il passo
possibile a salir persona viva. |
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49 |
ma si dìsse: «Seguiteci a
destra lungo la parete, e troverete il passaggio che può
essere salito da un vivente. |
52 |
E s'io non
fossi impedito dal sasso
che la cervice mia superba doma,
onde portar convienmi il viso basso, |
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52 |
E se io non fossi impedito
dal masso che piega il mio capo superbo, per cui sono
costretto a tenere il viso abbassato, |
55 |
cotesti,
ch'ancor vive e non si noma,
guardere' io, per veder s'i' 'l conosco,
e per farlo pietoso a questa soma. |
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55 |
guarderei costui, che è
ancora vivo e non ha detto il proprio nome, per vedere
se lo conosco, e per ispirargli pietà di questo peso. |
58 |
Io fui
latino e nato d'un gran Tosco:
Guiglielmo Aldobrandesco fu mio padre;
non so se 'l nome suo già mai fu vosco. |
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58 |
Io fui italiano e fui
figlio di un grande toscano: mio padre fu Guglielmo
Aldobrandesco; non so se il suo nome sia mai arrivato
alle vostre orecchie. |
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L'anima che parla a nome dei suoi compagni di pena (le
lor parole) è quella di Omberto Aldobrandeschi, figlio
di Guglielmo, appartenente alla nobile famiglia
ghibellina dei conti di Santaflora. Omberto fu signore
di Campagnatico. nel Grossetano, e con l'aiuto dei
Fiorentini continuò contro Siena le lotte iniziate dal
padre. Mori nel 1259, e intorno alla sua morte esistono
due versioni: secondo la prima fu ucciso da sicari
inviati dai Senesi, secondo l'altra, più attendibile,
morì eroicamente, difendendo il suo castello contro i
Senesi. Il nome di Guglielmo, morto fra il 1253 e il
1256, riempì a lungo le cronache toscane, sia per il suo
accanimento contro Siena. sia per la sua politica
incerta fra Papato e Impero. |
61 |
L'antico
sangue e l'opere leggiadre
d'i miei maggior mi fer sì arrogante,
che, non pensando a la comune madre, |
|
61 |
L'antichità della mia
famiglia e le azioni illustri dei miei antenati mi
resero così superbo, che, non pensando che unica è la
madre di tutti, la terra, |
64 |
ogn' uomo
ebbi in despetto tanto avante,
ch'io ne mori', come i Sanesi sanno,
e sallo in Campagnatico ogne fante. |
|
64 |
disprezzai a tal punto il
mio prossimo, che ciò fu causa della mia morte; e come
essa avvenne, lo sanno i Senesi e a Campagnatico lo sa
ogni essere parlante. |
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Se si accetta la versione dell'assassinio, bisogna
intendere che solo i Senesi che ne furono causa e gli
abitanti di Campagnatico che vi assistettero, conoscono
come, cioè in quale misero modo, Omberto morì. Se si
accetta la notizia della fine in battaglia, il come si
riferirà al coraggio con cui eglì cadde. |
67 |
Io sono
Omberto; e non pur a me danno
superbia fa, ché tutti miei consorti
ha ella tratti seco nel malanno. |
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67 |
Sono Omberto; e la
superbia ha recato danno non solo a me, perché essa ha
trascinato con sé nel male (in vita e dopo la morte)
tutti i miei consanguinei (consorti: nel significato
medievale di membri di famiglie provenienti dallo stesso
ceppo). |
70 |
E qui
convien ch'io questo peso porti
per lei, tanto che a Dio si sodisfaccia,
poi ch'io nol fe' tra ' vivi, qui tra ' morti». |
|
70 |
Ed è necessario che io qui
porti questo peso a causa della superbia, fin tanto che
la giustizia divina abbia ricevuto soddisfazione, qui
tra i morti, dal momento che non l'ho fatto mentre ero
vivo». |
|
La caratterizzazione psicologica di Omberto
Aldobrandeschi è raggiunta anzitutto attraverso il suo
linguaggio aspro, difficile, continuamente spezzato
dall'alzarsi improvviso della voce in un moto
dell'antica superbia (s'io non fossi... guardere'io...
io fui latino... io sono Omberto... io questo peso
porti... poi ch'io nol fe') e dal suo piegarsi
altrettanto improvviso in una voluta ricerca di umiltà
(la cervice mia superba doma... per farlo pietoso a
questa soma... non so se 'l nome suo già mai fu vosco).
Non è ironia quella che muove questo discorso, come
vorrebbe il Marzot, bensì Il sentimento drammatico di
una non compiuta vittoria su se stesso, di
un'oscillazione lenta a risolversi fra il guerriero di
un tempo, abituato al comando, e il penitente, che
sembra fare tutt'uno con la pietra che lo schiaccia
contro la terra. Non c'è più il cuore di una volta, ma,
nel breve cono d'ombra che la colpa proietta dentro di
lui, si muove il superstite senso della terra, cioè
perdura la condizione del carattere (l'orgoglio
dell'antico sangue e delle opere leggiadre), essendo in
lui ancora all'inizio quel processo di ascensione che
invece già tanto ha eliminato del contingente presente
in Oderisi e Provenzano Salvani. |
73 |
Ascoltando
chinai in giù la faccia;
e un di lor, non questi che parlava,
si torse sotto il peso che li 'mpaccia, |
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73 |
Per ascoltare abbassai il
viso; e una di quelle anime, non quella che parlava, si
torse sotto il peso che le opprimeva, |
76 |
e videmi e
conobbemi e chiamava,
tenendo li occhi con fatica fisi
a me che tutto chin con loro andava. |
|
76 |
e mi vide e mi riconobbe e
mi chiamò per nome, tenendo faticosamente fissi gli
occhi su di me che procedevo con loro tutto chinato. |
79 |
«Oh!», diss'
io lui, «non se' tu Oderisi,
l'onor d'Agobbio e l'onor di quell' arte
ch'alluminar chiamata è in Parisi?». |
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79 |
«Oh!» gli dissi, «non sei
Oderisi, il vanto di Gubbio e il vanto di quell'arte che
a Parigi è chiamata illuminare (alluminar: miniare)?» |
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Oderisi (o Oderigi) da Gubbio fu un celebre miniatore.
vissuto intorno alla metà del '200. Alcuni documenti
attestano la sua presenza a Bologna fra il 1268 e il
1271, e a Roma; pare abbia soggiornato anche a Firenze.
Morì nel 1299. Dante, per quanto possiamo ricavare da
questi versi, l'avrebbe conosciuto e stimato
profondamente, quale principale esponente della
miniatura bolognese, che in questo periodo subiva
l'influenza di quella francese. Del resto la Francia
dominava allora questo campo artistico, per cui accanto
al termine italiano « miniare » esisteva anche la forma
« illuminare », coniata sul francese enluminer, che a
sua volta pare derivi dal latino alumen, « allume », un
materiale particolare usato per accrescere la lucentezza
dei colori adoperati dal miniatore. |
82 |
«Frate»,
diss' elli, «più ridon le carte
che pennelleggia Franco Bolognese;
l'onore è tutto or suo, e mio in parte. |
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82 |
«Fratello», mi rispose «sono più belle
le opere che dipinge il bolognese Franco: la gloria ora
è tutta sua, e a me ne resta solo una parte. |
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Franco fu un miniatore bolognese, più giovane di Oderisi
di qualche anno; secondo il Vasari, che afferma di aver
visto molte opere miniate da lui, sarebbe stato "miglior
maestro" di Oderisi. Tuttavia tanto di Franco quanto di
Oderisi non abbiamo alcuna opera che si possa loro
attribuire con assoluta certezza. |
85 |
Ben non
sare' io stato sì cortese
mentre ch'io vissi, per lo gran disio
de l'eccellenza ove mio core intese. |
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85 |
Certamente, mentre ero in
vita, (nell'ammettere la superiorità di un altro) non
sarei stato così generoso, a causa del grande desiderio
di eccellenza al quale il mio animo era tutto rivolto. |
88 |
Di tal
superbia qui si paga il fio;
e ancor non sarei qui, se non fosse
che, possendo peccar, mi volsi a Dio. |
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88 |
Qui si sconta la pena di
questa superbia; e non mi troverei neppure qui (sarei
ancora nell'antipurgatorio), se non fosse che mi pentii,
mentre (essendo in vita) potevo ancora peccare. |
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Oderisi, che rappresenta la superbia nell'arte, dopo
quella della stirpe di Omberto e prima della superbia
politica di Provenzano, appare "in una condizione
spirituale più monda di scorie psicologiche e terrestri
che non Omberto Aldobrandeschi: egli è meglio riuscito a
sconfiggere in sé i difficili e rissosi orgogli
dell'artista, e all'amichevole enfasi con cui Dante
l'aveva salutato onore della sua città e dell'arte della
miniatura egli contrappone, con libero riconoscimento,
il più luminoso sorriso delle pergamene miniate dal suo
antagonista Franco bolognese. I ricordi delle accanite
lotte per la conquista del primato nella propria arte, e
la vicenda delle altre fame artistiche e letterarie, gli
si sono ormai chiariti in una religiosa filosofia della
vanità. Ma è una filosofia umanamente ancor patita,
venata di malinconia, non tranquillamente serena:
Oderisi disserta per persuadere, oltre Dante, anche se
stesso, quanto in lui sopravvive, resistendo all'ultima
e suprema liberazione spirituale, di umano e terrestre"(Mattalia). |
91 |
Oh vana
gloria de l'umane posse!
com' poco verde in su la cima dura,
se non è giunta da l'etati grosse! |
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91 |
Oh quanto è vana la gloria
dell'umano valore! quanto poco tempo resta rigogliosa
sulla cima del suo albero, se non è seguita da un
periodo di decadenza! |
94 |
Credette
Cimabue ne la pittura
tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,
sì che la fama di colui è scura. |
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94 |
Cimabue credette di essere
senza rivali nella pittura, ed ora è di Giotto tutta la
fama, cosicché la sua è oscurata: |
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Giovanni di Pepo, soprannominato Cimabue, nacque a
Firenze nel 1240 e morì all'inizio del 1300. Iniziò
l'opera di distacco della pittura italiana dalla
tradizione bizantina, opera che fu continuata, con
ancora maggiore decisione, dal suo allievo, Giotto. Un
antico commentatore, l'Ottimo, ripreso poi dal Vasari,
afferma che fu "pintore... molto nobile", ma
particolarmente "arrogante e... sdegnoso".
Giotto di Bondone del Colle nacque a Vespignano (vicino
a Firenze) intorno al 1266 e morì nel 1337 a Firenze,
dopo un'intensa attività, della quale le principali
testimonianze si trovano oggi ad Assisi, Padova e
Firenze. Con la sua opera il rinnovamento della pittura
italiana è ormai un fatto compiuto.
Dopo innumerevoli studi la maggior parte dei critici è
d'accordo nell'ammettere fra Dante e Giotto rapporti di
amicizia e di stima. |
97 |
Così ha
tolto l'uno a l'altro Guido
la gloria de la lingua; e forse è nato
chi l'uno e l'altro caccerà del nido. |
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97 |
così Guido Cavalcanti ha strappato a
Guido Guinizelli il primato nell'uso della lingua
volgare; e forse è nato chi oscurerà la loro fama. |
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Guido Guinizelli, nato a Bologna fra il 1230 e il 1240 e
morto nel 1276, fu iniziatore della scuola poetica del
dolce stil novo (della quale Dante fu uno dei principali
esponenti), sia per la concezione dell'amore sia per
l'uso raffinato del volgare. Dante lo loda
particoIarmente nel Convivio (IV, 20, 7) e nel De
Vulgari Eloquentia (1, 9, 3; 15, 6; Il, 5, 4; 6, 6) ed
esalterà la sua poesia nel canto XXVI del Purgatorio.
Guido Cavalcanti, figlio di quel Cavalcante dei
Cavalcanti da Dante posto nell'inferno fra gli
eresiarchi (canto X, versi 52-72), fu grande
rappresentante del dolce stil novo, amico e maestro di
Dante. Nato poco prima del 1260, morì nel 1300.
L'espressione e forse è nato chi l'uno e l'altro caccerà
del nido pare voglia alludere, secondo molti
commentatori antichi e moderni, a colui che, se pittore,
oscurerà la fama di Gíotto (l'uno), se poeta, la fama di
Guido Cavalcanti (l'altro) : riferendo l'uno e l'altro
ai due Guidi, c'è da superare la difficoltà del fatto
che la gloria del Guinizelli non si può più oscurare,
dal momento che essa è già stata distrutta dal
Cavalcanti. Tuttavia è più esatto intendere, seguendo
alcuni interpreti antichi, che qui Dante alluda a se
stesso, che supererà in grandezza i due poeti
precedenti. Questa affermazione non è superba
esaltazione di sé, ma consapevolezza delle proprie
capacità poetiche (cfr. anche il canto XXIV del
Purgatorio, versi 52-54). Tuttavia questo giudizio si
svolge nell'ambito di una profonda meditazione intorno
alla caducità dei fatti e della gloria terrena, cosicché
anche Dante riconosce di non potersi sottrarre alla
legge del tempo: come Cimabue, il Guinizelli e il
Cavalcanti sono già stati dimenticati, presto lo saranno
anche Giotto e lui stesso. |
100 |
Non è il
mondan romore altro ch'un fiato
di vento, ch'or vien quinci e or vien quindi,
e muta nome perché muta lato. |
|
100 |
La gloria
umana non è altro che un soffio di vento, che ora spira
da una parte ed ora spira dall'altra, e cambia nome ogni
volta chi cambia direzione. |
103 |
Che voce
avrai tu più, se vecchia scindi
da te la carne, che se fossi morto
anzi che tu lasciassi il 'pappo' e 'l 'dindi', |
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103 |
Quale fama più grande
avrai, se muori vecchio, di quella che avresti se fossi
morto prima.di abbandonare il linguaggio dei bimbi (il
pappo e il dindì rappresentano la storpiatura infantile
di «Pane» e «moneta»), |
106 |
pria che
passin mill' anni? ch'è più corto
spazio a l'etterno, ch'un muover di ciglia
al cerchio che più tardi in cielo è torto. |
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106 |
prima che siano trascorsi
mille anni? perché (mille anni) rispetto all'eternità
costituiscono un periodo di tempo più breve di un
battito di ciglia rispetto al movimento del cielo che
ruota più lentamente degli altri (al cerchio che più
tardi in cielo è torto: il cielo delle stelle fisse che
impiega 360 secoli a compiere la sua rivoluzione). |
109 |
Colui che
del cammin sì poco piglia
dinanzi a me, Toscana sonò tutta;
e ora a pena in Siena sen pispiglia, |
|
109 |
Colui che cammina a passi
così brevi davanti a me, fece risuonare del suo nome
tutta la Toscana; ed ora a malapena è ricordato a Siena, |
112 |
ond' era
sire quando fu distrutta
la rabbia fiorentina, che superba
fu a quel tempo sì com' ora è putta. |
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112 |
della quale era signore
quando venne distrutta la baldanza fiorentina, che a
quel tempo fu superba così come ora è avvilita. |
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Colui che fu sire in Siena è Provenzano Salvani, che fu
uno dei più autorevoli ghibellini della Toscana, ed ebbe
nelle sue mani il governo di Siena dopo il 1260, Al
concilio dì Empoli, dopo la vittoria ghibellina di
Montaperti, fu tra coloro che sostennero la necessità di
una distruzione totale della guelfa Firenze (cfr.
Inferno canto X, versi 91-93). Nel 1269 a Colle di
Valdelsa partecipò ad uno scontro fra Senesi e
Fiorentini e "fu preso e tagliatogli il capo, e per
tutto il campo portato fitto in su una lancia" (Villani-Gronaca
VII, 31). |
115 |
La vostra
nominanza è color d'erba,
che viene e va, e quei la discolora
per cui ella esce de la terra acerba». |
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115 |
La vostra fama è come il colore
dell'erba, che appare e scompare, e viene seccata dal
sole ad opera del quale esce dalla terra ancora
immatura.» |
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La perorazione di Oderisi si inquadra perfettamente, nel
concetto di «tempo» del mondo purgatoriale: se
nell'inferno il passato immobilizzato nell'atto del
peccato, si identifica col presente. che è la dannazione
derivata da quel peccato, e che si distenderà
all'infinito senza mutamenti, nel Purgatorio il ritmo
del tempo è avvertito dalle anime perché è segnato dalla
loro progressiva ascesa verso l'alto attraverso le varie
cornici. La loro vita spirituale è in movimento continuo
verso la perfezione, e il movimento presuppone una
misura oggettiva delle ore entro cui svolgersi. Solo
questo « tempo » ha valore, perché è in rapporto con
l'eternità, mentre i mill'anni della terra rivelano
tutti la loro caducità attraverso il rapido
avvicendamento di luci e di ombre, che illuminano e
coprono con rapidi trapassi (neppure una generazione
intercorre fra Oderisi e Franco, Cimabue e Giotto, Guido
Guinizelli e Guido Cavalcanti) gli individui. Questa
legge universale, che sembra dapprima affacciarsi con il
vigore dell'invettiva (oh vana gloria del'umane posse!)
si svolge poi entro il ritmo solenne di una
contemplazione, che trasferisce ogni, significato ideale
nelle immagini prese dalla vita della natura, là dove
più visivamente si impone il trapassare del tempo: dalla
suggestiva figura dell'albero con il suo breve e alterno
verde, attraverso quella della mobilità del fiato di
vento, per concludersi con una ripresa del motivo
coloristico, la vostra nominanza è color d'erba. Dove
però la visione si dispiega più commossa e fatta più
certa nelle sue affermazioni, è nell'intervento dell'etterno
e del cielo: sulla ,fama, grandeggia il tempo (pria che
passin millanni) e sul tempo, l'eterno. Dagli esempi
particolari di Omberto e di Oderisi, e dall'esperienza
storica dì Cimabue, di Giotto, dei due Guidi, il Poeta
giunge all'enunciazione di una legge universale, che
trascende anche lui. "L'alta coscienza che Dante ha di
sé e della sua opera resta nel fondo, inopprimibile
elemento umano; però, se egli certo si sente tanto al di
sopra dei due Guidi, non osa gridare alto il suo nome e
affermare la sua gloria, perché subito il suo nome e la
sua gloria sono sommersi dal valore universale della
legge umana che egli, dopo lunga meditazione, sente ed
esprime con così gravi parole" (Grabher). |
118 |
E io a lui:
«Tuo vero dir m'incora
bona umiltà, e gran tumor m'appiani;
ma chi è quei di cui tu parlavi ora?». |
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118 |
Ed io gli dissi: «Le tue
veraci parole mi infondono un sentimento di buona
umiltà, e appianano il mio animo gonfio di grande
superbia: ma chi è colui del quale ora stavi parlando?» |
121 |
«Quelli è»,
rispuose, «Provenzan Salvani;
ed è qui perché fu presuntüoso
a recar Siena tutta a le sue mani. |
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121 |
«Quello» disse «è
Provenzano Salvani; e si trova qui perché ebbe la
superba presunzione di impadronirsi di tutta Siena. |
124 |
Ito è così e
va, sanza riposo,
poi che morì; cotal moneta rende
a sodisfar chi è di là troppo oso». |
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124 |
Così curvo ha camminato e
cammina. senza riposo, dal momento in cui è morto: tale
pena deve pagare chi nel mondo ha troppo presunto di
sé.» |
127 |
E io: «Se
quello spirito ch'attende,
pria che si penta, l'orlo de la vita,
qua giù dimora e qua sù non ascende, |
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127 |
Ed io: «Se l'anima che
aspetta, prima di pentirsi l'ultimo istante di vita,
resta qui sotto (nell'antipurgatorio) e non può salire
il monte |
130 |
se buona
orazïon lui non aita,
prima che passi tempo quanto visse,
come fu la venuta lui largita?». |
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130 |
se non l'aiuta la
preghiera di un cuore in grazia di Dio, prima che sia
passato tanto tempo quanto visse, per quale motivo a
Provenzano fu concesso di accedere (al purgatorio vero e
proprio)?» |
133 |
«Quando
vivea più glorïoso», disse,
«liberamente nel Campo di Siena,
ogne vergogna diposta, s'affisse; |
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133 |
«Quando era nel momento
più glorioso della sua vita» disse, «messo da parte ogni
sentimento di vergogna, di sua spontanea volontà si
piantò sulla piazza del Campo di Siena (la più
importante piazza della città); |
136 |
e lì, per
trar l'amico suo di pena,
ch'e' sostenea ne la prigion di Carlo,
si condusse a tremar per ogne vena. |
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136 |
e lì, per liberare un suo
amico dalla pena che soffriva nelle prigioni di Carlo d'Angiò,
si ridusse (a mendicare) tremando (per l'umiliazione) in
ogni fibra. |
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A Provenzano Salvani fu concesso di entrare subito nel
purgatorio, senza so stare nell'antipurgatorio come
avrebbe dovuto, essendosi pentito solo in fine di vita,
grazie ad un grande atto di umiltà. Un suo amico,
Bartolomeo Saracini secondo alcuni, Vinea o Mimo dei
Mimi, secondo altri, fatto prigioniero da Carlo I d'Angiò
nella battaglia di Tagliacozzo, doveva pagare, per aver
salva la vita, una taglia di diecimila fiorini.
Provenzano nel Campo di Siena cominciò a chiedere
l'elemosina ai suoi concittadini, "non sforzando alcuno,
ma umilmente domandando aiuto" (Ottimo), finché
raggiunse la somma necessaria.per liberare l'amico. |
139 |
Più non
dirò, e scuro so che parlo;
ma poco tempo andrà, che ' tuoi vicini
faranno sì che tu potrai chiosarlo. |
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139 |
Non ti dirò altre cose, e
so che le mie parole sono oscure; ma passerà poco tempo,
che i tuoi concittadini ti metteranno in condizione di
poter in terpretare le mie parole. |
142 |
Quest' opera
li tolse quei confini». |
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142 |
Questa azione gli evitò la
sosta nel l'antipurgatorio (li tolse queí confini).» |
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L'artista colorito, elegante nei modi, di gentile
malinconia nel parlare della ricerca affannosa della
fama, diventa pieno di eloquenza ammirativa nel
presentare la figura di Provenzano Salvani, la sua
fierezza partigiana, la volontà eroica che lo piegò
liberamente a mendicare per l'amico: "C'era, dunque, in
quel superbo, qualcosa oltre la superbia, qualcosa di
così energico da sottomettere la superbia stessa:
trionfo della bontà umana tra i più forti impedimenti,
che sono quelli interiori, e perciò, in quanto
drammatico, tanto più significante della forza
incoercibile di essa" (Croce). Provenzano non parla,
annientato quasi sotto il masso che lo costringe a
prendere del cammin sì poco, antitesi amarissima con la
sua vita di sire di un tempo: per questo più facilmente
la sua apparizione si trasforma in autoritratto di
Dante, o definizione autobiografica attraverso
l'incontro con una creatura sorella, portando a
compimento quel processo di identificazione con la sorte
dei superbi da Dante iniziato procedendo tutto chin con
loro. Nell'atto di Provenzano, quando "è la carne stessa
che trema, la sua persona che s'impietra, tutto il suo
essere che si capovolge nell'imperio audace, e
finalmente vittorioso, sopra, di sé" (ApolIonio), è
riassunta la storia dell'esilio di Dante, che Oderisi
rivela con quel verbo « chiosare », che si conficca alla
fine del verso con la stessa potenza del tremar per ogni
vena. |
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