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DIVINA
COMMEDIA: PARAFRASI
PURGATORIO
CANTO XII° |
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1 |
Di pari,
come buoi che vanno a giogo,
m'andava io con quell' anima carca,
fin che 'l sofferse il dolce pedagogo. |
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1 |
Io camminavo con Oderisi oppresso dal peso, curvo come
lui, come procedono i buoi aggiogati, finché lo permise
il mio dolce maestro; |
4 |
Ma quando
disse: «Lascia lui e varca;
ché qui è buono con l'ali e coi remi,
quantunque può, ciascun pinger sua barca»; |
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4 |
ma quando disse: «Lascia i
superbi e procedi oltre, perché nel purgatorio è
necessario che ciascuno, quanto più può, con ogni mezzo
porti avanti la sua barca (cioè il suo cammino)», |
7 |
dritto sì
come andar vuolsi rife'mi
con la persona, avvegna che i pensieri
mi rimanessero e chinati e scemi. |
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7 |
mi raddrizzai nella
persona così come si deve fare per camminare, sebbene i
miei pensieri continuassero a restare umili e privi del
turgore della superbia. |
10 |
Io m'era
mosso, e seguia volontieri
del mio maestro i passi, e amendue
già mostravam com' eravam leggeri; |
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10 |
Io mi ero incamminato, e
seguivo con gioia i passi della mia guida, ed entrambi
già mostravamo (camminando spediti) quanto eravamo privi
di ogni peso; |
13 |
ed el mi
disse: «Volgi li occhi in giùe:
buon ti sarà, per tranquillar la via,
veder lo letto de le piante tue». |
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13 |
ed egli mi disse: «Abbassa gli occhi a terra: ti sarà
utile, per distrarti dalla fatica del cammino, osservare
il pavimento sul quale appoggi i piedi», |
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La nota altamente umana e pensosamente soggettiva con la
quale si era chiuso il canto precedente si dispiega
lungo tutto l'arco di questi quindici versI, nei quali è
in evidenza il personaggio lirico-drammatico di Dante.
Ha fatto propria la sofferenza dei superbi fino ad
accettare lo stesso modo di procedere (come buoi che
vanno a giogo), la sua meditazione continua a svolgersi
ansiosamente intorno alla necessità dell'umiltà (avvegna
che i pensieri mi rimanessero e chinati e scemi), per
approfondirsi ulteriormente in quel volgi li occhi in
giù e, con un significativo moto progrediente
dall'astrattezza di una dimensione interiore - i
pensieri - alla concretezza di una proiezione esteriore
- lo letto delle piante tue - che inserisce subito il
lettore nella linea del canto, dove il tono morale non
diviene sentenza o discussione retorica, ma si trasforma
in evidenza di esempi. Dante dunque sarà costantemente «
attore » in questo canto, nel quale ha volutamente
eliminato ogni incontro con anime penitenti, affermando
fin dall'inizio, lascia loro e varca; farà riaffiorare,
nel silenzio profondo della cornice, le immagini di
luoghi familiari, le chiese con le tombe terragne e le
scalee per salire da Firenze a San Miniato; diventerà,
"fattosi in margine e come sulla soglia tra il mondo dei
vivi e quello dei morti... l'oratore che nei versi or
superbite, e via col viso altero, fIglioli d'Eva assale
veemente e con fiera ironia" (Marzot), ma soprattutto
procederà da solo sopra quegli esempi di superbia
punita, attirerà a sé, a proprio tormento e contrizione,
quei quadri: non la schiera dei superbi, ma uno solo,
Dante, di fronte allo spettacolo di un male che si
distende nel tempo fIn dalle origini. Il canto, chiuso
in un giudizio negativo da parte di molti critici a
causa della parte centrale (versi 25-69), ha invece,
come ogni altro, "una sua fisionomia ed una sua unità di
tono morale e di modi espressivi, gli uni e gli altri
informati ed incentrati sul valore dell'umiltà, sulla
rinuncia ad ogni atto di passione scomposta, sulla
celebrazione di un rito dinanzi alla prima ascesa. Cosa
nuova è certo aver realizzato questo stato d'animo senza
ricorso al colloquio. al modi gesticolati, all'usata
abilità ritrattistica, ma se mai affrontando il più
difficile compito di smuovere le cose e farle parlare...
Ne viene fuori un canto altamente impegnato, gravemente
mosso, dantesco e medievale in ogni sua parte"
(Vallone). |
16 |
Come, perché
di lor memoria sia,
sovra i sepolti le tombe terragne
portan segnato quel ch'elli eran pria, |
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16 |
Come le pietre sepolcrali
a livello del suolo, per ricordare i morti, recano
effigiato quello che il sepolto era prima di morire, |
19 |
onde lì
molte volte si ripiagne
per la puntura de la rimembranza,
che solo a' pïi dà de le calcagne; |
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19 |
per cui lì si
torna spesso a piangerlo per la fitta dolorosa del
ricordo, il quale però fa soffrire (dà delle calcagne:
come il cavaliere pungola il cavallo con il calcagno che
porta lo sprone) solo gli animi pietosi, |
22 |
sì vid' io
lì, ma di miglior sembianza
secondo l'artificio, figurato
quanto per via di fuor del monte avanza. |
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22 |
allo stesso modo io potei lì osservare coperto di
sculture, ma con un migliore risultato rispetto
all'esecuzione artistica, tutto il piano che sporge dal
monte per servire da strada. |
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Nei tre canti dedicati ai superbi, il Poeta ha dapprima
descritto la loro pena, poi le immagini di umiltà che
essi devono meditare (come stimolo a praticare questa
virtù), in un terzo momento li ha uniti nella preghiera
corale del «Pater Noster» (per riconoscere come unica
gloria quella di Dio), infine riporta davanti a loro le
immagini del male (come freno, nato dal timore, per non
ricadere nel peccato). Ma Dante deve osservare gli
esempi di superbia punita per tranquillar la via: non
per godere del male lì raffigurato, ma per avvertire la
distanza tra il suo spirito, ormai pronto e forte, e lo
spettacolo del vizio superato, poiché, osserva il Marzot,
dinanzi ai quadri della superbia punita torna la
situazione del pellegrino nei cerchi infernali, con la
differenza, però, che c'è tra la rappresentazione
diretta della colpa, che fa guerra ai sentimenti e li
turba, e la visione di essi, rifatta coi mezzi
dell'arte, che dà alla materia, anche triste, una specie
di superiore diletto. Senza dubbio l'aver trasferito il
peccato dalla materia vivente della creatura umana al
marmo del monte, anche se con visibile parlare, accentua
il distacco e la superiorità morale da Dante raggiunta,
ma è indubbiamente eccessivo quanto afferma il Croce, e,
sulla sua linea, in parte il Marzot, riguardo a una
potenza catartica del bello - del resto lontana dalla
dottrina estetica del Medioevo - per cui risulterebbe,
più che un insegnamento morale, un'ammirazione per
l'arte trionfatrice che, sciogliendosi da ogni
materialità e da ogni possibile riflessione, si fa
linea, ombra, colore, odore, suono. Se il Poeta si
compiace di un proposito d'arte raffinata (da lui stesso
dichiarato nei versi 22-23 e 64-68), di una prova di
bravura nella ricerca di simmetria e di richiami,
l'ordito si viene svolgendo attraverso un commento
morale e ricco di sentimento, e si risolve in una
tecnica formalmente perfetta perché cosciente dei suo
effetto didascalico. |
25 |
Vedea colui
che fu nobil creato
più ch'altra creatura, giù dal cielo
folgoreggiando scender, da l'un lato. |
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25 |
Vedevo da una parte della via Lucifero,
che fu creato più perfetto di ogni altra creatura,
precipitare dal cielo come una folgore. |
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Il primo esempio di superbia punita rappresenta Lucifero
che, dopo la sua ribellione, viene precipitato dal
cielo, "come folgore" secondo la stessa espressione del
vangelo di Luca (X, 18). |
28 |
Vedëa
Brïareo fitto dal telo
celestïal giacer, da l'altra parte,
grave a la terra per lo mortal gelo. |
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28 |
Vedevo dall'altra parte Briareo,
trafitto dalla freccia divina, giacere, gravando sulla
terra con il suo corpo senza vita. |
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Briareo è il gigante dalle cento braccia (Inferno XXXI,
98) che partecipò con i Titani al tentativo di
rovesciare Giove dall'Olimpo e che, come gli altri, fu
trafitto dalla saetta degli dei. |
31 |
Vedea
Timbreo, vedea Pallade e Marte,
armati ancora, intorno al padre loro,
mirar le membra d'i Giganti sparte. |
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31 |
Vedevo Timbreo, vedevo Pallade e Marte,
ancora con le armi in mano, guardare, stando intorno a
Giove, i corpi dei giganti sparsi sul campo di
battaglia. |
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Timbreo è il nome con cui veniva indicato Apollo, dalla
città di Timbra (nella Troade), dove sorgeva un tempio a
lui dedicato. Ora, insieme a Pallade Atena e Marte,
osserva il campo di Flegra, dove è appena terminata la
battaglia contro i Titani. |
34 |
Vedea
Nembròt a piè del gran lavoro
quasi smarrito, e riguardar le genti
che 'n Sennaàr con lui superbi fuoro. |
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34 |
Vedevo Nembrot stare come smarrito ai
piedi della grande torre, e osservare coloro che a
Sennaar ebbero la sua stessa superbia. |
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Nembrot, da Dante già presentato nell'Inferno (canto
XXXI, versi 58-81), è il biblico cacciatore responsabile
dei tentativo di costruzione della torre di Babele nella
pianura di Sennaar (Genesi X, 8-9; XI, 1-9). |
37 |
O Nïobè, con
che occhi dolenti
vedea io te segnata in su la strada,
tra sette e sette tuoi figliuoli spenti! |
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37 |
O Niobe, con quali occhi pieni di
dolore io ti vedevo raffigurata sulla via, tra i tuoi
quattordici figli morti! |
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Il quinto esempio di superbia punita è ispirato dalle
Metamorfosí di Ovidio (VI, versi 146-312). Niobe, moglie
di Anfione, re di Tebe, si vantò dei suoi quattordici
figli (sette maschi e sette femmine) di fronte a Latona,
madre di due soli figli, Apollo e Diana, i quali
vendicarono la madre uccidendo i quattordici giovani,
mentre Niobe venne trasformata in una statua. |
40 |
O Saùl, come
in su la propria spada
quivi parevi morto in Gelboè,
che poi non sentì pioggia né rugiada! |
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40 |
O Saul, come qui apparivi morto, ucciso
dalla tua stessa spada a Gelboè, che dopo questo fatto
non ebbe più il dono della pioggia e della rugiada! |
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Saul, primo re d'Israele, a causa della sua superbia fu
abbandonato da Dio e, sconfitto dai Filistei, si uccise
gettandosi sulla sua spada sul monte Gelboè (I Samuele
XXXI, 1-4). Contro il monte, Davide, piangendo la morte
di Saul, scagliò la maledizione: "O monti di Gelboè, né
rugiada, né pioggia non cada più su di voi, o monti
fatali!" (Il Samuele I, 21). |
43 |
O folle
Aragne, sì vedea io te
già mezza ragna, trista in su li stracci
de l'opera che mal per te si fé. |
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43 |
O folle Aracne, così io ti vedevo gìà
diventata ragno per metà, (giacere) angosciata sui resti
della tela che era stata da te tessuta per il tuo male. |
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Ancora una volta Ovidio offre il tema della leggenda
(Metamorfosi VI, versi 5-145), che Dante già ha
ricordato nel canto XVII dell'Inferno (verso 18).
Aracne, una tessitrice della Lidia, orgogliosa per la
sua abilità, osò sfidare Minerva, e, vinta, fu
trasformata in ragno. |
46 |
O Roboàm,
già non par che minacci
quivi 'l tuo segno; ma pien di spavento
nel porta un carro, sanza ch'altri il cacci. |
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46 |
O Roboamo, davvero qui la tua figura
non sembra più minacciare; ma un carro la trasporta
piena di spavento, senza che alcuno la insegua. |
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Roboamo fu uno dei figli dì Salomone e suo successore;
con la sua prepotenza e la sua severità provocò la
rívolta del popolo, che lo costrinse ad abbandonare
Gerusalemine (I Re XII) |
49 |
Mostrava
ancor lo duro pavimento
come Almeon a sua madre fé caro
parer lo sventurato addornamento. |
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49 |
Il pavimento di marmo mostrava ancora
come Almeone fece sembrare pagata a caro prezzo (perché
pagata con la morte) a sua madre la infausta collana. |
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Almeone uccise la madre Erifile per vendicare
l'uccisione del padre Anfiarao. Quest'ultimo, avendo
presagito, come indovino, la sua morte durante la guerra
di Tebe, si era nascosto, ma Erifile, corrotta col dono
di una preziosa collana, svelò il suo nascondiglio e
Anfiarao, costretto a prendere parte alla guerra, vi
trovò la morte. Il peccato di Erifile non è peccato di
vanità, ma di superbia, poiché il monile di cui voleva
impadronirsi era di origine divina, essendo stato
fabbricato da Vulcano; però esso fu sventurato, perché
chi lo possedette (Giocasta, Semele, Argia) incontrò
sempre una fine infausta. |
52 |
Mostrava
come i figli si gittaro
sovra Sennacherìb dentro dal tempio,
e come, morto lui, quivi il lasciaro. |
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52 |
Mostrava come i figli si gettarono su
Sennacherib all'interno del tempio, e come lo
abbandonarono lì morto. |
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Sennacherib, re degli Assiri, mosse guerra agli Ebrei,
oltraggiandone il re Ezechia; per punizione il suo
esercito venne distrutto e Sennacherib, ritornato a
Ninive, fu ucciso dai suoi figli durante una funzione
religiosa (II Re XVIII, 13-37; XIX, 1-37; Isaia XXXVI;
XXXVII, 1-38). |
55 |
Mostrava la
ruina e 'l crudo scempio
che fé Tamiri, quando disse a Ciro:
«Sangue sitisti, e io di sangue t'empio». |
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55 |
Mostrava la strage dell'esercito e il
crudele scempio del cadavere di Ciro che fece Tamiri,
quando gli disse: «Fosti assetato di sangue, ed io ti
sazio di sangue». |
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Tamiri, regina degli Sciti, dichiarò guerra a Ciro, re
di Persia, poiché le aveva ucciso il figlio che aveva
fatto prigioniero. Sconfitti i Persiani e impadronitasi
del re, Tamiri lo fece decapitare e ne gettò la testa in
un otre pieno di sangue umano (Orosio - Adversus Paganos
Il, 7, 6). |
58 |
Mostrava
come in rotta si fuggiro
li Assiri, poi che fu morto Oloferne,
e anche le reliquie del martiro. |
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58 |
Mostrava come gli Assiri fuggirono
sconfitti, dopo la morte di Oloferne, e (mostrava) anche
i resti dello scempio fatto (relíquie del martiro: cioè
il cadavere decapitato di Oloferne). |
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Oloferne, a capo dell'esercito assiro, assediava Betulia,
città della Giudea, allorché venne ucciso da una donna
del luogo, Giuditta; dopo tale fatto il suo esercito si
ritirò in fuga disordinata (Giuditta VII, 1-3; VIII-XV). |
61 |
Vedeva Troia
in cenere e in caverne;
o Ilïón, come te basso e vile
mostrava il segno che lì si discerne! |
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61 |
Vedevo Troia ridotta in cenere e in
rovine: o rocca di Ilio, come ti presentava distrutta e
degna di derisione la raffigurazione che lì si vedeva! |
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Come ultimo esempio di superbia punita, Dante ricorda la
distruzione di Troia e del suoi orgogliosi cittadini,
ripetendo un giudizio che era stato dato da Virgilio
(Eneide III, 2-3).
Gli esempi di superbia punita sono tredici, uno per
terzina, con un'alternanza quasi perfetta di esempi
biblici e classici, poiché ogni momento della storia,
senza distinzione fra mito e realtà, si offre come utile
esempio. L'organizzazione dell'insieme è grandiosa e la
corrispondenza dei particolari precisa, secondo un tipo
di cultura e un gusto d'arte, resistenti al giudizio
estetico moderno, ma caratteristici del Medioevo, per il
quale la ricerca di struttura era espressione di una
suprema chiarezza mentale e la poesia si qualificava
come "invenzione elaborata secondo retorica e musica"
(De Vulgari Eloquentia Il, VI, 2), cioè manifestazione
di un gusto dello "ornato".
L'ordinamento strutturale e sintattico di questa parte
divide le terzine in tre gruppi di quattro terzine
ciascuno: quelle del primo gruppo iniziano con vedea,
quelle del secondo con o seguita (tranne che nel terzo
esempio) da un nome proprio, quelle del terzo con
mostrava, finché la terzina 61-63 ripete le tre formule
all'inizio dei suoi versi. Si forma in tal modo
un'acrostico (gli acrostici sono comunissimi nella
poesia medievale e ne avremo altri esempi nel Purgatorio
e nel Paradiso) : VOM, cioè UOM (poiché la V corrisponde
alla U secondo la grafia del tempo), essendo l'uomo in
questo momento sigla e sintesi di folle superbia. A
questi tre gruppi di terzine corrisponderebbero, secondo
il Parodi, tre categorie di superbi: i colpevoli contro
la divinità, i colpevoli contro se stessi, i colpevoli
contro il prossimo; i primi puniti da Dio, i secondi dal
loro rimorso, i terzi dai loro nemici, mentre la terzina
finale dedicata a Troia riassumerebbe quelle tre classi
di peccato. Secondo il Medin, il Barbi-Casini e il
Porena, gli esempi sarebbero dodici (essendo unico
quello di Briareo e dei giganti), sei biblici e sei
mitici. Il Marzot ritiene invece che le immagini siano,
allineate in due serie - una ebraica e una pagana - ai
lati della via e abbinate secondo la linea orizzontale e
verticale: così nei primi quattro specchi, a sinistra e
a destra, ci sarebbero gli attentatori della sovranità
divina (Lucifero e Nembrot, Briareo e i giganti); nei
secondi i denigratori della legge civile e degli dei
(Saul e Roboamo, Niobe e Aracne); nel terzo quelli che
fecero violenza agli altri per cupidigia (Sennacherib e
Oloferne, Erifile e Ciro). Per il Vallone i gruppi sono
quattro: Lucifero, Nembrot e Saul sono i superbi contro
la divinità; Roboamo, Sennacherib e Oloferne i superbi
contro i simili, gli uni e gli altri tratti dalla
Bibbia; Briareo con i giganti, Niobe e Aracne i superbi
contro la divinità; Almeone, Tamiri e Troia i superbi
contro i simili, gli uni e gli altri tratti dai miti. |
64 |
Qual di
pennel fu maestro o di stile
che ritraesse l'ombre e ' tratti ch'ivi
mirar farieno uno ingegno sottile? |
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64 |
Quale pittore o quale
disegnatore ci fu mai che sapesse ritrarre l'aspetto e i
contorni delle figure, che in quelle immagini
desterebbero l'ammirazione anche dell'intenditore più
raffinato? |
67 |
Morti li
morti e i vivi parean vivi:
non vide mei di me chi vide il vero,
quant' io calcai, fin che chinato givi. |
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67 |
I morti apparivano
veramente morti e i vivi veramente vivi: colui che vide
realmente quei fatti non vide meglio di me tutto quanto
io calcai con i miei piedi, finché procedetti a capo
chino. |
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L'acrostico costringe l'ispirazione del Poeta entro il
breve spazio di una terzina, ma in ciascuna ricorre il
motivo che la lega alle altre e all'impostazíone del
canto: la realtà del bene che vince il male e della
giustizia che si oppone alla violenza. "Quello che qui
domina è la solitudine, la devastazione, il silenzio. I
protagonisti sono dei vinti. Il loro potere è un segno
del passato. Il loro presente è una rovina. Ma non
urlano, non s'innalzano pieni d'ira e d'orgoglio.
Giacciono umiliati, scoperti in ogni loro errore,
tremendamente soli con il loro destino" (Vallone), ma
sottoposti ad un diverso giudizio da parte di Dante, che
flagella con forza epica i quadri della prima e della
terza serie, perché la colpa dei protagonisti si è
ripercossa, con tracce dolorose e fatali, sulla storia e
sulla natura, mentre il suo sguardo si ferma più
compassionevole, o almeno, meno ferocemente irridente,
su quelli della serie mediana, dove la creatura umana è
più sventurata che colpevole, traviata dalla debolezza e
dall'ambizione, più che dalla deliberata coscienza di
compiere il male.
Tutti i quadri, tuttavia, sono di una grandissima
evidenza figurativa, perché vengono dalla fantasia del
Poeta fissati nel momento culminante del dramma.
Lucifero è visto folgoreggiando scender, i giganti con
le membra sparte, Nembrot smarrito, Niobe con occhi
dolenti, Saul su la propria spada, Aracne trista,
Roboamo pien di spavento, Troia in cenere e in caverne. |
70 |
Or superbite,
e via col viso altero,
figliuoli d'Eva, e non chinate il volto
sì che veggiate il vostro mal sentero! |
|
70 |
Ora insuperbitevi, e
continuate pure a camminare a testa alta, o figli d'Eva,
e cercate di non meditare in modo da vedere la strada
sbagliata che seguite! |
73 |
Più era già
per noi del monte vòlto
e del cammin del sole assai più speso
che non stimava l'animo non sciolto, |
|
73 |
Avevamo già percorso una
parte del monte e avevamo speso una parte di tempo più
grandi di quanto pensasse il mio animo intento (ad
osservare i bassorilievi), |
76 |
quando colui
che sempre innanzi atteso
andava, cominciò: «Drizza la testa;
non è più tempo di gir sì sospeso. |
|
76 |
quando Virgilio che
procedeva attento a guardare sempre davanti a sé, disse:
«Solleva il capo; non bisogna più camminare così
assorto. |
79 |
Vedi colà un
angel che s'appresta
per venir verso noi; vedi che torna
dal servigio del dì l'ancella sesta. |
|
79 |
Osserva da quella parte un
angelo che si accinge a venire verso di noi; vedi che
l'ora sesta se ne torna dopo aver prestato il suo
servizio al giorno. |
|
La mitologia classica personificava le ore,
presentandole come ancelle al servizio del carro del
sole (Ovidio - Metamorfosi Il, versi 118 sgg.). Dante
con l'espressione dei versi 80-81 vuole indicare che è
già trascorso il mezzogiorno e che si è fermato nella
prima cornice circa due ore. |
82 |
Di reverenza
il viso e li atti addorna,
sì che i diletti lo 'nvïarci in suso;
pensa che questo dì mai non raggiorna!». |
|
82 |
Prepara il tuo volto e il
tuo atteggiamento a un sentimento di riverenza, in modo
che all'angelo piaccia permetterci di salire; pensa che
questo tempo non tornerà più!» |
85 |
Io era ben
del suo ammonir uso
pur di non perder tempo, sì che 'n quella
materia non potea parlarmi chiuso. |
|
85 |
Io ero talmente abituato
ai suoi continui ammonimenti intorno alla necessità di
non perdere il tempo, che su questo argomento non mi
poteva più parlare in modo oscuro. |
88 |
A noi venìa
la creatura bella,
biancovestito e ne la faccia quale
par tremolando mattutina stella. |
|
88 |
Veniva verso di noi la
bella creatura, vestita di bianco e (cosi splendente)
nel volto come appare scintifiando la stella del mattino
(Venere). |
91 |
Le braccia
aperse, e indi aperse l'ale;
disse: «Venite: qui son presso i gradi,
e agevolemente omai si sale. |
|
91 |
Aperse le braccia, e poi
aperse le ali: disse: «Venite: qui vicino ci sono i
gradini della scala, e ormai si può salire facilmente
(dopo aver eliminato il peccato della superbia)». |
|
La voce pacata di Virgilio orienta l'animo di Dante, che
pareva essersi fermato alla dura apostrofe contro i
superbi del mondo, ad una nuova disposizione,
psicologica e stilistica, che si conclude con un
richiamo solenne all'importanza dell'ora: pensa che
questo dì mai non raggiorna! L'apparizione dell'angelo
nella pienezza del fulgore del giorno consacra l'istante
più solenne del cammino di Dante nel purgatorio, perché
viene liberato dal primo peccato, che è anche la fonte
di tutti gli altri, e coincide con il momento più alato
del canto, "ove il riso delle poche cose che formano
l'angelo - un candore di veste, un moto di braccia a
tempo con un moto d'ale; un volto che il Poeta non può
descrivere, e rimanda al puro tremolio di stella
mattutina - avvolge l'animo di Dante nel mistero
gaudioso del Paradiso. Non c'è nulla di veramente
descritto, poiché ogni tratto che passa per gli occhi è
musicalmente fuso nell'idea di bellezza; e quel
movimento modulato rivela, da una lontananza profonda,
l'idea della bontà paterna che accoglie il cuore
pentito" (Marzot). |
94 |
A questo
invito vegnon molto radi:
o gente umana, per volar sù nata,
perché a poco vento così cadi?». |
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94 |
Pochissime anime
rispondono a questo invito: o uomini, creati per volare
in alto, perché vi abbattete così anche davanti a poche
tentazioni? |
97 |
Menocci ove
la roccia era tagliata;
quivi mi batté l'ali per la fronte;
poi mi promise sicura l'andata. |
|
97 |
Ci condusse
dove la roccia presentava un passaggio: qui batté con le
ali la mia fronte; poi mi promise che il cammino sarebbe
stato libero da impedimenti. |
|
Con il suo gesto l'angelo cancella dalla fronte di Dante
il primo dei sette P che gli erano stati impressi alla
porta del purgatorio: scompare così il primo peccato,
quello della superbia (base e fonte di tutti gli altri),
e di ciò Dante si accorgerà durante la salita al secondo
girone (versi 116 sgg.). |
100 |
Come a man
destra, per salire al monte
dove siede la chiesa che soggioga
la ben guidata sopra Rubaconte, |
|
100 |
Come dalla
parte destra, per salire al monte dove si trova la
chiesa che domina Firenze (la ben guidata: detto in
senso ironico) dalla parte del ponte di Rubaconte, |
103 |
si rompe del
montar l'ardita foga
per le scalee che si fero ad etade
ch'era sicuro il quaderno e la doga; |
|
103 |
l'ardito slancio della
salita viene interrotto per mezzo di una scalinata che
si fece in un tempo in cui i registri pubblici e le
pubbliche misure di capacità non venivano falsificati, |
|
La ripidità della scala tagliata nella roccia ricorda a
Dante quella della scalinata che da Firenze portava alla
chiesa di San Miniato al Monte dalla parte del ponte di
Rubaconte, chiamato poi ponte delle Grazie, il quale
doveva il suo primo nome al fatto che la sua costruzione
era stata iniziata nel 1237 sotto il podestà Rubaconte
di Mondello. Riaffiora nel cuore di Dante un motivo
polemico contro la sua città, alla quale ha già diretto
l'espressione ironica la ben guidata, e contro la sua
corruzione, di cui ricorda due episodi. Dei primo fu
protagonista Nicola Acciaioli, priore nel bimestre 15
agosto~15 ottobre 1299, il quale fece scomparire in quel
periodo alcuni atti o quaderni giudiziari dai documenti
di un processo a carico del podestà Monfiorito da Padova
(cfr. Compagni - Cronaca I, 19).
Nel secondo fatto, avvenuto nel 1283, un certo Donato
dei Chiaramontesi, incaricato della vendita del sale
alla cittadinanza, riceveva il sale secondo misure
regolari di staio, e lo metteva in commercio dopo aver
tolto per ogni staio una doga, facendo quindi diventare
più piccola la misura, per rivendere la parte restante
per conto proprio. Alla fine venne scoperto e
condannato. |
106 |
così
s'allenta la ripa che cade
quivi ben ratta da l'altro girone;
ma quinci e quindi l'alta pietra rade. |
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106 |
allo stesso modo diventa
più agevole il pendio che qui scende ripidissimo dal
girone superiore; ma (la scala è così stretta che)
dall'una e dall'altra parte l'alta parete rocciosa
sfiora (chi sale). |
109 |
Noi volgendo
ivi le nostre persone,
'Beati pauperes spiritu!' voci
cantaron sì, che nol diria sermone. |
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109 |
Mentre noi ci volgevamo
verso quella scala, una voce cantò «Beati i poveri in
spirito!» con tale dolcezza, che non si potrebbe
esprimerla con nessuna parola umana. |
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Le parole e il gesto dell'angelo, accompagnati dal
dolente commento di Dante (versi 94-96), hanno compiuto
uno dei tanti riti liturgici del Purgatorio, il rito
dell'assoluzione, dopo l'impositio (imposizione)
dell'angelo portiere e l'executio (esecuzione)
espiatoria, ma la conclusione è in quella voce
misteriosa che sorge improvvisa, e, all'epilogo della
narrazione, si staglia vigorosamente nell'atmosfera
trepidante delle anime e là rimane a lungo, oggetto di
riflessione, iniziando il canto delle beatitudini che
accompagnerà Dante verso il mondo delle anime sante. La
prima delle beatitudini evangeliche (Matteo V, 3) deve
essere intesa come esortazione all'umiltà e al disprezzo
dei beni terreni. Poiché in tutti gli altri gironi sarà
sempre un angelo a cantare le beatitudini, non c'è
motivo per pensare che qui cantino i penitenti o più
angeli: voci è solo "un plurale meramente stilistico" (D'Ovidio). |
112 |
Ahi quanto
son diverse quelle foci
da l'infernali! ché quivi per canti
s'entra, e là giù per lamenti feroci. |
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112 |
Ah quanto sono diverse
queste entrate da quelle infernali! perché in queste si
procede accompagnati da canti, e in quelle da gemiti di
dolore e di ira. |
115 |
Già montavam
su per li scaglion santi,
ed esser mi parea troppo più lieve
che per lo pian non mi parea davanti. |
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115 |
Già noi stavamo salendo
lungo i santi gradini, e mi pareva di essere molto più
leggiero di quanto non mi sembrava (di esserlo) prima
nella parte piana del girone. |
118 |
Ond' io:
«Maestro, dì, qual cosa greve
levata s'è da me, che nulla quasi
per me fatica, andando, si riceve?». |
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118 |
Per questo dissi:
«Maestro, spiegami, quale peso mi è stato tolto, che
quasi non avverto alcuna fatica, mentre procedo?» |
121 |
Rispuose:
«Quando i P che son rimasi
ancor nel volto tuo presso che stinti,
saranno, com' è l'un, del tutto rasi, |
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121 |
Rispose: «Quando i P che
sono rimasti ancora sulla tua fronte, anche se quasi
svaniti, saranno completamente cancellati come (lo è
stato) il primo, |
124 |
fier li tuoi
piè dal buon voler sì vinti,
che non pur non fatica sentiranno,
ma fia diletto loro esser sù pinti». |
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124 |
i tuoi piedi saranno così
guidati dalla tua buona volontà, che non solo non
sentiranno più fatica, ma sarà per loro una gioia essere
spinti a salire», |
127 |
Allor fec'
io come color che vanno
con cosa in capo non da lor saputa,
se non che ' cenni altrui sospecciar fanno; |
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127 |
Allora mi comportai come
coloro che camminano portando in testa qualcosa senza
saperlo, finché i gesti degli altri li mettono in
sospetto; |
130 |
per che la
mano ad accertar s'aiuta,
e cerca e truova e quello officio adempie
che non si può fornir per la veduta; |
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130 |
per cui la mano si sforza
di accertarlo, e cerca e trova e compie la funzione che
non si può esercitare con la vista; |
133 |
e con le
dita de la destra scempie
trovai pur sei le lettere che 'ncise
quel da le chiavi a me sovra le tempie: |
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133 |
e con le dita della mano
destra allargate costatai che erano solo sei i segni che
l'angelo portiere mi aveva inciso sulla fronte: |
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Chiude il canto un particolare realistico, un quadretto
di sorridente mimica, nel quale si dissolve la tensione
via via accumulatasi nella drammatica raffigurazione
della superbia: non momento inutile, ma elemento
strutturalmente importante, perché riporta il lettore,
con un frammento umano e familiare, alla disposizione
serena e pacata del Purgatorio. Ci piace osservare Dante
che, ancora incredulo dell'azione della Grazia in lui,
ne va cercando il segno visibile e Virgilio sorride di
quest'ultima debolezza, e sorride anche il lettore nel
trovare il Poeta pronto a mettere in rilievo la propria
comica ingenuità. |
136 |
a che
guardando, il mio duca sorrise. |
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136 |
Virgilio sorrise vedendo il mio gesto. |
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