1 |
«Chi è
costui che 'l nostro monte cerchia
prima che morte li abbia dato il volo,
e apre li occhi a sua voglia e coverchia?». |
|
1 |
«Chi è questo che percorre i gironi del
nostro monte prima che la morte abbia liberato la sua
anima dal corpo, e può aprire e chiudere gli occhi
secondo il suo desiderio?» |
|
Parla Guido del Duca degli Onesti, appartenente ad una
nobile famiglia di Ravenna. Di lui si hanno poche
notizie: fu ghibellino e ricoprì la carica di giudice a
Faenza, Rimini e in altre località della Romagna. Morì
intorno al 1250. |
4 |
«Non so chi
sia, ma so ch'e' non è solo;
domandal tu che più li t'avvicini,
e dolcemente, sì che parli, acco'lo». |
|
4 |
«Non so chi sia, ma so che non è solo:
domandaglielo tu che gli seì più vicino, e accoglilo con
cortese gentilezza, in modo che egli acconsenta a
parlare.» |
|
L'anima che risponde è quella di Rinieri dei Paolucci,
un nobile guelfo di Forlì. Fu podestà di Faenza, Parma,
Ravenna e di altre città dell'Italia centrale, e
partecipò fattivamente alle lotte politiche che
travagliarorio la Romagna fino alla sua. morte (1296). |
7 |
Così due
spirti, l'uno a l'altro chini,
ragionavan di me ivi a man dritta;
poi fer li visi, per dirmi, supini; |
|
7 |
Così due spiriti, l'uno
chinato verso l'altro, parlavano di me lì a destra; poi,
per potermi parlare, reclinarono indietro i loro visi, |
10 |
e disse
l'uno: «O anima che fitta
nel corpo ancora inver' lo ciel ten vai,
per carità ne consola e ne ditta |
|
10 |
e uno disse: «O anima che
procedi verso il cielo ancora legata al corpo; donaci
conforto in nome della carità e rivelaci |
13 |
onde vieni e
chi se'; ché tu ne fai
tanto maravigliar de la tua grazia,
quanto vuol cosa che non fu più mai». |
|
13 |
da dove vieni e chi sei, perché tu ci causi tanto
stupore per la grazia che ti è stata concessa, quanta ne
produce una cosa mai prima accaduta». |
16 |
E io: «Per
mezza Toscana si spazia
un fiumicel che nasce in Falterona,
e cento miglia di corso nol sazia. |
|
16 |
Ed io: «Nel centro della
Toscana scorre un fiumicello che nasce dal monte
Falterona, e non gli basta un corso di cento miglia. |
19 |
Di sovr'
esso rech' io questa persona:
dirvi ch'i' sia, saria parlare indarno,
ché 'l nome mio ancor molto non suona». |
|
19 |
Io nacqui da
un luogo situato lungo le sue rive: rivelarvi chi sono,
significherebbe parlare inutilmente, perché il mio nome
non è ancora molto noto». |
|
Nel silenzio ancora carico degli accenti antisenesi di
Sapìa si apre, senza alcun preludio, un dialogo che
immediatamente consegna il clima di alto sentire di
tutto il canto, attraverso la sensibilità delle due
anime, resa più acuta dalla loro cecità, la velata e
pensosa malinconia, la gentilezza, tutta umana e
intimamente caritatevole, nell'accogliere dolcemente chi
può aprire li occhi a sua voglia, l'accenno coperto di
Dante alla propria patria, dove il bel fiume d'Arno
(Inferno canto XXIII, verso 95) diventa un flumicel, non
solo per far suo il modo distaccato di guardare alle
cose, proprio di tutto il Purgatorio, ma per aprire la
via alle amare parole e all'invettiva di Guido del Duca
contro i territori bagnati dall'Arno. "L'accentuazione
drammatica si leverà a poco a poco ed essenzialmente
quando il grande tema del canto, il rimpianto del
passato cortese e la deprecazione del tempo presente
peccaminoso e corrotto, trarrà forza dalla vicenda,
umana e biografica di Dante e storia e poesia si
confonderanno insieme: il tema morale si collegherà con
la materia politica e anche la tecnica letteraria si
varrà della satira e di toni profetici e apocalittici
per esprimere l'accorato sentimento di offesa della
giustizia per placarsi nella finale immagine degli
eterni corsi dei cieli e delle loro mirabili bellezze" (Piromalli).
In tale senso i due canti dedicati agli invidiosi, oltre
ad essere momenti di un'unica sceneggiatura, su uno
sfondo figurativo opaco, aspro e nello stesso tempo
pietoso, nascono da una unitaria concezione drammatica,
perché il prorompere eloquente e oratorio del canto XIV,
dopo questo lento avvio, si propone come risultato
naturale di un tema e di un dialogo già avanzato nel
canto precedente, con ricercata gradualità di effetti e
di accenti. Il peccato dell'invidia è da Dante
considerato non come uno scambio di livore fra persona e
persona, ma come il contrario della carità di patria,
come pervertimento e accecamento di ogni senso morale e
civile. L'invidia della senese Sapìa, che dalla gioia
delli altrui danni perviene alla folle esultanza per la
sconfitta disastrosa della propria città, "traborda
nelle sue conseguenze..., dal danno del singolo
prossimo, a quello più lato della vita civile... Perciò
una configurazione drammatica e didascalica dell'invidia
non poteva che approdare a una conseguenza
etico-politica, e quindi a uno sbocco oratorio, e
attrarre pure sulla sua scia le passioni e le memorie
iraconde e nostalgiche dell'esule toscano, e « romagnolo
» per forza di eventi" (Grana). |
22 |
«Se ben lo 'ntendimento
tuo accarno
con lo 'ntelletto», allora mi rispuose
quei che diceva pria, «tu parli d'Arno». |
|
22 |
«Se io con la mia mente penetro bene nel contenuto della
tua spiegazione» mi rispose allora quello che prima
aveva parlato, «tu stai parlando dell'Arno.» |
25 |
E l'altro
disse lui: «Perché nascose
questi il vocabol di quella riviera,
pur com' om fa de l'orribili cose?». |
|
25 |
E l'altro gli disse: «Perché costui ha nascosto il nome
di quel fiume, proprio come si fa a proposito di cose
turpi?» |
28 |
E l'ombra
che di ciò domandata era,
si sdebitò così: «Non so; ma degno
ben è che 'l nome di tal valle pèra; |
|
28 |
E l'anima alla quale era
stata rivolta questa domanda si sdebitò (dell'obbligo di
rispondere) in questo modo: «Non lo so: ma è giusto che
perisca il nome di questa valle, |
31 |
ché dal
principio suo, ov' è sì pregno
l'alpestro monte ond' è tronco Peloro,
che 'n pochi luoghi passa oltra quel segno, |
|
31 |
perché dalla sua sorgente
(dal principio suo: dal Falterona), dove l'Appennino,
dal quale è staccato il monte Peloro, è così gonfio ed
elevato, che in pochi luoghi supera l'altezza del
Falterona, |
|
Dante nel verso 32 allude ad una tradizione di origine
classica, secondo la quale la Sicilia si staccò dalla
penisola in seguito a una scossa tellurica. |
34 |
infin là 've
si rende per ristoro
di quel che 'l ciel de la marina asciuga,
ond' hanno i fiumi ciò che va con loro, |
|
34 |
fino alla foce dove (il
fiume) si getta nel mare per ricompensarlo di quelle
acque che il sole (con l'evaporazione) gli ha sottratto,
dalla quale evaporazione i fiumi (con la pioggia e la
neve) derivano le loro acque, |
37 |
vertù così
per nimica si fuga
da tutti come biscia, o per sventura
del luogo, o per mal uso che li fruga: |
|
37 |
a tal punto la virtù è
evitata come una nemica da tutti così come un serpe, o
per una maledizione che viene dal luogo, o per una
malvagia consuetudine che li penetra nel profondo, |
40 |
ond' hanno
sì mutata lor natura
li abitator de la misera valle,
che par che Circe li avesse in pastura. |
|
40 |
che gli abitanti della
misera valle hanno così mutato la loro natura, che
sembrano essere stati nutriti da Circe. |
|
Il Poeta, per indicare lo stato di abiezione in cui sono
cadute le popolazioni dell'Arno, ricorda la
trasformazione in porci dei compagni di Ulisse operata
dalla maga Circe con i suoi incantesimi (pastura),
riprendendo la leggenda omerica attraverso Virgilio
(Eneide VII, versi 10-20), Orazio (Epistole I, II, versi
23-26), Ovidio (Metamorfosi XIV, versi 248 sgg.).
La perifrasi descrittiva (versi 16-18) che aveva colto
il fiume toscano da una cima ideale, piccolo alla
sorgente, per poi spaziarsi avidamente dalle sue modeste
origini, insaziato, per oltre cento miglia, era già una
metafora morale, una calzante personificazione polemica
della cupida anima toscana, ma ora il corso del fiume
viene rifatto attraverso "una apocalittica metamorfosi
che avvolge in una fosca visione infernale tutta la
regione toscana e le sue popolazioni", dove "i dati
reali, non pure della cronaca e della storia, ma
addirittura di una fisica topografica, di un paesaggio
così familiare e ridente, legato alla memoria affettiva
del Poeta, vengono... trascesi nell'assolutezza di un
giudizio storico-politico e morale, nel quale hanno
rilevanza solo la virtù e il vizio, i costumi
riprovevoli degli uomini; così che la loro condanna si
riflette sulla stessa natura dei luoghi, dove la virtù
si fuga da tutti come biscia" (Grana) : in un crescendo
pauroso la Toscana e la Romagna, i limiti geografici
della vicenda terrena di Dante, diventano "una specie
d'inferno" (Pistelli) , una misera valle (verso 41) ,
una maladetta e sventurata fossa (verso 51) . Guido del
Duca è la voce accorata di Dante che considera con
amarezza la realtà morale e sociale del suo tempo,
quanto più si accosta ai temi dell'esperienza personale
e sofferta e "come Gioacchino da Fiore Dante avverte il
problema fondamentale del suo tempo, quello del Medioevo
feroce nel quale viveva e che nei costumi e nelle stirpi
era andato sempre più degenerando, come un problema
morale. La condanna della lotta dell'uomo contro l'uomo
e le voci invocanti la pace e la giustizia, la
deprecazione della violenza dentro la stessa città in
cui si lottano quei che un muro ed una fossa serra si
esprimono in Dante con forza polemica che condanna i
vizi e i disordini dell'ordinamento comunale" (Piromalli).
Per questo anche il linguaggio si trasforma in eloquenza
calda e serrata, con un ordine sintattico accuratamente
elaborato, che dopo aver concluso il primo ritmo del
respiro spirituale di questa invettiva nella descrizione
del corso del fiume, introduce, con la figura di Circe e
dei suoi incantesimi, l'immagine medievale della valle
abitata da bestie. |
43 |
Tra brutti
porci, più degni di galle
che d'altro cibo fatto in uman uso,
dirizza prima il suo povero calle. |
|
43 |
Dispiega dapprima il suo corso povero
d'acqua tra sudici porci, più degni di ghiande che di
altri cibi fatti ad uso degli uomini. |
|
Il primo tratto dell'Arno scorre nell'alto Casentino, i
cui abitanti vengono presentati come brutti porci, o per
alludere alla loro condizione di vita molto primitiva o
per il fatto che si dedicavano particolarmente
all'allevamento dei suini. Secondo altri commentatori,
invece, il nome deriverebbe dal castello di Porciano (ai
piedi del Falterona), dimora di un ramo dei conti Guidi. |
46 |
Botoli trova
poi, venendo giuso,
ringhiosi più che non chiede lor possa,
e da lor disdegnosa torce il muso. |
|
46 |
Trova poi, scendendo verso il piano,
cani ringhiosi più di quanto richiederebbe la loro
forza, e si allontana da loro con disdegno. |
|
Botoli sono gli Aretini, "perché botoli sono cani
piccoli da abbaiare più che da altro; e così dice che
sono li Aretini, atti ad orgoglio più che a forze" (Buti).
La valle dell'Arno, presso Arezzo, compie una grande
curva (torce il muso) verso occidente, formando il
Valdarno superiore. |
49 |
Vassi
caggendo; e quant' ella più 'ngrossa,
tanto più trova di can farsi lupi
la maladetta e sventurata fossa. |
|
49 |
Procede scendendo; e quanto più la
maledetta e sventurata valle si va allargando, tanto più
trova cani che si trasformano in lupi. |
|
I cani aretini cedono il posto ai lupi fiorentini, "li
quali come lupi affamati intendono all'avarizia e
all'acquisto per ogni modo, con violenza e rubamento e
sottomettendo li loro vicini" (Buti). |
52 |
Discesa poi
per più pelaghi cupi,
trova le volpi sì piene di froda,
che non temono ingegno che le occùpi. |
|
52 |
Disceso poi attraverso numerosi
profondi passaggi, trova volpi così piene di astuzia,
che non temono trappole capaci di sorprenderle. |
|
L'Arno, dopo essersi incassato nei pelaghi cupi del
Valdarno inferiore, giunge a Pisa, i cui abitanti sono
paragonati "alle volpi per la malizia; imperò che li
pisani sono astuti e coll'astuzia più che colla forza si
rimediano dai loro vicini" (Buti). |
55 |
Né lascerò
di dir perch' altri m'oda;
e buon sarà costui, s'ancor s'ammenta
di ciò che vero spirto mi disnoda. |
|
55 |
Né cesserò di parlare per il fatto che
un altro (perch'altri: cioè Rinieri) mi ascolta; e sarà
utile a costui (Dante), se si ricorderà anche di ciò che
una verace ispirazione mi rivela. |
|
Guido del Duca afferma di parlare per puro amore di
verità: le sue parole saranno motivo di dolore per
Rinieri, che udrà preannunciare le malvage azioni del
nipote Fulcieri, ma a Dante esse, anche se amare,
permetteranno di sopportare meno duramente i mali futuri
di Firenze, perché quelle sventure non gli giungeranno
inaspettate. |
58 |
Io veggio
tuo nepote che diventa
cacciator di quei lupi in su la riva
del fiero fiume, e tutti li sgomenta. |
|
58 |
Vedo tuo nipote diventare
cacciatore di quei lupi lungo le rive del crudele fiume,
spargendo fra loro il terrore. |
61 |
Vende la
carne loro essendo viva;
poscia li ancide come antica belva;
molti di vita e sé di pregio priva. |
|
61 |
Vende la loro carne ancora
viva; poi li uccide come belva inveterata nella sua
ferocia: priva molti della vita e se stesso dell'onore. |
64 |
Sanguinoso
esce de la trista selva;
lasciala tal, che di qui a mille anni
ne lo stato primaio non si rinselva». |
|
64 |
Esce macchiato di sangue
dalla sciagurata selva (da Firenze); e la lascia in uno
stato tale, che neppure fra molti anni potrà risorgere
ritornando nella primitiva condizione». |
|
I veggio tuo nepote:
Fulcieri da Calboli divenne podestà di Firenze nel 303
e, per conservare la sua carica oltre il termine
stabilito di sei mesi, fece strumento della politica dei
Neri contro i Bianchi e i Ghibellini. Il Villani, in un
passo della sua Cronaca VIII, 59), lo definisce "uomo
feroce crudele", rivelando anche il nome dei cittadini
fiorentini che, benché innocenti, egli fece condannare a
morte, per avere l'appoggio dei Neri: vende la carne
loro essendo viva.
Nei versi 43-54 la storia era diventata un "attuale mito
di bestie, ora sconcie, ora vili, ora feroci, ora
perfide" (Grabher) : tale mito trova il suo
completamento naturale in un annuncio di sciagure
pubbliche, in una rivelazione tragica e barbara, dove di
validissimo effetto poetico è l'aver fatto pronunciare
la profezia (io veggio) da un cieco, per cui essa pare
acquistare l'intensità che può provenire da una visione
tutta interiore. "Continuando e sviluppando
coerentemente l'emblematica fluviale e ferina, la
figurazione esaspera i motivi d'ispirazione infernale,
con l'irrompere di una figura nuova, una sorta di
demonio sanguinario che sulla riva del fiero fiume e su
quei lupi pare eserciti una superiore vendetta, ma a sua
volta atteggiandosi ferocemente come antica belva. E
quindi i lupi sono ora vittime sgomente, e il nuovo
misfatto è tale da convertire la riva del fiume in una
trista selva". (Grana) In questa immagine, e davanti ai
secoli che non basteranno a risollevarla, Firenze si
trasforma agli occhi dell'esule, che la vede straziata
dalle lotte di parte, e grandeggia nella pietà che
ispira, cosicché la satira si cambia in un momento
vibrante e lirico, nel quale la catastrofe morale e
civile della città è dolorosamente rivissuta attraverso
il profondo legame d'affetto che lega il Poeta alla sua
patria. |
67 |
Com' a
l'annunzio di dogliosi danni
si turba il viso di colui ch'ascolta,
da qual che parte il periglio l'assanni, |
|
67 |
Come all'annunzio di gravi
danni si turba il volto di chi ascolta, da qualunque
parte il pericolo lo minacci, |
70 |
così vid' io
l'altr' anima, che volta
stava a udir, turbarsi e farsi trista,
poi ch'ebbe la parola a sé raccolta. |
|
70 |
allo stesso modo io vidi
l'altra anima, che era tutta volta ad ascoltare,
turbarsi e diventare preoccupata, dopo avere accolto e
meditato quella profezia. |
73 |
Lo dir de
l'una e de l'altra la vista
mi fer voglioso di saper lor nomi,
e dimanda ne fei con prieghi mista; |
|
73 |
Le parole della prima
anima e l'aspetto dell'altra mi resero desideroso di
conoscere i loro nomi, e a questo proposito rivolsi loro
una domanda unita a preghiera; |
76 |
per che lo
spirto che di pria parlòmi
ricominciò: «Tu vuo' ch'io mi deduca
nel fare a te ciò che tu far non vuo'mi. |
|
76 |
per la qual cosa lo
spirito che mi aveva parlato in precedenza riprese a
dire: «Tu vuoi che io m'induca a fare nei tuoi confronti
ciò che tu non vuoi fare nei miei (nascondendomi il tuo
nome). |
79 |
Ma da che
Dio in te vuol che traluca
tanto sua grazia, non ti sarò scarso;
però sappi ch'io fui Guido del Duca. |
|
79 |
Ma dal momento che Dio
vuole che in te traspaia tanto la sua Grazia, non ti
sarò avaro delle mie parole; perciò sappi che io sono
Guido del Duca. |
82 |
Fu il sangue
mio d'invidia sì rïarso,
che se veduto avesse uom farsi lieto,
visto m'avresti di livore sparso. |
|
82 |
La mia anima arse a tal
punto d'invidia, che se avesse visto uno mostrarsi
contento, mi avresti visto diventare livido. |
85 |
Di mia
semente cotal paglia mieto;
o gente umana, perché poni 'l core
là 'v' è mestier di consorte divieto? |
|
85 |
Da quello che ho seminato (di mia
semente: l'invidia) raccolgo questa paglia: o uomini,
perché rivolgete l'anima ai beni terreni dove è
necessaria (per poterli godere) l'esclusione di altri
che ne siano partecipi? |
|
Guido del Duca nella sua apostrofe contro l'amore dei
beni terreni usa un linguaggio giuridico, ricorrente in
una legge degli Statuti comunali del tempo, in base alla
quale se un cittadino ricopriva determinate cariche, i
suoi "consorti", cioè i membri della sua famiglia, ne
restavano esclusi, ricevendo il "divieto" di
parteciparvi. |
88 |
Questi è
Rinier; questi è 'l pregio e l'onore
de la casa da Calboli, ove nullo
fatto s'è reda poi del suo valore. |
|
88 |
Questo è Rinieri; questo è
il prestigio e l'onore della casata da Calboli, dove in
seguito nessuno si è fatto erede della sua virtù. |
91 |
E non pur lo
suo sangue è fatto brullo,
tra 'l Po e 'l monte e la marina e 'l Reno,
del ben richesto al vero e al trastullo; |
|
91 |
E tra il Po, l'Appennino,
il mare e il Reno (cioè nella Romagna) non solo la sua
famiglia è diventata priva delle virtù necessarie ai
bisogni concreti della vita e ai suoi lati piacevoli, |
94 |
ché dentro a
questi termini è ripieno
di venenosi sterpi, sì che tardi
per coltivare omai verrebber meno. |
|
94 |
perché (il territorio)
entro questi confini è a tal punto pieno di piante
velenose, che, per quanto esso si coltivi, si
estirperebbero ormai troppo tardi. |
97 |
Ov' è 'l
buon Lizio e Arrigo Mainardi?
Pier Traversaro e Guido di Carpigna?
Oh Romagnuoli tornati in bastardi! |
|
97 |
Dov'è il
nobile Lizio e Arrigo Manardi? Piero dei Traversari e
Guido di Carpegna? Oh Romagnoli cambiati in bastardi! |
|
Lizio di Valbona, Arrigo Manardi di Bertinoro, Piero dei
Traversari, Guido di Carpegna sono signori romagnoli
vissuti nel secolo XIII. |
100 |
Quando in
Bologna un Fabbro si ralligna?
quando in Faenza un Bernardin di Fosco,
verga gentil di picciola gramigna? |
|
100 |
Quando a Bologna tornerà a rivivere un
Fabbro? quando a Faenza un Bernardino di Fosco, nobile
virgulto venuto da un'umile erba? |
|
Fabbro dei Lambertazzi appartenne ad un'antica famiglia
bolognese e guidò il partito dei Ghibellini romagnoli
fino alla sua morte (1259).
Bernardino di Fosco fu un faentino di umili origini, che
ricoprì la carica di podestà di Pisa e di Siena. |
103 |
Non ti
maravigliar s'io piango, Tosco,
quando rimembro, con Guido da Prata,
Ugolin d'Azzo che vivette nosco, |
|
103 |
Non ti stupire, se io
piango, o Toscano, quando ricordo insieme con Guido da
Prada Ugolino d'Azzo, che visse tra noi Romagnoli, |
106 |
Federigo
Tignoso e sua brigata,
la casa Traversara e li Anastagi
(e l'una gente e l'altra è diretata), |
|
106 |
Federigo Tignoso e la sua
compagnia, la casata dei Traversari e gli Anastagi (ma
l'una e l'altra famiglia si sono, estinte), |
109 |
le donne e '
cavalier, li affanni e li agi
che ne 'nvogliava amore e cortesia
là dove i cuor son fatti sì malvagi. |
|
109 |
le donne e i cavalieri, le
difficili imprese e i raffinati dilettamenti dei quali
l'amore e la cortesia suscitavano in noi il desiderio là
(in Romagna) dove gli animi sono diventati cosi crudeli. |
|
Guido da Prada (nel Faentino) visse tra la fine del XII
e l'inizio del XIII secolo. Ugolino d'Azzo, della nobile
casata toscana degli Ubaldini, morì nel 1232, dopo aver
trascorso la maggior parte della sua esistenza nella
Romagna.
Federigo Tignoso nacque probabilmente a Rimini, e fu
generoso e cortese come la brigata che lo circondava.
Sappiamo dell'esistenza di queste compagnie o
associazioni mondane e aristocratiche nella società del
'200 da storici e scrittori del tempo. Dante stesso vi
allude nel canto XXIX, verso 130 dell'Inferno.
Al tempo del Poeta due fra le più potenti e antiche
famiglie di Ravenna, quella dei Traversari e quella
degli Anastagi, erano in piena decadenza.
Dante nel Convivio (II, X, 8) afferma che "cortesia e
onestade è tutt'uno: e però che ne le corti anticamente
le vertudi e li belli costumi s'usavano, sì come oggi
s'usa lo contrario, si tolse quello vocabulo da le
corti, e fu tanto a dire cortesia quanto uso di corte".
Sono parole che aiutano a comprendere questa parte del
canto, nella quale l'indignazione di fronte al tempo
presente si scioglie in una elegiaca, nostalgica lode
del passato, motivo che verrà ripreso nel canto XVI e
che costituirà il tema patetico - nato dai sentimenti e
dai ricordi dell'esule nonché dalle sue aspirazioni ad
una vita rnigliore - non solo dei canti centrali del
Purgatorio, ma anche di quelli del Paradiso: "è come un
ripiegarsi dell'animo su di sé e scoprire al di là della
triste realtà, che suscita gli sdegni e li fa violenti;
una regione in cui lo spirito pur piangendo riposa: il
mondo dell'antica cortesia, e lo spirito trova nel
vagheggiamento di questo mondo uno dei motivi più
profondi di sé" (Malagoli).
In un lungo discorso, che pur in un diverso tono
affettivo, conserva il movimento oratorio di quello che
lo ha preceduto, Dante, attraverso le parole di Guido,
rievoca il mondo in cui ha trascorso la sua giovinezza,
il mondo che amava ancora la cortesia e le virtù
individuali, e che aveva fatto proprio un modo di vita
lieta, elegante e operosa. Egli delinea, nota il
Mattalia il quadro idealizzato, di una società
feudale-cavalleresca, quale risulta dall'incontro del
raffinato mondo cantato dalla poesia provenzale con
quello, altrettanto raffinato, ma più ricco di fatti
guerrieri, della poesia e della narrativa brettone, "in
rìlevante e certamente intenzionale contrasto col quadro
della rissosa ed esagitata Romagna "tirannica" delineato
nel canto XXVII dell'Inferno, e nella figurazione del
quale Dante ribadisce il suo atteggiamento e i suoi
gusti di aristocratico conservatore, fieramente, avverso
al livellamento e alla degradazione del costume portati
dall'avvento della borghesia plutocratica e
mercantilesca: che sarà detto in più chiare e dure note,
nei canti XV e XVI del Paradiso", anche se, occorre
rilevare, la "cortesia" per Dante non è retaggio di
sangue, ma interiore perfezione, gentilezza di uomini
dotati di cuore generoso (nella rassegna di Guido,
infatti, viene esaltato anche chi divenne grande e
gentil, pur uscendo da picciola gramigna), che però
"s'ingentilirono in una società formata da donne e
cavalieri viventi tra i nobili svaghi della pace" (Piromalli).
Per questo Dante fa piangere Guido del Duca (versi
124-126), e più tardi Marco Lombardo, sulla fine del
mondo cavalleresco, quando l'amore per una donna armava
il braccio nei tornei o i castelli aprivano le porte per
accogliere generosamente ì cavalieri: due versi cantano
nel loro ritmo melodico quel sogno di eleganza e di
nobiltà, donne é cavalier, li affanni e li agi che ne 'nvogliava
amore e cortesia, diventando non solo il centro ideale
del canto, ma la formula-sintesi di quel mondo, raccolta
prima dal Boccaccio e poi dall'Ariosto nel famoso
proemio dell'Orlando Furioso. |
112 |
O Bretinoro,
ché non fuggi via,
poi che gita se n'è la tua famiglia
e molta gente per non esser ria? |
|
112 |
O Bertinoro, perché non scompari, dal
momento che si è estinta la famiglia dei tuoi signori e
molte altre famiglie nobili (sono scomparse) per non
corrompersi? |
|
Bertinoro era una città fra Cesena e Forlì, sede dei
Mainardi, che si estinsero nel 1177, e famosa per la
"cortesia" dei suoi gentiluomini. |
115 |
Ben fa
Bagnacaval, che non rifiglia;
e mal fa Castrocaro, e peggio Conio,
che di figliar tai conti più s'impiglia. |
|
115 |
Fa bene la casata di
Bagnacavallo (i conti Malvicini, signori dei luoghi fra
Lugo e Ravenna), che non ha più discendenti; e fa male
quella di Castrocaro (in Val Montone), e peggio quella
di Conio (vicino ad Imola), che si dà ancora briga di
mettere al mondo conti così degeneri. |
118 |
Ben faranno
i Pagan, da che 'l demonio
lor sen girà; ma non però che puro
già mai rimagna d'essi testimonio. |
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118 |
Faranno bene i Pagani (a
continuare la loro stirpe), dopo che sarà scomparso il
loro diabolico rappresentante; ma non per questo accadrà
che di loro possa più rimanere una testimonianza pura. |
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I Pagani, signori di Faenza, ebbero in Maghinardo da
Susinana (cfr. Inferno canto XXVII, versi 49-51) il loro
peggiore esponente anche dopo la sua morte (1302) la
fama della famiglia resterà rovinata. |
121 |
O Ugolin de'
Fantolin, sicuro
è 'l nome tuo, da che più non s'aspetta
chi far lo possa, tralignando, scuro. |
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121 |
Ugolino dei Fantolini, il tuo nome è
sicuro, dal momento che non si aspetta più un
discendente che lo possa oscurare, uscendo dalla retta
via. |
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Ugolino dei Fantolini fu un faentino di parte guelfa,
signore di alcuni castelli della Romagna, morto nel 1278
lasciando due figli che morirono alcuni anni dopo senza
discendenti. |
124 |
Ma va via,
Tosco, omai; ch'or mi diletta
troppo di pianger più che di parlare,
sì m'ha nostra ragion la mente stretta». |
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124 |
Ma allontanati ormai, o
Toscano, perché ora sento molto desiderio di piangere
più che di parlare, a tal punto il nostro colloquio mi
ha attanagliato l'animo». |
127 |
Noi sapavam
che quell' anime care
ci sentivano andar; però, tacendo,
facëan noi del cammin confidare. |
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127 |
Noi sapevamo che quelle
anime nobili ci sentivano camminare; perciò, con il loro
silenzio, ci rendevano sicuri della nostra. strada. |
130 |
Poi fummo
fatti soli procedendo,
folgore parve quando l'aere fende,
voce che giunse di contra dicendo: |
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130 |
Dopo che, continuando a
procedere, restammo soli, apparve come una folgore
quando squarcia l'aria, una voce che risuonò davanti a
noi dicendo: |
133 |
'Anciderammi
qualunque m'apprende';
e fuggì come tuon che si dilegua,
se sùbito la nuvola scoscende. |
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133 |
«Mi ucciderà chiunque mi
troverà»; e scomparve come un tuono che dilegua, quando
all'improvviso squarcia la nuvola. |
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Anche gli esempi di invidia punita, come quelli di
carità (cfr. canto XIII, versi 25-36), sono gridati ad
alta voce. Il primo ripete le parole che Caino pronunciò
dopo l'uccisione del fratello Abele, consapevole della
maledizione divina che lo avrebbe perseguitato. |
136 |
Come da lei
l'udir nostro ebbe triegua,
ed ecco l'altra con sì gran fracasso,
che somigliò tonar che tosto segua: |
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136 |
Quando non la udimmo più,
ecco la seconda voce con tale fragore, che sembrò un
tuono che segua subito quello precedente: |
139 |
«Io sono
Aglauro che divenni sasso»;
e allor, per ristrignermi al poeta,
in destro feci, e non innanzi, il passo. |
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139 |
«Io sono Aglauro che fui
trasformata in sasso»; ed allora, per stringermi tutto a
Virgilio, mi mossi verso destra invece che avanti. |
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Il secondo esempio ricorda l'invidia di Aglauro, figlia
di Cecrope. re d'Atene, nei confronti della sorella
Erse, amata da Mercurio. Per punizione il dio la
trasformò in pietra. |
142 |
Già era
l'aura d'ogne parte queta;
ed el mi disse: «Quel fu 'l duro camo
che dovria l'uom tener dentro a sua meta. |
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142 |
Ormai l'aria era
tranquilla da ogni parte; ed egli mi disse: «Quello che
hai udito è il duro freno che dovrebbe trattenere gli
uomini entro i giusti limiti. |
145 |
Ma voi
prendete l'esca, sì che l'amo
de l'antico avversaro a sé vi tira;
e però poco val freno o richiamo. |
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145 |
Ma voi vi lasciate
adescare dai beni mondani, così che l'amo del demonio
(antico avversaro) vi attira a sé e perciò poco serve il
freno o il richiamo. |
148 |
Chiamavi 'l
cielo e 'ntorno vi si gira,
mostrandovi le sue bellezze etterne,
e l'occhio vostro pur a terra mira; |
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148 |
Il cielo vi chiama e vi
ruota intorno, mostrandovi le sue eterne bellezze,
eppure i vostri occhi guardano soltanto verso terra; |
151 |
onde vi
batte chi tutto discerne». |
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151 |
e per questo vi punisce
Colui che tutto conosce». |