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DIVINA
COMMEDIA: PARAFRASI
PURGATORIO
CANTO XVI° |
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1 |
Buio
d'inferno e di notte privata
d'ogne pianeto, sotto pover cielo,
quant' esser può di nuvol tenebrata, |
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1 |
Le tenebre dell'inferno e di una notte priva di luna e
di stelle, osservata da una stretta valle con orizzonte
limitato, e oscurata quanto più possibile da nuvole, |
4 |
non fece al
viso mio sì grosso velo
come quel fummo ch'ivi ci coperse,
né a sentir di così aspro pelo, |
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4 |
non stesero mai sui miei
occhi un velo così denso, né così pungente e fastidioso
a sentirsi, come quel fumo che lì ci avvolse, |
7 |
che l'occhio
stare aperto non sofferse;
onde la scorta mia saputa e fida
mi s'accostò e l'omero m'offerse. |
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7 |
così che gli occhi non
riuscirono a restare aperti: perciò la mia guida esperta
e sicura si accostò a me e mi offerse (come appoggio) la
sua spalla. |
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Il motivo delle tenebre che nella terza cornice del
purgatorio avvolgono le anime degli iracondi e che
renderanno difficoltoso il procedere dei due pellegrini
è introdotto, nella prima terzina, attraverso un
succedersi incalzante di determinazioni, mentre la
seconda terzina, porgendo, in forma negativa (non
fece... né a sentir), il medesimo tema, determina un
effetto di iperbole. Il fummo, che nel primi tre versi è
stato riallacciato a una serie di riferimenti oggettivi,
è qui considerato nel suo riflettersi nella memoria del
narratore: anche se sommati insieme, tutti i raffronti
suggeritigli dalla sua esperienza nel mondo dei vivi
appaiono a Dante inadeguati a rendere l'assolutezza del
buio in cui sì trovò immerso nel terzo girone e la sua
sgradevole materialità. Dalla situazione presentata con
tanto scrupolo di oggettiva evidenza nei primi sei
versi, scaturisce naturalmente l'azione: Dante non è più
in grado di avanzare da solo, ha bisogno di ricorrere,
nel significato più immediato della parola, al sostegno
della sua guida, è nelle condizioni di un cieco. Il
motivo delle tenebre dell'ira assumerà nel corso del
canto, interiorizzandosi, un significato sempre più
ampio e traslato, si trasfigurerà in quello, spirituale
e ricco di echi biblici, della cecità che il vivere
stesso comporta, dell'imperfetto discernimento di chi è
gravato dal peso della carne. |
10 |
Sì come
cieco va dietro a sua guida
per non smarrirsi e per non dar di cozzo
in cosa che 'l molesti, o forse ancida, |
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10 |
Allo stesso modo in cui un
cieco segue la sua guida per non smarrire la via e non
urtare contro qualcosa che gli faccia male, o forse
anche lo uccida, |
13 |
m'andava io
per l'aere amaro e sozzo,
ascoltando il mio duca che diceva
pur: «Guarda che da me tu non sia mozzo». |
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13 |
io camminavo attraverso quel fumo acre e nero,
ascoltando la mia guida che mi diceva di continuo: "Sta
attento a non separarti da me". |
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Dante sì appoggia all'omero di Virgilio come un cieco:
la forza di questo raffronto, che in un autore di minor
capacità di adesione al reale rischierebbe di
banalizzarsi nella genericità del luogo comune o di
suscitare amplificazioni retoriche, scaturisce dalle
precisazioni cui la simmetrica, bilanciata disposizione
nei quattro emistichi conferisce risalto, quasi
isolandole nel fluire del discorso - dei versi 11-12. La
concretezza del suo rappresentare induce Dante a
trasferire un generico e prevedibile riferimento nella
cornice di un accadere effettivo, delineato con mano
ferma in quelle che ne sono le circostanze essenziali. |
16 |
Io sentia
voci, e ciascuna pareva
pregar per pace e per misericordia
l'Agnel di Dio che le peccata leva. |
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16 |
Io udivo delle voci, e
ciascuna sembrava pregare per ottenere pace e
misericordia l'Agnello di Dio che toglie i peccati. |
19 |
Pur 'Agnus
Dei' eran le loro essordia;
una parola in tutte era e un modo,
sì che parea tra esse ogne concordia. |
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19 |
Sempre
"Agnello di Dio" era il loro inizio; tutte recitavano la
stessa preghiera e con la stessa intonazione, cosicché
tra di loro appariva il più perfetto accordo. |
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La preghiera che le anime recitano o cantano è quella
liturgica dell'Agnus Dei, che, come durante la
celebrazione della Messa, viene ripetuta tre volte per
chiedere a Cristo-Agnello di Dio, che si sacrificò per
l'umanità (Giovanni I, 29), misericordia (nei primi due
versetti) e pace (nell'ultimo).
Le anime che in vita si lasciarono trasportare alla
violenza e alla discordia dall'ira, non più guidata dal
freno della ragione e volta a fini morali, appaiono, per
la pena del contrappasso, circondate da un denso fumo,
mentre le loro voci, nell'accordo più perfetto (ogne
concordia), chiedono, invece delle divisioni e delle
lotte di un tempo, pace e misericordia.
Un'efficace contrapposizione si stabilisce tra il tema
del fummo dell'ira - passione che preclude ogni forma di
comunicazione, di amore - e quello del coro delle anime
espianti. Nella dura, compatta trama sintattica
dell'esordio, già il primo accenno al motivo della
cecità ha insinuato un ritmo più trepido, umano. Il coro
degli spiriti afferma ora - esaltando, nelle cadenze
dell'inno latino, il volontario olocausto del Figlio di
Dio - la fertile, inesauribile positività del dolore.
Nelle terzine 16 e 19 ogni particolare risulta sfumato,
ogni stridente forma di individuazione è abolita (io
sentia voci, e ciascuna pareva... sì che parea...); il
Poeta appare esitante nel definire in termini troppo
decisi la consistenza fisica, sensibile delle forme da
lui udite; l'accento è posto sul dato interiore, sulla
mitezza ed unanimità del sentire, sulla concordia
raggiunta nella rinuncia e nella dedizione. |
22 |
«Quei sono
spirti, maestro, ch'i' odo?»,
diss' io. Ed elli a me: «Tu vero apprendi,
e d'iracundia van solvendo il nodo». |
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22 |
"Maestro, quelli che io ascolto sono anime?" domandai. E
Virgilio mi rispose: "Tu hai colto nel segno, e si
stanno purificando dal peccato dell'iracondia". |
25 |
«Or tu chi
se' che 'l nostro fummo fendi,
e di noi parli pur come se tue
partissi ancor lo tempo per calendi?». |
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25 |
"Chi sei tu che passando tagli il nostro fumo, e parli
di noi proprio come se tu fossi ancora vivo (partissi
ancor lo tempo per calendi: dividessi ancora il tempo
per mesi)" |
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La rappresentazione si anima, inclina verso un movimento
drammatico. Alla pacata risposta di Virgilio bruscamente
fanno seguito parole come di sfida, di cruccio, che uno
degli spiriti indirizza a Dante. L'espressione or tu chi
se' è la stessa con la quale nell'Inferno Bocca degli
Abati si è rivolto al Poeta (XXXII, 88). L'anima che qui
l'ha pronunciata non è ancora libera dal nodo dell'ira.
L'effetto di quest'apostrofe (verso 25) è accresciuto
dalla aspra allitterazione che occupa il secondo
emistichio (dove il fendi esprime energicamente la
consistenza materiale del fummo, la sua funzione di
impedimento sul cammino della penitenza), nonché dalla
contrapposizione del tu al nostro (il fummo, strumento
di purificazione, appare allo spirito come un privilegio
cui un vivo non dovrebbe avere diritto). Di qui
l'impressione che quest'anima consideri Dante alla
stregua di un intruso da respingere; analogo era stato
il tono ma senza la sfumatura di quasi superba
sufficienza che caratterizza queste prime parole
dell'iracondo - dell'apostrofe di Catone ai due
viandanti appena usciti dalla valle inferna.
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28 |
Così per una
voce detto fue;
onde 'l maestro mio disse: «Rispondi,
e domanda se quinci si va sùe». |
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28 |
Così fu detto da una voce;
perciò il mio maestro, mi disse: «Rispondi, e chiedi se
da questa parte si può salire». |
31 |
E io: «O
creatura che ti mondi
per tornar bella a colui che ti fece,
maraviglia udirai, se mi secondi». |
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31 |
E io: «O creatura che ti
purifichi per tornare; ridiventata bella, al tuo
Creatore, se mi accompagni udrai da me cosa degna di
meraviglia». |
34 |
«Io ti
seguiterò quanto mi lece»,
rispuose; «e se veder fummo non lascia,
l'udir ci terrà giunti in quella vece». |
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34 |
«Io ti accompagnerò fin
dove mi è permesso» rispose; «e se il fumo non ci
permette di vederci, invece della vista ci terrà uniti
l'udito.» |
37 |
Allora
incominciai: «Con quella fascia
che la morte dissolve men vo suso,
e venni qui per l'infernale ambascia. |
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37 |
Allora cominciai a dire:
«Sto salendo verso l'alto con quel corpo che la morte
dissolverà, e sono arrivato qui attraversando i tormenti
dell'inferno. |
40 |
E se Dio
m'ha in sua grazia rinchiuso,
tanto che vuol ch'i' veggia la sua corte
per modo tutto fuor del moderno uso, |
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40 |
E se è vero che Dio mi ha
avvolto nella sua Grazia, tanto da volere che io salga a
contemplare la corte celeste in un modo del tutto
inusitato nel nostro tempo, |
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Il viaggio attraverso il mondo ultraterreno era stato
concesso solo ad Enea (cfr. Virgilio - Eneide, canto VI)
e a San Paolo (II Epistola ai Corinti), come Dante ha
già ricordato nel II canto dell'Inferno (versi 13 sgg.). |
43 |
non mi celar
chi fosti anzi la morte,
ma dilmi, e dimmi s'i' vo bene al varco;
e tue parole fier le nostre scorte». |
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43 |
non nascondermi chi tu
fosti prima della morte, ma dimmelo, e dimmi anche se
sono sulla via giusta per il passaggio (che conduce al
girone superiore): e le tue parole saranno la nostra
guida». |
46 |
«Lombardo
fui, e fu' chiamato Marco;
del mondo seppi, e quel valore amai
al quale ha or ciascun disteso l'arco. |
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46 |
«Fui lombardo, e mi
chiamai Marco: fui esperto delle cose del mondo, e amai
quella virtù al cui possesso oggi nessuno tende più
l'arco del suo desiderio. |
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Marco, vissuto nella seconda metà del '200, fu uomo di
corte di grande saggezza, di animo nobile e fiero,
pronto a giudicare con sdegno, per i loro vizi, i
potenti signori presso i quali viveva. Queste sono le
notizie che ci hanno tramandato gli antichi
commentatori, gli storici, e le raccolte di novelle.
perché nient'altro sappiamo della sua vita. L'Anonimo
Fiorentino afferma che appartenne alla casata veneziana
dei Lombardo o Lombardi, mentre l'Ottimo, seguito dagli
altri commentatori antichi e da tutti i moderni, ritiene
che lombardo indichi il luogo di nascita: del resto tale
aggettivo nel Medioevo veniva adoperato per designare
tutta l'Italia settentrionale. |
49 |
Per montar
sù dirittamente vai».
Così rispuose, e soggiunse: «I' ti prego
che per me prieghi quando sù sarai». |
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49 |
Sei nella direzione giusta per salire.»
Cosi rispose, e soggiunse: «Ti supplico di pregare per
me quando sarai lassù in cielo». |
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Dante giustifica la sua presenza in quello che
l'iracondo ha chiamato il nostro fummo, attraverso un
dire eloquente e misurato. Spicca in esso la perifrasi
con cui è designato il corpo (quella fascia che la morte
dissolve), concepita in analogia tonale con il simbolo
del fummo dell'ira a suggerire quasi l'indissolubilità
di realtà corporea e passioni (il corpo "fascia" la
realtà semplice e trasparente dell'anima e ne rende
arduo il discernimento, il cammino in questa nostra
vita: infatti i vivi - dirà poi il suo interlocutore
esplicitando questo motivo, qui soltanto sfiorato - sono
ciechi); ad essa risponde. contrapponendovisi, la
metafora della "chiusura" nella grazia divina (e se Dio
m'ha in sua grazia rinchiuso), chiusura che non occulta
e non svia, ma svela e conduce al bene. La perorazione
di Dante, così nobilmente pervasa di motivi lontani da
ogni riferimento al contingente, alla fine si anima,
esprime una personale impazienza, il suo desiderio acuto
di ricevere luce dalle parole dell'interlocutore (ma
dilmi, e dimmi), quasi un'ansia di apprendere da lui una
verità grave e solenne. Alla ripetizione del verso 44
risponde simmetricamente quella del verso 46. Le parole
di Marco Lombardo mantengono una loro laconica
concisione, contribuendo ad isolare in una luce di
dignitoso riserbo questo personaggio: "Si direbbe -
osserva il Momigliano - un'anticipazione psicologica,
come l'atteggiamento meditativo e solenne di Sordello
già prima della digressìone politica". |
52 |
E io a lui:
«Per fede mi ti lego
di far ciò che mi chiedi; ma io scoppio
dentro ad un dubbio, s'io non me ne spiego. |
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52 |
E io gli dissi: «Mi
impegno con giuramento a fare quello che mi chiedi; ma
sono tanto angustiato da un dubbio che io scoppio, se
non me ne libero. |
55 |
Prima era
scempio, e ora è fatto doppio
ne la sentenza tua, che mi fa certo
qui, e altrove, quello ov' io l'accoppio. |
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55 |
Prima il mio dubbio era
semplice, ma ora si è fatto più grave per le tue parole,
che mi convincono, udendole qui da te e altrove da
altri, di quella corruzione del mondo alla quale si
riferisce il dubbio stesso. |
58 |
Lo mondo è
ben così tutto diserto
d'ogne virtute, come tu mi sone,
e di malizia gravido e coverto; |
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58 |
Il mondo è proprio tutto
spoglio di ogni virtù, così come tu mi dici, e saturo e
coperto di malvagità; |
61 |
ma priego
che m'addite la cagione,
sì ch'i' la veggia e ch'i' la mostri altrui;
ché nel cielo uno, e un qua giù la pone». |
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61 |
ma ti prego d'indicarmi la
causa, in modo che io la possa vedere e mostrare agli
altri, poiché alcuni la pongono nell'influsso degli
astri, e altri nella volontà degli uomini». |
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Guido del Duca (canto XIV, versi 29 sgg.) aveva
lamentato la corruzione del mondo, con particolare
riferimento alla Romagna e alla Toscana, lasciando
nell'incertezza se tale situazione dipendesse
dall'influsso dei cieli o dalle azioni umane (cfr. versi
37-39) e facendo nascere un dubbio nell'animo di Dante,
dubbio che ora l'analogo giudizio di Marco (verso 48)
rende ancora più profondo e problematico. |
64 |
Alto sospir,
che duolo strinse in «uhi!»,
mise fuor prima; e poi cominciò: «Frate,
lo mondo è cieco, e tu vien ben da lui. |
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64 |
Prima di rispondermi emise
un sospiro profondo, che il dolore trasformò in un
lamento; e poi cominciò: «Fratello, il mondo è cieco, e
tu vieni proprio da lui. |
67 |
Voi che
vivete ogne cagion recate
pur suso al cielo, pur come se tutto
movesse seco di necessitate. |
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67 |
Voi mortali attribuite la
causa di tutto solo al cielo, proprio come se esso con
il suo movimento determinasse necessariamente tutto
(tutto movesse seco di necessitate). |
70 |
Se così
fosse, in voi fora distrutto
libero arbitrio, e non fora giustizia
per ben letizia, e per male aver lutto. |
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70 |
Se così fosse, in voi
sarebbe distrutto il libero arbitrio, e non ci sarebbe
giustizia nell'avere la beatitudine eterna se si fa il
bene, e la dannazione eterna se si fa il male. |
73 |
Lo cielo i
vostri movimenti inizia;
non dico tutti, ma, posto ch'i' 'l dica,
lume v'è dato a bene e a malizia, |
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73 |
L'influsso dei cieli
accende gli istinti; e non dico tutti, ma anche se lo
dicessi, vi è stato dato il lume della ragione per
distinguere il bene e il male, |
76 |
e libero
voler; che, se fatica
ne le prime battaglie col ciel dura,
poi vince tutto, se ben si notrica. |
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76 |
e una volontà libera (di
scegliere l'uno o l'altro); essa, anche se incontra
difficoltà nel combattere gli impulsi suscitati dagli
influssi celesti (nelle prime battaglie col ciel), vince
poi ogni contrasto, se viene ben educata. |
79 |
A maggior
forza e a miglior natura
liberi soggiacete; e quella cria
la mente in voi, che 'l ciel non ha in sua cura. |
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79 |
Pur restando liberi, voi
siete soggetti a una potenza più grande e a una natura
migliore (cioè a Dio); e Dio crea in voi l'anima
intellettiva, che non è sottoposta all'influsso dei
cieli ('l ciel non ha in sua cura). |
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Dante accosta - svolgendolo nei modi e secondo la
soluzione formulata da San Tommaso e accettata da tutta
la filosofia scolastica - il problema del rapporto fra
il principio del libero arbitrio e la teoria
dell'influsso dei cieli sulle azioni umane, teoria alla
quale il pensiero medievale riconosceva carattere di
scientificità, rifacendosi a posizioni del mondo
classico. Se gli uomini, secondo un principio
deterministico, ritengono che tutto il mondo e quindi
anche le loro azioni, siano guidate dall'influsso
astrale, distruggono ogni possibilità di libera scelta
tra il bene e il male, cioè il libero arbitrio, ed
eliminano il fondamento della giustizia divina, la quale
distribuisce le pene e i premi in base a quella
possibilità che ciascuno ha di agire liberamente. In
realtà i cieli determinano negli esseri viventi solo gli
impulsi, gli istinti, quello che, con termine moderno,
chiameremmo lo stato psico-fisiologico, perché la
capacità della ragione nel discernere il bene dal male e
la volontà non condizionata nel seguire quello o questo,
non sono soggette ad alcun influsso diretto da parte
degli astri, appartenendo, la ragione e la volontà, alla
vita intellettiva dell'anima, sulla quale, secondo San
Tommaso, quegli influssi non possono operare. L'anima,
essendo unita al corpo, cioè ad una parte istintiva e
irrazionale, deve combattere contro gli appetiti
inferiori determinati dai cieli (le prime battaglie col
ciel) e solo l'aiuto della scienza, attraverso la
filosofia e la teologia, le permetterà la vittoria
finale. Solo di fronte a Dio, che è una potenza e una
natura ben più forte e perfetta degli astri, l'uomo deve
riconoscere la sua dipendenza, pur conservando la sua
libertà di scelta, che proprio da Dio è stata creata (cria
la mente in voi). |
82 |
Però, se 'l
mondo presente disvia,
in voi è la cagione, in voi si cheggia;
e io te ne sarò or vera spia. |
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82 |
Perciò, se il mondo
presente esce fuori dal giusto cammino, la causa è in
voi, e in voi si ricerchi; e io stesso te ne sarò verace
rivelatore (vera spia). |
85 |
Esce di mano
a lui che la vagheggia
prima che sia, a guisa di fanciulla
che piangendo e ridendo pargoleggia, |
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85 |
Esce dalle mani di Dio che
la contempla prima che essa esista, comportandosi come
una fanciulla che si rattrista e si rallegra (senza
ragione) come i pargoli, |
88 |
l'anima
semplicetta che sa nulla,
salvo che, mossa da lieto fattore,
volontier torna a ciò che la trastulla. |
|
88 |
l'anima ingenua la quale è
ignara di tutto, salvo che, mossa da Dio, somma
felicità, si volge volentieri a ciò che la diletta. |
91 |
Di picciol
bene in pria sente sapore;
quivi s'inganna, e dietro ad esso corre,
se guida o fren non torce suo amore. |
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91 |
Gusta dapprima i beni
limitati della terra; e qui cade in inganno, e corre
dietro ad essi, se una guida o un freno non indirizzano
sulla retta via il suo amore. |
94 |
Onde
convenne legge per fren porre;
convenne rege aver, che discernesse
de la vera cittade almen la torre. |
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94 |
Perciò fu necessario
stabilire la legge come un freno; fu necessario avere un
sovrano per guida, il quale sapesse discernere almeno la
giustizia del mondo ideale. |
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L'anima, sempre secondo la dottrina tomistica, dopo
essere stata creata da Dio (esce di mano a lui), che la
contempla da sempre nel suo pensiero (prima ancora che
essa esista) e si compiace della sua bellezza (la
vagheggia), entra nel mondo priva di ogni conoscenza,
aperta ad ogni impressione, ma pronta, per sua natura,
essendo stata plasmata da Chi è sommo bene e somma
gioia, a volgersi verso ciò che le dà piacere e diletto.
Per questo accade che, dopo aver accostato qualche bene
terreno, lo segua, "e perché la sua conoscenza prima è
imperfetta, per non essere esperta né dottrinata,
piccioli beni le paiono grandi" (Convivio VI, XII, 16).
Perciò è necessario l'intervento della legge e
dell'autorità imperiale: queste, regolando l'umana
convivenza, realizzano nel mondo la giustizia, che,
portando la pace, costituisce la base necessaria per
conseguire la perfezione umana.
Secondo quanto Dante afferma nel Convivio, soltanto
l'imperatore sarebbe in grado di attuare in terra la
giustizia, essendo libero dalla cupidigia che spinge gli
uomini alla sopraffazione, all'inganno, alle guerre. La
giustizia è simbolicamente designata, nel verso 96, come
la torre della vera città. Quest'ultima è l'agostiniana
civitas Dei, che molti interpreti hanno voluto
senz'altro identificare con il regno dei cieli, per
analogia con quanto è detto nel verso 95 del XIII canto
del Purgatorio. In realtà, come fa giustamente notare il
Maccarrone basandosi su un passo del De Civitate Dei, la
civitas di cui parla Sant'Agostino "ha in questa terra
la sua prima fase". La vera città deve quindi essere
interpretata come l'ordinamento politico ideale, quello
che consente agli uomini di raggiungere il massimo di
perfezione in terra e li predispone, indirettamente,
alla felicità eterna. |
97 |
Le leggi son,
ma chi pon mano ad esse?
Nullo, però che 'l pastor che procede,
rugumar può, ma non ha l'unghie fesse; |
|
97 |
Le leggi
esistono, ma chi opera per farle osservare? Nessuno,
perché il pastore che guida il gregge, è capace di
interpretare la Scrittura, ma non possiede il retto
discernimento del bene e del male nell'amministrare la
giustizia (non ha l'unghie fesse: non ha le unghie
divise, cioè non distingue il bene dal male) |
100 |
per che la
gente, che sua guida vede
pur a quel ben fedire ond' ella è ghiotta,
di quel si pasce, e più oltre non chiede. |
|
100 |
e perciò
l'umanità, che vede la sua guida tendere solo a quei
beni materiali di cui essa stessa è avida, si pasce
soltanto di tali beni, e non chiede altro. |
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In due passi della Bibbia (Levitico XI, 3-8:
Deuteronomio XIV, 6-8) è menzionato il divieto fatto da
Mosè agli Ebrei di cibarsi di animali che non siano
ruminanti e non abbiano l'unghia del piede divisa.
Questa prescrizione dell'Antico Testamento venne nel
Medioevo interpretata in senso allegorico. Secondo San
Tommaso (Summa Theologica II, I, CII, 6) "la divisione
dell'unghia significa... il discernimento del bene e del
male; la ruminazione, la meditazione delle Scritture e
il loro sano intendimento". Riallacciandosi a passi del
Convivio e della Monarchia il Maccarrone fornisce una
plausibile spiegazione della terzina 97, dopo aver
rifiutato l'interpretazione tradizionale, che, sulle
orme del commento di Pietro Alighieri, vede nel simbolo
delle unghie fesse la capacità, negata al pontefice, di
tener distinte le cose temporali da quelle spirituali.
Riconosciuta - scrive il Maccarrone - al pastor che
procede la prerogativa di possedere e spiegare la Sacra
Scrittura (rugumar può), viene però a lui negata, con la
vivacità espressiva del simbolo biblico, la capacità di
"por mano alle leggi" mostrandone la causa: manca delle
unghie fesse, figura della discretio interbonum et malum
(discernimento fra il bene e il male) posseduta
dall'imperatore, il quale può "mostrare e comandare le
leggi". Dante afferma quindi, attraverso le parole di
Marco Lombardo, la necessità di una netta separazione e
di una reciproca autonomia delle giurisdizioni del
pontefice e dell'imperatore. |
103 |
Ben puoi
veder che la mala condotta
è la cagion che 'l mondo ha fatto reo,
e non natura che 'n voi sia corrotta. |
|
103 |
Puoi ben vedere come il
malgoverno dei pontefici sia la causa che ha reso
peccatore il mondo, e non la natura umana che in voi sia
corrotta (dall'influsso degli astri). |
106 |
Soleva Roma,
che 'l buon mondo feo,
due soli aver, che l'una e l'altra strada
facean vedere, e del mondo e di Deo. |
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106 |
Roma, che un tempo diede
al mondo la pace e la giustizia, soleva avere due
autorità, le quali indicavano le due strade, quella
della felicità materiale (del mondo) e quella della
felicità spirituale (di Deo). |
109 |
L'un l'altro
ha spento; ed è giunta la spada
col pasturale, e l'un con l'altro insieme
per viva forza mal convien che vada; |
|
109 |
In seguito l'autorità
papale ha spento l'autorità imperiale; e il potere
civile è congiunto (nella stessa persona) con quello
religioso, ma uniti insieme con un atto arbitrario
devono necessariamente svolgersi male, |
112 |
però che,
giunti, l'un l'altro non teme:
se non mi credi, pon mente a la spiga,
ch'ogn' erba si conosce per lo seme. |
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112 |
perché, stando uniti nelle
stesse mani, l'uno non rispetta più l'altro: se non vuoi
credere alle mie parole, considera i frutti che ne
derivano, poiché ogni pianta si conosce dal frutto. |
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Anche l'immagine dei due soli è di origine biblica. Così
è descritta nella Genesi (I, 16) la creazione del sole e
della luna: "E Iddio fece i due grandi luminari: il
luminare maggiore per presiedere al giorno e il luminare
minore per presiedere alla notte". Nel Medioevo il
simbolo dei "due luminari" servì a designare le massime
autorità in terra, quella dell'imperatore e quella del
pontefice, e venne usato ampiamente dai trattatisti di
parte imperiale e di parte papale. Dante stesso ne fece
uso nei suoi scritti teorici.
Qui il simbolo acquista una concretezza ed un risalto
anzitutto lirici. I "due luminari", trasferiti su un
piano di acceso profetismo, di concreta visione, si
convertono, nelle appassionate parole di Marco Lombardo,
in due soli. L'astratto teorizzare della trattatistica
medievale sfocia così in un quadro di cosmica
ineluttabilità, di apocalittico sovvertimento dì ogni
legge naturale: un sole, che dovrebbe essere unicamente
sorgente di luce, ha spento l'altro sole, è divenuto
fonte di offuscamento, di indebita confusione tra ordini
di cose l'uno all'altro irriducibili (è giunta la spada
col pasturale), in dispregio alle leggi stabilite da
Dio, alla' logica intrinseca delle cose.
Dopo aver collocato in un passato lontano e
indeterminato, in una età felice della quale sembra
quasi essersi perduta la memoria, in un clima di mito
(soleva Roma...) il tempo in cui due soli illuminarono
concordi il cammino dell'umanità, la parola di Marco
Lombardo si fa aspra, tradisce un profondo affanno, un
orrore sbigottito per l'innaturale accoppiamento di
spada e pasturale, insiste dolorosamente sull'idea di
questa mostruosa congiunzione (è giunta la spada... però
che, giunti... ). |
115 |
In sul paese
ch'Adice e Po riga,
solea valore e cortesia trovarsi,
prima che Federigo avesse briga; |
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115 |
Nella regione che l'Adige e il Po
bagnano, si era soliti incontrare valore militare e
liberalità, prima che Federico II avesse contrasti con
la Chiesa: |
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Il valore e la cortesia sono scomparsi nell'Italia
settentrionale in un momento storico preciso (prima metà
del secolo XIII), che coincise con il periodo delle dure
lotte tra i Comuni, sobillati dalla Chiesa, e
l'imperatore Federico II, del quale essi non volevano
più riconoscere l'autorità. |
118 |
or può
sicuramente indi passarsi
per qualunque lasciasse, per vergogna,
di ragionar coi buoni o d'appressarsi. |
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118 |
ora invece chiunque
evitasse (di passare nell'Italia settentrionale) per
vergogna di parlare con le persone oneste o di
avvicinarle può passare per quella regione sicuro (di
non incontrarne alcuna). |
121 |
Ben v'èn tre
vecchi ancora in cui rampogna
l'antica età la nova, e par lor tardo
che Dio a miglior vita li ripogna: |
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121 |
Vero è che ci sono ancora
tre vecchi nei quali la generazione passata rimprovera
la nuova, ma (vi si trovano tanto a disagio che) sembra
loro tardare troppo l'ora in cui Dio li chiamerà a una
vita migliore: |
124 |
Currado da
Palazzo e 'l buon Gherardo
e Guido da Castel, che mei si noma,
francescamente, il semplice Lombardo. |
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124 |
Corrado da Palazzo e il
valente Gherardo da Camino e Guido da Castello, che è
più conosciuto col soprannome, foggiato alla francese,
di leale Lombardo. |
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Corrado III da Palazzo, nobile bresciano, fu vicario di
Carlo I d'Angiò a Firenze nel 1277 e due anni dopo guidò
i suoi concittadini contro Trento: infine nel 1288 fu
podestà di Piacenza. Era ancora vivo nel 1300.
Gherardo da Camino, la cui famiglia raccolse la signoria
degli Ezzelini, fu capitano di Belluno e Feltre; poi
ebbe la signoria di Treviso dal 1283 fino al 1306, anno
della sua morte.
Guido da Castello, ghibellino appartenente a uno dei tre
rami della famiglia dei Roberti di Reggio Emilia, nato
nel 1235, viveva ancora nel 1315. Cacciato dai Guelfi,
riparò presso gli Scaligeri di Verona, dove sembra lo
abbia conosciuto Dante, che nel Convivio (IV, XVI, 6) ne
parla con ammirazione. Il soprannome di il semplice
Lombardo prende rilievo dal fatto che per i francesi «
lombardo » significava italiano astuto e avaro, dedito
alla mercatura, e « semplice », nell'uso francese, era
sinonimo di leale, onesto. |
127 |
Dì oggimai
che la Chiesa di Roma,
per confondere in sé due reggimenti,
cade nel fango, e sé brutta e la soma». |
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127 |
Puoi concludere ormai che
la Chiesa di Roma, confondendo in sé i due poteri, cade
nel fango e insozza se stessa e il potere civile che si
è assunto». |
130 |
«O Marco
mio», diss' io, «bene argomenti;
e or discerno perché dal retaggio
li figli di Levì furono essenti |
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130 |
Io dissi: «O Marco mio, tu
parli bene; e ora capisco perché i figli di Levi furono
esclusi dall'eredità di beni materiali. |
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Nella legislazione ebraica i Leviti, i discendenti di
Levi, erano esclusi da ogni possesso di beni materiali (cfr.
Numeri XVIII, 20-24; Giosuè XIII, 14 e XXI, 1-22) perché
essi costituivano la classe sacerdotale. |
133 |
Ma qual
Gherardo è quel che tu per saggio
di' ch'è rimaso de la gente spenta,
in rimprovèro del secol selvaggio?». |
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133 |
Ma chi è quel Gherardo che
tu dici essere rimasto come un esempio della generazione
passata, quasi vivente rimprovero del vizioso tempo
presente?» |
136 |
«O tuo
parlar m'inganna, o el mi tenta»,
rispuose a me; «ché, parlandomi tosco,
par che del buon Gherardo nulla senta. |
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136 |
Mi rispose: « O io
m'inganno nell'interpretare le tue parole, o esse mi
tentano (per farmi ancora parlare), perché, pur parlando
toscano, pare che tu non sappia nulla riguardo
all'eccellente Gherardo. |
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Il nome di Gherardo da Camino doveva essere molto
conosciuto in Toscana, perché aveva dato il suo appoggio
a Corso Donati nelle lotte contro i Bianchi. |
139 |
Per altro
sopranome io nol conosco,
s'io nol togliessi da sua figlia Gaia.
Dio sia con voi, ché più non vegno vosco. |
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139 |
Io non saprei indicarlo con altra
denominazione se non con quella desunta da sua figlia
Gaia (cioè dall'essere egli il padre di Gaia). Dio vi
accompagni, perché non posso venire oltre con voi. |
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Di Gaia sappiamo soltanto che andò sposa a Tolberto da
Camino e morì nel 1311. Secondo alcuni commentatori fu
assai nota per la sua onestà e le sue virtù e Dante la
ricorderebbe per sottolineare ancora di più la fama del
padre, secondo altri per la sua bellezza e i suoi vizi e
in tal caso Dante metterebbe ancora una volta in luce la
corruzione delle corti dell'Italia settentrionale e la
degenerazione dei figli nei confronti dei padri. Questa
seconda interpretazione, inserendosi più facilmente nel
discorso polemico di Marco, è la più accettabile. |
142 |
Vedi l'albor
che per lo fummo raia
già biancheggiare, e me convien partirmi
(l'angelo è ivi) prima ch'io li paia». |
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142 |
Vedi come la luce del
giorno che traspare attraverso il fumo incomincia a
biancheggiare, e io devo tornare indietro - là c'è
l'angelo - prima che gli compaia davanti». |
145 |
Così tornò,
e più non volle udirmi. |
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145 |
Così detto si volse, e non
volle più ascoltarmi. |
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