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DIVINA
COMMEDIA: PARAFRASI
PURGATORIO
CANTO XVII° |
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1 |
Ricorditi,
lettor, se mai ne l'alpe
ti colse nebbia per la qual vedessi
non altrimenti che per pelle talpe |
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1 |
Cerca di ricordare, o lettore, se mai fosti sorpreso in
montagna dalla nebbia, attraverso la quale tu vedessi
come vede la talpa attraverso la membrana che vela i
suoi occhi (per pelle: era opinione comune nel Medioevo,
come già nell'antichità, che la talpa fosse
completamente cieca), |
4 |
come, quando
i vapori umidi e spessi
a diradar cominciansi, la spera
del sol debilemente entra per essi; |
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4 |
come, allorché i vapori
umidi e densi della nebbia cominciano a diradarsi, la
luce del sole penetra attraverso di essi debolmente: |
7 |
e fia la tua
imagine leggera
in giugnere a veder com' io rividi
lo sole in pria, che già nel corcar era. |
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7 |
e allora la tua
immaginazione ti aiuterà agevolmente ad arrivare a
percepire in che modo io (uscendo dal fumo) in un primo
momento rividi il sole, che già era vicino a tramontare. |
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Al motivo dell'anima assorta nella propria verità
interiore, che definirà le visioni degli esempi di ira
punita, costituenti il nucleo poetico più rilevante del
canto, è premessa la determinazione realistica delle
circostanze in cui queste visioni sono apparse al
protagonista. Le prime tre terzine riprendono, in forma
conclusiva, il tema del buio proposto per via di un
accumularsi di iperboli all'inizio del canto precedente.
Il paragone - che la forma negativa (non altrimenti)
rende incisivo ed al quale l'allitterazione del secondo
emistichio (verso 3) aggiunge spicco e compattezza con
l'immagine delle talpe - conferisce a quest'apertura di
canto una grande evidenza di contorni. Invece il
sommarsi delle determinazioni nella prima terzina del
canto XVI - risolto in una duplice negazione di ogni
possibilità di riferimento ad esperienze verificabili in
terra - tendeva ad attenuare questi contorni per dar
luogo ad un semplice rilievo d'ìntensità (l'assolutezza
di quel buio). L'esordio del canto XVI tendeva, infatti,
in certo modo ad annullare nell'informe le
determinazioni elencate.
Quello del canto XVII mira, al contrario, ad esprimere
iI ritorno della luce. il riemergere delle cose
dall'informe, ognuna con una sua, fisionomia nettamente
individuale, a determinare il buio stesso - ormai non
più assoluto, non più incombente come un mistero - in
forma univoca e concreta. L'esordio di questo canto ha
altresì una perspicuità di contorni più netta,
nonostante il complesso giro sintattico (ricorditi...
come... la spera...); anche rispetto al proporsi del
tema della luce all'inizio del canto XV, mantenuto
nell'ambito grandioso dell'avvicendarsi degli astri
sulla volta del cielo, ma elaborato in senso concettuale
e al quale il paragone con lo "scherzare" del fanciullo
non conferiva l'immediatezza che qui è ottenuta col
richiamo al diradarsi della nebbia in un panorama di
monti e alla cecità delle talpe. |
10 |
Sì,
pareggiando i miei co' passi fidi
del mio maestro, usci' fuor di tal nube
ai raggi morti già ne' bassi lidi. |
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10 |
Così, andando di pari
passo col mio fidato maestro uscii fuori da quella nube,
alla vista dei raggi solari ormai scomparsi daIle parti
basse della montagna. |
13 |
O
imaginativa che ne rube
talvolta sì di fuor, ch'om non s'accorge
perché dintorno suonin mille tube, |
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13 |
O fantasia che talvolta ci sottrai a tal punto alle
impressioni esteriori, che non ci si accorge anche se
intorno a noi squillano mille trombe, |
16 |
chi move te,
se 'l senso non ti porge?
Moveti lume che nel ciel s'informa,
per sé o per voler che giù lo scorge. |
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16 |
che cosa mai ti stimola ad
operare, se le percezioni dei sensi non ti offrono le
immagini? Certo ti muove una luce che prende forma, in
cielo, per forza propria o per volontà di Dio che guida
tale luce sulla terra. |
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La facoltà immaginativa o fantasia nella sua attività è
normalmente condizionata dai sensi, dai quali riceve le
immagini della realtà esterna; perciò quando mancano le
percezioni sensibili degli oggetti reali viene meno la
materia su cui opera la fantasia. Dante si accorge che
la sua immaginazione è in attività senza uno stimolo
sensoriale e che quindi essa deve essere mossa da una
forza superiore, che ha la sua origine in cielo. |
19 |
De l'empiezza
di lei che mutò forma
ne l'uccel ch'a cantar più si diletta,
ne l'imagine mia apparve l'orma; |
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19 |
Nella mia
fantasia apparve l'immagine dell'atto empio di Progne,
che mutò la sua forma umana in quella dell'uccello che
più di tutti si diletta nel canto: |
22 |
e qui fu la
mia mente sì ristretta
dentro da sé, che di fuor non venìa
cosa che fosse allor da lei ricetta. |
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22 |
e su questa visione la mia mente a tal punto si
concentrò in sé, che dalla realtà esteriore non giungeva
impressione alcuna che fosse da lei accolta. |
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Si allude al mito di Progne, moglie di Tereo re di
Tracia, la quale fu trasformata in usignolo, dopo che,
in preda a folle gelosia, ebbe ucciso e dato in pasto il
figlio Iti al marito, che aveva usato violenza alla
sorella di lei, Filomela (cfr. canto IX, versi 13-15). |
25 |
Poi piovve
dentro a l'alta fantasia
un crucifisso, dispettoso e fero
ne la sua vista, e cotal si moria; |
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25 |
Poi nella mia fantasia ormai sublimata apparve
l'immagine di un uomo, crocifisso, sdegnoso e fiero
nell'aspetto, e in quell'atteggiamento lo vedevo morire: |
28 |
intorno ad
esso era il grande Assüero,
Estèr sua sposa e 'l giusto Mardoceo,
che fu al dire e al far così intero. |
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28 |
attorno a lui stavano il
grande Assuero, la sua sposa Ester e il giusto Mardocheo,
che fu così onesto nelle parole e nelle opere. |
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Aman, ministro di Assuero re di Persia, per odio contro
il giudeo Mardocheo che gli rifiutava gli onori divini,
fece decretare dal re lo sterminio di tutti i Giudei.
Mardocheo, per mezzo della nipote Ester, diventata
regina, fece revocare l'editto e condannare alla
crocifissione Aman (Ester III-VII). |
31 |
E come
questa imagine rompeo
sé per sé stessa, a guisa d'una bulla
cui manca l'acqua sotto qual si feo, |
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31 |
E non appena questa
visione si dissolse da sé, come si dissolve una bolla
d'aria quando si rompe il velo d'acqua entro il quale si
è formata, |
34 |
surse in mia
visïone una fanciulla
piangendo forte, e dicea: «O regina,
perché per ira hai voluto esser nulla? |
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34 |
sorse nella mia fantasia
la visione di una fanciulla che piangeva disperatamente,
e diceva: «O regina, perché per un impeto d'ira hai
voluto annientarti? |
37 |
Ancisa t'hai
per non perder Lavina;
or m'hai perduta! Io son essa che lutto,
madre, a la tua pria ch'a l'altrui ruina». |
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37 |
Ti sei uccisa per non
perdere la tua Lavinia: ora mi hai perduta davvero! Sono
proprio io ora che piango, o madre, per la tua morte
prima che per quella di Turno». |
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II terzo esempio d'ira punita si concreta nella visione
di Lavinia, figlia del re Latino e di Amata, che piange
davanti al cadavere della madre, la quale in un momento
di doloroso furore si era impiccata, credendo che Turno,
re dei Rutuli, al quale ambiva dare in sposa la figlia,
fosse già stato ucciso da Enea e che Lavinia sarebbe
andata sposa all'eroe troiano, come di fatto poi avvenne
(Virgilio - Eneide XII, versi 593-607). Dante ha così
presentato i tre modi di punizione dell'ira: per opera
di Dio nel primo esempio, per opera degli uomini nel
secondo, per azione dell'individuo contro se stesso nel
terzo. |
40 |
Come si
frange il sonno ove di butto
nova luce percuote il viso chiuso,
che fratto guizza pria che muoia tutto; |
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40 |
Come si rompe il sonno,
quando d'improvviso una luce nuova percuote gli occhi
chiusi, il quale però, sebbene interrotto, persiste un
poco prima di dileguarsi del tutto, |
43 |
così l'imaginar
mio cadde giuso
tosto che lume il volto mi percosse,
maggior assai che quel ch'è in nostro uso. |
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43 |
allo stesso modo la mia
visione disparve non appena colpì il mio volto una luce,
assai più intensa di quella (la luce del sole) che siamo
abituati a vedere. |
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La poetica delle tre visioni di ira punita nel canto
XVII è assai più complessa di quella dei tre esempi di
mansuetudine ricordati alla fine del canto XV. La
situazione esteriore è analoga nei due casi: pur
continuando il protagonista a camminare a fianco di
Virgilio, la sua anima appare completamente separata dal
suo corpo, il raccordo costituito dai sensi tra realtà
esteriore ed «io» appare troncato. Nel caso delle
visioni di ira punita la situazione non è dissimile:
totalmente assorbito in ciò che la sua vista interna
percepisce senza la mediazione dei sensi, Dante, nel
momento in cui il suo imaginar viene meno, si volge
intorno per rendersi conto del punto in cui si trova:
implicitamente viene in tal modo dichiarato che durante
queste visioni, non diversamente che nel caso degli
esempi di mansuetudine, il suo corpo, mosso da una
volontà che non era la sua (altro aspetto attraverso il
quale il miracolo si è manifestato), ha continuato a
camminare. Questo motivo però non è svolto nel canto
XVII con l'ampiezza di sviluppi che aveva nel XV, ma
soltanto accennato. Nel canto XV esso consacrava il
Poeta come un illuminato, un eletto, nel drammatico
contrasto tra l'evidenza delle cose percepite
dall'occhio interno e la cecità assoluta degli occhi
della carne. La differenza tra le forme in cui è
proposto il tema delle visioni di mansuetudine nel canto
XV e quelle che risultano caratteristiche degli esempi
di ira punita nel canto XVII è data dal fatto che nel
secondo caso l'attenzione del Poeta è volta non soltanto
- e non principalmente - all'oggetto delle sue visioni,
ma anche - ed anzitutto - alla modalità del loro
apparire, per cui il resoconto di esse è preceduto
dall'apostrofe alla imaginativa. Essa rompe il flusso,
fino a questo punto mantenuto su un tono di più dimessa
pronuncia, della narrazione, per introdurre il tema
dell'alta fantasia, trascendente il dato di fatto per
accogliere in sé la verità. Ciò che costituiva il pregio
delle visioni del canto XV era l'immediato oggettivarsi
di esse in quadri dei quali la semplicità dei mezzi
espressivi poneva in luce, per contrasto, l'intensa,
ricca, risonanza emotiva. Raffrontate a quelle del canto
XV, nessuna delle tre visioni di ira punita ne possiede
il pathos, o la limpida luce di favola, in primo luogo
perché in queste visioni di vizio punito Dio non si
manifesta come apertura all'umano, ma come inflessibile
giustizia. L'esprimersi in esse della giustizia divina
ripropone la durezza di certe statuarie apparizioni
infernali nell'esempio di Aman, a proposito del quale il
Momigliano ha ricordato la figura di Caifa (Inferno
XXIII, versi 111-113) o "le grandi figurazioni di morti
dei rilievi del canto XII: Lucifero, Briareo, i Giganti,
Niobe" e il Mattalia ha parlato di "stile capaneico".
Ciò tuttavia è dovuto anche al fatto che qui lo sguardo
del Poeta non è tanto attratto dalla cosa apparsa quanto
dalla straordinarietà stessa di questo apparire. Di qui
forse il modo sommario e duro (messo in luce dalle
corrispondenze che mutò... ch'a cantar; nell'uccel...
nell'imagine) con cui è trattato il primo esempio, che
il solo termine orma riscatta, con la ricchezza dei
riferimenti analogici che in sé contiene, dalla durezza
della costruzione che in esso trova un punto di arresto.
L'episodio di Lavìnia è il solo che presenti
un'animazione drammatica, emergente dal contrasto, che
in sé ne riassume il senso, tra il perder Lavina,
assunto in funzione causale, e quindi mantenuto in una
tonalità di discorso ancora raziocinante, ed il
prorompere, che ad esso fa immediatamente seguito,
dell'esclamazione or m'hai perduta!; il termine
"perdere" su cui questo contrasto si incentra, si carica
qui di echi tragici che nella sua precedente accezione
non aveva; la perdita di Lavinia appare qui ormai
irreparabile, poiché l'or m'haí perduta! suggerisce il
suicidio di Amata. La concitazione di Lavinia si
ripropone anche nell'aspra (non tuttavia stentata, come
è parso al Momigliano) forma io son essa che, nonché
nella contrapposizione, attenuata quanto a vigore
drammatico - intesa più alla precisazione di un concetto
che all'espressione di una stato d'animo - alla tua pria
ch'all'altrui ruina. |
46 |
I' mi volgea
per veder ov' io fosse,
quando una voce disse «Qui si monta»,
che da ogne altro intento mi rimosse; |
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46 |
Io mi guardavo attorno per
vedere dove fossi, quando una voce disse: «Si sale da
questa parte», la quale distolse la mia mente da ogni
altro pensiero, |
49 |
e fece la
mia voglia tanto pronta
di riguardar chi era che parlava,
che mai non posa, se non si raffronta. |
|
49 |
e rese il mio desiderio
tanto impaziente di vedere chi era colui che aveva
parlato, che non si sarebbe placato, se non venendo di
fronte a ciò che desiderava. |
52 |
Ma come al
sol che nostra vista grava
e per soverchio sua figura vela,
così la mia virtù quivi mancava. |
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52 |
Ma come accade di fronte
al sole che abbaglia l'occhio umano e che per l'eccesso
della sua luce si rende invisibile, non diversamente la
mia capacità visiva era li vinta (dallo splendore
dell'angelo). |
55 |
«Questo è
divino spirito, che ne la
via da ir sù ne drizza sanza prego,
e col suo lume sé medesmo cela. |
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55 |
«Questo è un angelo, che
senza essere pregato ci indirizza per la via che sale, e
si nasconde nella propria luce. |
58 |
Sì fa con
noi, come l'uom si fa sego;
ché quale aspetta prego e l'uopo vede,
malignamente già si mette al nego. |
|
58 |
Si comporta con noi con la
stessa prontezza con cui l'uomo soddisferebbe i suoi
desideri; perché chi vede la necessità e aspetta di
essere pregato, si dispone già con malignità a rifiutare
l'aiuto. |
61 |
Or
accordiamo a tanto invito il piede;
procacciam di salir pria che s'abbui,
ché poi non si poria, se 'l dì non riede». |
|
61 |
Ora accordiamo i nostri
passi a un cosi autorevole invito: cerchiamo di salire
prima che diventi buio, perché poi non sarebbe più
possibile, finché non ritorna la luce del giorno
(secondo la legge del purgatorio: cfr. canto VII, versi
43-60).» |
64 |
Così disse
il mio duca, e io con lui
volgemmo i nostri passi ad una scala;
e tosto ch'io al primo grado fui, |
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64 |
Così disse la mia guida,
ed insieme ci dirigemmo verso una scala; e appena fui
sul primo gradino, |
67 |
senti'mi
presso quasi un muover d'ala
e ventarmi nel viso e dir: 'Beati
pacifici, che son sanz' ira mala!'. |
|
67 |
sentii vicino a me come il
muoversi di un'ala e sul mio viso un soffio di vento e
udii dire: «Beati i pacifici, che sotto privi dell'ira
irragionevole!». |
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L'angelo della pace cancellala terza P (il peccato
d'ira) dalla fronte di Dante, sfiorandola con l'ala
mentre canta la settima beatitudine evangelica (Matteo
V, 9). Il Poeta distingue, con una chiosa di tipo
scolastico, l'ira mala, irragionevole e smodata,
dall'ira buona, che sì manifesta come giusto zelo del
bene e della giustizia.
II tema dell'angelo, dopo essersi proposto nelle parole
di Virgilio, ove dà luogo a svolgimenti gnomici e
pedagogici (ma nelle prime parole del poeta latino trema
già quell"emozìone che solleverà a canto purissimo la
descrizione dell'atto compiuto dal ministro di Dio),
raggiunge una intensità lirica fortissima nei versi
67-69, a proposito dei quali il Momigliano parla di "una
fluidità che si direbbe insieme musicale e silenziosa".
La parola del Poeta non ci dà l'atto compiuto
dall'angelo: il carattere sacro del rito è suggerito per
via indiretta, nella forma di un'impressione soggettiva,
del suo riflettersi nel raccoglimento dell'anima,
attraverso un paragone: senti mi presso quasi un mover
d'ala... Con movimento opposto a quello che,
nell'esordio del canto, aveva portato il buio -
suggerito, per via d'iperbole nella sua
indeterminatezza, nel suo incombere sull'anima smarrita
all'inizio del XVI - a determinarsi oggettivamente
attraverso la riacquistata fiducia nella realtà delle
cose all'apparire della luce, qui l'atto del ministro di
Dio perde ogni peso di consistenza fisica e
verificabile, sfugge alla determinazione ad opera dei
sensi. |
70 |
Già eran
sovra noi tanto levati
li ultimi raggi che la notte segue,
che le stelle apparivan da più lati. |
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70 |
Gli ultimi raggi del sole
ai quali succede la notte, si erano già tanto ritirati
sopra di noi (il sole, cioè, è già sceso sotto
l'orizzonte), che da più parti apparivano le stelle. |
73 |
'O virtù
mia, perché sì ti dilegue?',
fra me stesso dicea, ché mi sentiva
la possa de le gambe posta in triegue. |
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73 |
Ed io, sentendo che mi era
venuta a mancare temporaneamente la forza delle gambe,
andavo dicendo fra me: «O mio vigore, perché ti dilegui
così? |
76 |
Noi eravam
dove più non saliva
la scala sù, ed eravamo affissi,
pur come nave ch'a la piaggia arriva. |
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76 |
Noi eravamo giunti alla
sommità della scala, ed eravamo immobili, proprio come
una nave che giunge a riva. |
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In merito al paragone del verso 78 è necessaria
un'osservazione. Nell'Inferno il processo di
oggettivazione della persona umana attraverso raffronti
con manufatti riduce i dannati a strumenti da cui ogni
interiore, autonoma finalità, ogni possibilità di
perfezionamento nel tempo sono assenti, materia
manipolabile dalla quale ogni emergere di vita o libertà
o coscienza è escluso per definizione. Nel quadro di
redenzione in atto o già attuata che caratterizza le
altre due cantiche il medesimo processo di
oggettivazione risponde ad un'esigenza opposta. Invece
di delineare la conversione avvenuta ed irrevocabile
dello spirito nella materia, della disponibilità
dell'uomo al bene nella stasi assoluta della dannazione,
esso ha qui la funzione di conferire proporzioni
grandiose, vigore di oggettività glorificante,
consistenza di cose che durano oltre il breve arco della
vita umana, all'esperienza di chi ormai i limiti
dell'umano ha varcato, e già fin dal Purgatorio appare
predisposto alla visione, in Dio, delle immutabili
ragioni che muovono cose ed eventi. Cosi qui, il
paragone del verso 78 non ha nulla della dolorosa
costrizione che imprigionava i peccatori nei contorni
del prodotto fabbricato, oggetti di una volontà per loro
in eterno imperscrutabile, ma un ritmo solenne e
gioioso: al calar delle tenebre i due pellegrini
appaiono - quasi a significare, di fronte al
sopraggiungere della notte assoluta, la loro
indissolubile concordia di intenti, la fedeltà che lega
il discepolo al maestro - come una sola nave che trova
un saldo punto d'approdo.
AI processo d'interiorizzazione di sentimenti e immagini
che caratterizza alcune delle più note pagine del
Purgatorio (nelle quali l'influenza delle stilnovistiche
esperienze giovanili dell'autore appare più marcata),
corrisponde, sempre nella seconda cantica, un processo
opposto, per cui l'intimità del sentire, lo sfumato di
certo delineare stilnovistico si converte, per
dialettica antitesi, in robuste, epiche oggettivazioni.
II sentire del protagonista è così sempre sottratto, in
quella che pur risulta la cantica più vicina per stati
d'animo ed elaborazioni tematiche all'intimismo
crepuscolare ed umbratile della Vita Nova; al rischio di
rimanere chiuso in una tonalità idillica (la critica ha
generalmente insistito su questo solo aspetto della
poesia del Purgatorio) e blanda. Le complesse
similitudini astronomiche, le ferme metafore
oggettivanti, come questa della nave, o quelle, ancora
più grandiose che, nel canto trentesimo, conferiranno
all'incontro con Beatrice cadenze severe e drammatiche,
inseriscono la vicenda del viandante nel ritmo di una
esperienza definita in termini cosmici e nella quale gli
aspetti del reale, che nell'Inferno introducevano
all'assurdo di un'immobilità non redenta, di una
molteplicità di esseri ostinatamente chiusi nella loro
superbia negatrice, sono assunti ad esprimere uno
svolgimento della Grazia nel tempo. La nave ch'alla
piaggia arriva anticipa già la meta raggiunta del
viaggio ultraterreno, la cessazione della guerra sì del
cammino e sì della pietate (Inferno, canto II, verso 5),
la liberazione da ogni affanno nella contemplazione di
una verità che, sottratta al contingente, il contingente
in sé contiene, limpidamente dispiegato fino alla fine
dei tempi, nel Paradiso. |
79 |
E io attesi
un poco, s'io udissi
alcuna cosa nel novo girone;
poi mi volsi al maestro mio, e dissi: |
|
79 |
Stetti un poco in ascolto,
se mai udissi qualcosa nel nuovo girone; quindi mi volsi
al mio maestro, e dissi: |
82 |
«Dolce mio
padre, dì, quale offensione
si purga qui nel giro dove semo?
Se i piè si stanno, non stea tuo sermone». |
|
82 |
«Dolce padre, dimmi, che
peccato si sconta qui nel girone dove ci troviamo? Anche
se i piedi devono restare immobili, non s'arresti il tuo
parlare» |
85 |
Ed elli a
me: «L'amor del bene, scemo
del suo dover, quiritta si ristora;
qui si ribatte il mal tardato remo. |
|
85 |
Ed egli mi
rispose: «Proprio qui si ripara l'accidia, che è amore
del bene inferiore a quello che dovrebbe essere; qui si
batte con maggior lena il remo che era stato mosso con
dannosa lentezza (il mal tardato remo: si ripara con la
sollecitudine la tiepidezza con cui in vita si agì nei
confronti dei beni spirituali). |
88 |
Ma perché
più aperto intendi ancora,
volgi la mente a me, e prenderai
alcun buon frutto di nostra dimora». |
|
88 |
Ma perché tu intenda
ancora più chiaramente, volgi a me la tua attenzione, e
raccoglierai qualche buon frutto da questa nostra
sosta». |
91 |
«Né creator
né creatura mai»,
cominciò el, «figliuol, fu sanza amore,
o naturale o d'animo; e tu 'l sai. |
|
91 |
Cominciò: «Figliolo, né il
Creatore né alcuna creatura furono mai senza amore, o
istintivo, o per libera scelta; e tu lo sai bene. |
94 |
Lo naturale
è sempre sanza errore,
ma l'altro puote errar per malo obietto
o per troppo o per poco di vigore. |
|
94 |
L'amore istintivo è sempre
esente da errore, ma l'altro può errare o perché si
volge a un oggetto cattivo oppure (quando si volge a un
oggetto buono) perché vi tende con vigore superiore a
quello giusto o con vigore troppo scarso. |
|
L'amore naturale non può sbagliare perché proviene dalla
natura, che segue sempre la via tracciatale da Dio.
Quando invece nella creatura interviene la libertà a
orientare l'amore e le passioni originate dall'amore
stesso, ci può essere colpa: o nel volere una cosa
proibita (malo obietto) erroneamente ritenuta buona, e
si hanno allora i peccati di superbia, invidia e ira: o
nel desiderare cosa buona senza la dovuta energia della
volontà (poco di vigore), e ha origine l'accidia, o nel
tendere ad una meta buona con una passione troppo
intensa (troppo... di vigore), causando i peccati di
avarizia, gola e lussuria. |
97 |
Mentre ch'elli
è nel primo ben diretto,
e ne' secondi sé stesso misura,
esser non può cagion di mal diletto; |
|
97 |
Finché
l'amore d'elezione si dirige a Dio, primo Bene, e verso
i beni creati si mantiene nei giusti limiti, non può
essere causa di un piacere colpevole; |
100 |
ma quando al
mal si torce, o con più cura
o con men che non dee corre nel bene,
contra 'l fattore adovra sua fattura. |
|
100 |
ma quando si
volge al male, o corre al bene creato con vigore
maggiore o minore del giusto, allora la creatura opera
contro il suo Fattore. |
103 |
Quinci
comprender puoi ch'esser convene
amor sementa in voi d'ogne virtute
e d'ogne operazion che merta pene. |
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103 |
Da qui puoi comprendere
come in voi uomini necessariamente l'amore sia il germe
di ogni opera virtuosa e di ogni opera che merita
punizione. |
106 |
Or, perché
mai non può da la salute
amor del suo subietto volger viso,
da l'odio proprio son le cose tute; |
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106 |
Ora, siccome l'amore non
può mai distogliere lo sguardo dal bene di colui che è
il soggetto dell'amore stesso (cioè ogni creatura non
può che volere il proprio bene), ne segue che tutti gli
esseri sono immuni dall'odio contro se stessi; |
109 |
e perché
intender non si può diviso,
e per sé stante, alcuno esser dal primo,
da quello odiare ogne effetto è deciso. |
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109 |
e poiché nessun essere può
venire concepito per sé stante e diviso da Dio, Essere
primo, ne segue che ogni creatura è distolta dall'odiare
l'Essere primo. |
112 |
Resta, se
dividendo bene stimo,
che 'l mal che s'ama è del prossimo; ed esso
amor nasce in tre modi in vostro limo. |
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112 |
Se ragionando per
distinzioni giudico rettamente, resta che quando si ama
un male, questo è il male del prossimo; e questo amore
del male può nascere in tre modi nella vostra natura
impastata. di fango. |
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Virgilio ha precisato ulteriormente il concetto di
amore: 1) l'amore non può che volere il bene del proprio
soggetto, e l'uomo che per natura ama se stesso, non può
non desiderare il proprio bene, per cui nessun essere
odierà mai se stesso (verso 108); 2) Dio è il creatore e
il fondamento di ogni realtà, e nessuna creatura può
sussistere separata da Lui, per cui nessuno potrà mai
odiare Dio; 3) ne consegue che si può amare solo il male
del prossimo, il quale amore erroneo nasce sempre dal
considerare il bene del prossimo come proprio male (e
l'uomo non può amare il suo male: cfr. versi 106-108).
Inizia ora la classificazione dei peccati che si espiano
nel purgatorio: nei primi tre gironi è punito il male
contro il prossimo (malo obietto) nella triplice
manifestazione della superbia, invidia e ira (versi
115-123). Negli altri quattro si sconta l'amore che
corre al ben con ordine corrotto (verso 126), nelle
forme dell'accidia, avarizia, gola e lussuria. |
115 |
È chi, per
esser suo vicin soppresso,
spera eccellenza, e sol per questo brama
ch'el sia di sua grandezza in basso messo; |
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115 |
Vi è il superbo che spera
di eccellere per il fatto che il suo prossimo è
umiliato, e solo per questo brama che il prossimo sia
abbattuto dalla sua grandezza: |
118 |
è chi
podere, grazia, onore e fama
teme di perder perch' altri sormonti,
onde s'attrista sì che 'l contrario ama; |
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118 |
c'è poi l'invidioso che
teme di perdere potenza, favori, onore e gloria per il
fatto che altri lo superi, e per questo si rattrista
tanto da desiderare che gli altri subiscano il
contrario; |
121 |
ed è chi per
ingiuria par ch'aonti,
sì che si fa de la vendetta ghiotto,
e tal convien che 'l male altrui impronti. |
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121 |
e c'è l'iracondo che per
l'ingiuria ricevuta appare adirarsi, tanto da diventare
avido di vendetta, e divenuto tale è indotto
necessariamente a preparare il male agli altri. |
124 |
Questo
triforme amor qua giù di sotto
si piange: or vo' che tu de l'altro intende,
che corre al ben con ordine corrotto. |
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124 |
Queste tre forme di amore
del male sono scontate nei gironi inferiori: ora voglio
che tu conosca l'altro amore che si rivolge al bene in
modo disordinato. |
127 |
Ciascun
confusamente un bene apprende
nel qual si queti l'animo, e disira;
per che di giugner lui ciascun contende. |
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127 |
Ogni uomo vagheggia in
modo confuso e desidera un bene sommo nel quale l'animo
trovi la sua pace; per questo ciascuno di sforza di
raggiungerlo. |
130 |
Se lento
amore a lui veder vi tira
o a lui acquistar, questa cornice,
dopo giusto penter, ve ne martira. |
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130 |
Se a conoscere o a
conseguire questo sommo bene (che é Dio stesso) vi
spinge un amore debole, questa cornice, dopo il dovuto
pentimento, vi darà la pena adeguata. |
133 |
Altro ben è
che non fa l'uom felice;
non è felicità, non è la buona
essenza, d'ogne ben frutto e radice. |
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133 |
Vi sono altri beni (quelli
terreni e perciò limitati) che non rendono l'uomo
felice; essi non sono la felicità, non sono il bene per
essenza, il quale è compimento e principio d'ogni bene. |
136 |
L'amor ch'ad
esso troppo s'abbandona,
di sovr' a noi si piange per tre cerchi;
ma come tripartito si ragiona, |
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136 |
L'amore che si abbandona
con troppo vigore a questi beni, viene espiato nei tre
cerchi superiori; ma come questo amore si può dividere
mediante il ragionamento in tre specie; |
139 |
tacciolo,
acciò che tu per te ne cerchi». |
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139 |
tralascio di dirtelo,
affinché tu lo ricerchi da te stesso». |
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Posta al centro della seconda cantica, la lezione che
Virgilio impartisce al discepolo sulla topografia morale
del purgatorio rimanda, per un raffronto immediato, a
quella della distribuzione dei dannati nei vari cerchi
infernali, contenuta nel canto XI dell'Inferno. I
critici hanno generalmente messo in rilievo; nel
discorso dottrinario di Virgilio sulle inclinazioni al
peccato, un ritmo più riposato e fermo di quello che
caratterizzava l'affollarsi delle determinazioni e delle
suddivisioni concettuali dell'esposizione dell'XI
dell'Inferno. Scrive il Momigliano: "Qui le formule del
ragionamento sono meno frequenti e meno evidenti che
nell'XI dell'Inferno, dove la materia era un po' più
complessa" mentre qui "è da notare, se non dovunque, in
parecchi punti, il ritmo generale dell'argomentare
tranquillo, sicuro, potente... L'impressione generale è
quella d'un intelletto che domina da signore i congegni
del pensiero e li move con un senso di trionfo". Il
Sapegno dal canto suo osserva che "qui il tema
didascalico è introdotto con maggiore naturalezza,
inserendosi nel corso di una prolungata pausa
meditativa, che riempie di sé tutti questi canti
centrali del Purgatorio. Preparata dal discorso di
Virgilio sulla natura dei beni celesti e
dall'esposizione di Marco sull'ordine politico (XV,
49-75; XVI, 67-114); Ia nuova lezione del maestro si
svolge con un'ampiezza che trascende di gran lunga
l'occasione specifica che la determina; e a sua volta
prepara le ulteriori dichiarazioni sulla natura d'amore
e sul libero arbitrio". |
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