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DIVINA
COMMEDIA: PARAFRASI
PURGATORIO
CANTO XX° |
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1 |
Contra
miglior voler voler mal pugna;
onde contra 'l piacer mio, per piacerli,
trassi de l'acqua non sazia la spugna. |
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1 |
Un volere buono (quello di Dante che desiderava
prolungare il colloquio) male combatte (mal pugna: è
costretto à cedere) contro un volere migliore (quello di
Adriano V; cfr. canto XIX, 140-141) ; perciò per
compiacerlo, contro la mia volontà ('l piacer mio)
estrassi dall'acqua la spugna (del mio desiderio) non
satura (cioè: interruppi il colloquio). |
4 |
Mossimi; e
'l duca mio si mosse per li
luoghi spediti pur lungo la roccia,
come si va per muro stretto a' merli; |
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4 |
Mi mossi; e con me si
mosse la mia guida negli spazi non occupati dalle anime,
camminando proprio rasente la roccia, come si va sulle
mura rasente ai merli, |
7 |
ché la gente
che fonde a goccia a goccia
per li occhi il mal che tutto 'l mondo occupa,
da l'altra parte in fuor troppo s'approccia. |
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7 |
perché gli spiriti, che
versano a goccia a goccia dagli occhi (con le lagrime)
il male (l'avarizia) che occupa tutto il mondo, sono
troppo vicini all'orlo dall'altra parte della cornice. |
10 |
Maladetta
sie tu, antica lupa,
che più che tutte l'altre bestie hai preda
per la tua fame sanza fine cupa! |
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10 |
Sii maledetta tu, antica
lupa, che più di tutti gli altri vizi fai strage di
anime per la tua fame infinitamente profonda! |
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La terzina richiama direttamente la figura della lupa
del primo canto dell'Inferno (versi 49-60; 88-111): la
terza delle fiere, apparse a Dante ai margini della
selva oscura, che simboleggiava l'avarizia o la
cupidigia, antica quanto il mondo. |
13 |
O ciel, nel
cui girar par che si creda
le condizion di qua giù trasmutarsi,
quando verrà per cui questa disceda? |
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13 |
O cielo, al cui ruotare sembra si creda
siano dovuti i mutamenti delle condizioni di quaggiù,
quando verrà colui (il Veltro) per opera del quale
costei sia allontanata? |
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Dante allude al Veltro che, secondo la predizione di
Virgilio (cfr. Inferno I, 101-111), deve venire a
inseguire la lupa per ogni villa finché l'avrà
ricacciata all'inferno. |
16 |
Noi andavam
con passi lenti e scarsi,
e io attento a l'ombre, ch'i' sentia
pietosamente piangere e lagnarsi; |
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16 |
Noi procedevamo a passi
lenti e piccoli, ed io stavo attento (per scansarle)
alle anime, che udivo piangere ed emettere lamenti da
muovere pietà; |
19 |
e per
ventura udi' «Dolce Maria!»
dinanzi a noi chiamar così nel pianto
come fa donna che in parturir sia; |
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19 |
e mi accadde
di udire davanti a noi invocare piangendo «Dolce
Maria!», così come fa la donna presa dalle doglie del
parto; |
22 |
e seguitar:
«Povera fosti tanto,
quanto veder si può per quello ospizio
dove sponesti il tuo portato santo». |
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22 |
e continuare: «Tu fosti tanto povera; quanto si può
vedere da quell'umile stalla dove deponesti la santa
creatura che portavi in seno». |
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Il disprezzo delle ricchezze viene presentato sia come
accettazione della povertà negli esempi della Vergine
Maria e di Fabrizio, sia come virtuosa liberalità
nell'azione di San Nicola di Bari. Nel primo esempio
domina il ricordo della povertà della Vergine, che
partorì in una grotta e depose il figlio in una
mangiatoia (Luca II, 7). |
25 |
Seguentemente intesi: «O buon Fabrizio,
con povertà volesti anzi virtute
che gran ricchezza posseder con vizio». |
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25 |
Successivamente udii dire: «O
eccellente Fabrizio, tu preferisti la virtù nella
povertà piuttosto che possedere grande ricchezza con
disonestà». |
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Caio Fabrizio Luscinio, console nel 282 e nel 278 a. C.,
fu protagonista di due famosi episodi, tradizionalmente
citati come esempi di rettitudine e di incorruttibilità:
prima respinse i doni dei Sanniti, per i quali aveva
ottenuto la pace, e due anni dopo rifiutò i regali
offertigli da Pirro, e morì così povero che i funerali
avvennero a spese dello stato. |
28 |
Queste
parole m'eran sì piaciute,
ch'io mi trassi oltre per aver contezza
di quello spirto onde parean venute. |
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28 |
Queste parole mi erano
piaciute a tal punto, che mi spinsi innanzi per
conoscere quello spirito dal quale sembravano venire. |
31 |
Esso parlava
ancor de la larghezza
che fece Niccolò a le pulcelle,
per condurre ad onor lor giovinezza. |
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31 |
Esso parlava ancora
lodando la liberalità che usò San Nicola in favore di
alcune fanciulle, per condurre la loro giovinezza a
nozze onorate. |
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Il terzo esempio ricorda un episodio della leggenda di
San Nicola, vescovo di Mira, nella Licia, e patrono di
Bari, vissuto tra il III e il IV sec. d. C.: per tre
notti consecutive San Nicola depose di nascosto tre
somme di denaro in casa di un povero gentiluomo, al
quale mancavano i mezzi sufficienti per dotare le sue
tre figlie, forse costrette per questo a prostituirsi.
La leggenda era popolarissima nel Medioevo e divulgata
in testi latini e romanzi. |
34 |
«O anima che
tanto ben favelle,
dimmi chi fosti», dissi, «e perché sola
tu queste degne lode rinovelle. |
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34 |
E io dissi:
«O
anima che ricordi esempi così insigni di virtù, dimmi
chi fosti e perché tu sola richiami alla memoria azioni
così degne di lode. |
37 |
Non fia
sanza mercé la tua parola,
s'io ritorno a compiér lo cammin corto
di quella vita ch'al termine vola». |
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37 |
Il tuo parlare non sarà
senza ricompensa, se è vero che io debbo tornare a
completare il breve viaggio di quella vita terrena che
corre rapidamente verso il suo termine». |
40 |
Ed elli: «Io
ti dirò, non per conforto
ch'io attenda di là, ma perché tanta
grazia in te luce prima che sie morto. |
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40 |
E lo spirito mi rispose:
«Ti
dirò quanto chiedi, non perché io attenda suffragi dalla
terra, ma perché in te brilla così chiara la Grazia
prima che tu sia morto. |
43 |
Io fui
radice de la mala pianta
che la terra cristiana tutta aduggia,
sì che buon frutto rado se ne schianta. |
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43 |
Io fui il capostipite di
quella malvagia dinastia dei Capetingi, che copre di
malefica ombra tutta la cristianità, tanto che raramente
da essa si coglie il buon frutto di qualche persona
virtuosa. |
46 |
Ma se Doagio,
Lilla, Guanto e Bruggia
potesser, tosto ne saria vendetta;
e io la cheggio a lui che tutto giuggia. |
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46 |
Ma se Douai, Lille, Gand
(Guanto) e Bruges potessero, presto ne farebbero
vendetta; ed io la chiedo a Dio che tutto giudica. |
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Dante accenna alla guerra tra Filippo il Bello e le
Fiandre (1297-1299), indicate. col nome delle quattro
principali città della contea (Douai, Lille, Gand,
Bruges), e al tradimento perpetrato da Filippo nel 1299
contro il conte di Fiandra, il quale, arresosi col patto
di essere lasciato libero, fu invece imprigionato con i
figli e condotto a Parigi. I Fiamminghi si vendicarono,
dapprima con la feroce rivolta di Bruges e poi
infliggendo ai Francesi la sconfitta di Courtrai nel
marzo del 1302. |
49 |
Chiamato fui
di là Ugo Ciappetta;
di me son nati i Filippi e i Luigi
per cui novellamente è Francia retta. |
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49 |
Sulla terra fui chiamato Ugo Capeto (Ciappeffa
dal francese Chapet) da me nacquero i Filippi e i Luigi
dai quali la Francia è governata nei tempi più recenti
(cessata la dinastia dei Carolingi). |
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Ugo Capeto (Huegues Chapef o Capet, dalla cappa che
indossava come abate laico), re di Francia dal 987 al
996, fu figlio di Ugo I il Grande, duca ili Francia e
conte di Parigi, morto nel 956. Ugo I il Grande è da
considerarsi il vero capostipite dei Capetingi, anche se
egli, pur avendo di fatto il potere sotto gli ultimi re
carolingi (regi antichi), non ebbe mai formalmente il
titolo regio che passò invece a Ugo II Capeto,
incoronato re di Francia nel 987, alla morte dell'ultimo
re della dinastia carolingia, Ludovico V, detto il
Neghittoso. Dante, di fatto, ha confuso il figlio con il
padre; confusione già esistente nella tradizione. Quindi
la prospettiva cronologica che Dante ci dà sulle origini
della dinastia capetingia è approssimativa. Inoltre il
Poeta per passione polemica e spinto da fiero spirito
antifrancese accoglie qui la leggenda, rimasta nella
tradizione, delle basse origini di Ugo Capeto (figliuol...
d'un beccaio), e quindi di tutta la dinastia dei
Capetingi, per dar rilievo al fatto che la dinastia
francese mancava di un titolo o patente regolare di
nobiltà, di esclusiva competenza e concessione
imperiali. I nomi di Filippo e Luigi prevalgono nella
serie dei Capetingi fino a Dante, da Filippo I (morto
nel 1108) a Filippo IV il Bello (1285-1314), da Luigi VI
il Grosso (morto nel 1137) a Luigi IX il Santo (morto
nel 1270). |
52 |
Figliuol fu'
io d'un beccaio di Parigi:
quando li regi antichi venner meno
tutti, fuor ch'un renduto in panni bigi, |
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52 |
Io fui figlio d'un mercante di buoi di
Parigi: quando si estinsero tutti i re dell'antica
dinastia dei Carolingi, tranne uno che vestì l'abito
monacale, |
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Probabilmente Dante confonde Childerico III, ultimo dei
re Merovingi chiuso in un convento da Pipino di Heristal,
il fondatore della dinastia carolingia, con Carlo di
Lorena, ultimo dei Carolìngi, che cadde nelle mani di
Ugo Capeto mentre tentava di riconquistare il regno e
morì in prigione dopo il 992. |
55 |
trova'mi
stretto ne le mani il freno
del governo del regno, e tanta possa
di nuovo acquisto, e sì d'amici pieno, |
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55 |
mi trovai salda nelle mani
la guida del governo del regno, e (mi trovai) tanta
potenza di recenti ricchezze, e tale moltitudine di
fautori, |
58 |
ch'a la
corona vedova promossa
la testa di mio figlio fu, dal quale
cominciar di costor le sacrate ossa. |
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58 |
che la corona regale
vacante fu cinta sulla testa di mio figlio Roberto, dal
quale ebbe inizio la discendenza dei re solennemente
consacrati (di costor le sacrale ossa). |
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Storicamente, poco dopo la sua elezione a re di Francia,
nel 987, Ugo Capeto, per assicurare la successione, si
associò al trono il figlio Roberto e lo fece consacrare
a Reims.
Dopo essersi dichiarato senza perifrasi in tono di sfida
quasi più che di pentimento, con un senso di doloroso
autocompiacimento per le vicende che sarà costretto ad
enumerare e che pur non riusciranno, nelle scandite
forme della deprecazione, a placare il suo inesausto
furore - radice della mala pianta che la terra cristiana
tutta aduggia, Ugo Capeto delinea, in pochi scorci
essenziali, la propria biografia. In essa inserisce il
tema - con tanta frequenza riproposto dal Poeta nella
Commedia della contrapposizione delle virtù antiche al
generale tralignamento dei suoi contemporanei: al
malinconico, umile tramonto della dinastia dei Carolingi
(quando li regi antichi venner meno: è da rilevare in
questo verso l'investitura di glorioso prestigio che al
termine regi conferisce l'attributo antichi, attributo
che si carica di tutta la nostalgia di Dante esule per
quel mondo che egli ha veduto tramontare e del cui
violento tramonto è stato egli stesso una vittima)
violentemente si sovrappone - ma in modo volutamente
lasciato indeterminato, ambiguo - l'ascendere, sul
firmamento di Francia, di un nuovo astro, avido e
rapace: il figlio di un beccaio, destinato a dar vita
alla serie funesta dei vari Filippi e Luigi (un evidente
disprezzo, qui ancora contenuto, anima queste puntuali
specificazioni, se raffrontate con l'aura di
indeterminazione sacra che avvolge le generazioni
travolte. Osserva il Grana: "La confessione di Ugo ha
prima toni ambigui, che incidono specialmente sui verbi:
li regi antichi "venner meno", un "renduto" in panni
bigi... "Venner meno", "renduto" ... non definiscono,
anzi lasciano un margine all'immaginazione sospettosa
del lettore, lasciano intuire più oscure violenze e
losche vicende che le parole non dicano. E il periodo
unico... che compendia in immagini essenziali tutto il
corso della vita pubblica di Ugo Capeto, questa unità
organica di un destino e di una progenitura, converge
per energia espressiva e senso logico, sulle vigorose
cesure e metafore del secondo ternario, trovami stretto
nelle mani il freno, e tanta possa di nuovo acquisto". |
61 |
Mentre che
la gran dota provenzale
al sangue mio non tolse la vergogna,
poco valea, ma pur non facea male. |
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61 |
Finché la grande dote della contea di
Provenza non tolse alla mia discendenza ogni pudore di
fronte al male, essa valeva poco, ma neppure operava il
male. |
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Beatrice Berlinghieri nel 1245 portò in dote la contea
di Provenza andando sposa a Carlo I d'Angiò, fratello di
Luigi IX il Santo. Secondo altri la gran dota sarebbe la
contea di Tolosa unita alla corona di Francia nel 1229. |
64 |
Lì cominciò
con forza e con menzogna
la sua rapina; e poscia, per ammenda,
Pontì e Normandia prese e Guascogna. |
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64 |
A questo punto la mia stirpe cominciò
la sua rapina con la violenza e con l'inganno: e poi,
per fare ammenda (della prima rapina), si impadronì del
Ponthieu, della Normandia e della Guascogna. |
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Filippo il Bello ritolse nel 1294 la contea di Ponthieu
e la Guascogna agli Inglesi, i quali al principio del
secolo XIII avevano già dovuto cedere il ducato di
Normandia: Ancora una volta Dante, Per errore o
intenzionalmente, non si cura della prospettiva storica. |
67 |
Carlo venne
in Italia e, per ammenda,
vittima fé di Curradino; e poi
ripinse al ciel Tommaso, per ammenda. |
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67 |
Carlo I d'Angiò venne in Italia e, per
fare ammenda, fece giustiziare Corradino di Svevia; e
poi, sempre per fare ammenda, fece risalire in cielo
Tommaso d'Aquino. |
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Carlo I d'Angiò, dopo aver sconfitto Manfredi a
Benevento nel 1266 batté il giovane imperatore Corradino
di Svevia a Tagliacozzo. facendolo poi mettere a morte
nel 1268.
San Tommaso d'Aquino mori nell'abbazia di Fossanova
mentre si recava al concilio di Lione nel 1274. Corse
voce che l'avesse fatto avvelenare Carlo I d'Angiò per
impedirgli di parlare contro di lui al concilio (cfr.
Villani . Cronaca IX, 218).
La curva ascendente della catena di angherie e delitti
che segna l'affermarsi della casa di Francia, il
crescere della mala pianta destinata ad offuscare la
luce del sole (il pianeta che mena dritto altrui per
ogni calle, simbolo, nella Commedia come nei precedenti
trattati in prosa, della luce del vero, della guida al
bene) si suggella - per quanto riguarda l'evocazione di
un passato ignobile e, per l'animo di Ugo Capeto
(diretto portavoce qui del pensiero del Poeta), doloroso
come una ferita da poco aperta e ancora sanguinante -
nel ritorno martellato, alla fine dei versi 65, 67, 69,
della postilla beffarda per ammenda, volta a
sottolineare, insieme all'incalzare delle coordinate, il
ripercuotersi fatale di una vocazione al male nelle
successive generazioni di questa dinastìa. Analogamente,
nella profezia che, a partire dal verso 70, svelerà il
futuro implacabile che tale passato dovrà partorire, il
riproporsi ossessivo della formula vegg'io scandirà
l'ingigantirsi, mostruoso, unitamente alla potenza da
essi acquistata in terra, dell'ombra che i nuovi re di
Francia proietteranno sull'ecumenicità cristiana.
II male che si ripercuote di padre in figlio, non dà
luogo - nelle parole di Ugo Capeto - a singole
caratterizzazioni drammatiche, ad atti suscettibili di
essere considerati a sé, indipendentemente da quelli che
li hanno prodotti e da quelli che da essi scaturiranno:
è un torrente inarrestabile quello che trascina - senza
concedere loro un attimo quasi di respiro, la pausa di
una riflessione non condizionata dalle precedenti
ignominie - questi re, questi unti del Signore, verso
abominazioni sempre più gravi. Il senso del tragico, che
il Bonora è giunto a dichiarare assente da questa
imprecante oratoria, va quindi ricercato nell'insieme
che vincola le colpe dei padri a quelle della loro
discendenza, nell'insieme cioè delle sciagure che
sgorgano in pauroso crescendo dal petto ansante di
quest'anima dimentica del luogo di penitenza e perdono
in cui è posta, e che odio e deprecazione non
riusciranno a saziare, ma solo l'attesa di sciagure, la
cul attuazione costituirà per essa motivo di gaudio e di
appagamento (cfr. versi 94-96) .
L'astio antiangioino del Poeta, che qui riecheggia, per
sarcastico contrappasso, nelle parole dello stesso
fondatore della dinastia succeduta a quella dei
Carolingi, è motivato - su un piano più generale,
coinvolgente le sorti dell'intera umanità - dal fatto
che i membri di questa dinastia hanno osato attentare -
nelle persone di Corradino di Svevia (verso 68) e di
Bonifacio VIII (cfr. versi 85-90) - alle due sacre
maestà, da Dio preposte alla guida del genere umano, i
"due luminari" della trattatistica medievale e della
Monarchia, i due soli dell'appassionato perorare di
Marco Lombardo. E ancora trae motivo - su un piano più
circoscritto, ma più direttamente legato alle vicende
del Poeta (il prevalere dei Neri in Firenze ed il suo
conseguente esilio) - dagli intrighi di Carlo di Valois,
"paciaro° di Toscana nel 1301 (versi 70-78). |
70 |
Tempo vegg'
io, non molto dopo ancoi,
che tragge un altro Carlo fuor di Francia,
per far conoscer meglio e sé e ' suoi. |
|
70 |
Io vedo un tempo futuro, non molto
lontano da oggi, in cui uscirà fuori di Francia un altro
Carlo, per fare meglio conoscere la malvagità sua e dei
suoi. |
|
Carlo di Valois, fratello di Filippo il Bello, venne in
Italia su invito di Bonifacio VIII per riconquistare la
Sicilia agli Angioini; ma, anziché occuparsi della
Sicilia, fu inviato dal pontefice come paciere a
Firenze, dove inasprì le lotte delle fazioni e favorì i
Neri che sopraffecero ed esiliarono i Bianchi
(1301-1302) , fra i quali Dante. |
73 |
Sanz' arme
n'esce e solo con la lancia
con la qual giostrò Giuda, e quella ponta
sì, ch'a Fiorenza fa scoppiar la pancia. |
|
73 |
Esce di Francia senza armi
e solo con la lancia (della menzogna e del tradimento)
con la quale aveva combattuto Giuda, e spinge forte
quell'arma nel ventre di Firenze così da farlo
scoppiare. |
76 |
Quindi non
terra, ma peccato e onta
guadagnerà, per sé tanto più grave,
quanto più lieve simil danno conta. |
|
76 |
Da questa impresa non
guadagnerà terre, ma peccato e vergogna, che per lui
saranno tanto più gravi, quanto più lieve egli riterrà
tale danno. |
79 |
L'altro, che
già uscì preso di nave,
veggio vender sua figlia e patteggiarne
come fanno i corsar de l'altre schiave. |
|
79 |
Vedo l'altro Carlo, quello
che già fu tratto prigioniero dalla sua nave, vendere
sua figlia e patteggiarla come fanno i corsari con
schiave qualsiasi. |
|
Qui Dante accenna a Carlo II d'Angiò, figlio di Carlo I.
Egli fu fatto prigioniero nel golfo di Napoli nel giugno
del 1284 da Ruggero di Lauria, ammiraglio degli
Aragonesi in lotta con gli Angioini per il possesso del
regno di Napoli. Carlo II d'Angiò si comportò come fanno
i corsari nei confronti della figlia Beatrice, che egli
nel 1305 "venderà" in sposa ad Azzo VIII d'Este,
contrattandone la dote. |
82 |
O avarizia,
che puoi tu più farne,
poscia c'ha' il mio sangue a te sì tratto,
che non si cura de la propria carne? |
|
82 |
O avarizia, che altro di
peggio puoi farci, dal momento che hai asservito a te la
mia discendenza, al punto tale che per te non si cura
più dei propri figli ? |
85 |
Perché men
paia il mal futuro e 'l fatto,
veggio in Alagna intrar lo fiordaliso,
e nel vicario suo Cristo esser catto. |
|
85 |
Affinché il male futuro e
quello fatto nel passato appaiano meno gravi, ti dirò
che vedo entrare in Anagni l'insegna dei re di Francia,
e vedo Cristo esser fatto prigionero nella persona del
suo vicario. |
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Il Poeta allude qui all'episodio tristemente famoso in
cui culminò la lotta tra Filippo il Bello e Bonifacio
VIII. passato alla storia col nome di "schiaffo d'Anagni"
: dopo che il papa aveva scomunicato il re (13 aprile
1303) e che questi aveva fatto dichiarare deposto il
pontefice da un concilio di vescovi (10 giugno 1303),
Guglielmo di Nogaret, ministro del re, e Sciarra Colonna
il 7 settembre 1303 con ottocento armati invasero la
residenza pontificia di Anagni per arrestare Bonifacio
VIII con l'intenzione di portarlo in Francia. Si dice,
ma non è provato, che Sciarra Colonna osò perfino
schiaffeggiare il pontefice. Il popolo insorse e dopo
tre giorni riuscì a liberare il papa, che tornò a Roma
dove mori di dolore il 12 ottobre 1303. Dante chiama
Filippo il Bello novo Pilato sia perché consegnò il papa
nelle mani dei Colonna, suoi nemici, come Pilato aveva
consegnato Cristo ai Giudei, sia perché volle respingere
ipocritamente ogni personale responsabilità
nell'episodio. |
88 |
Veggiolo
un'altra volta esser deriso;
veggio rinovellar l'aceto e 'l fiele,
e tra vivi ladroni esser anciso. |
|
88 |
Lo vedo deriso un'altra
volta; vedo offrirgli nuovamente l'aceto e il fiele, e
lo vedo ucciso in mezzo a ladroni che continuano a
vivere (vivi: i due responsabili dell'oltraggio). |
91 |
Veggio il
novo Pilato sì crudele,
che ciò nol sazia, ma sanza decreto
portar nel Tempio le cupide vele. |
|
91 |
Vedo il nuovo Pilato
diventato tanto crudele, che di questo non si sazia, ma
arbitrariamente volge la sua cupidigia contro i
Templari. |
|
Filippo il Bello, spinto dalla sua insaziabile
cupidigia, scatenò contro il potente ordine cavalleresco
dei Templari (fondato nel 1119 a Gerusalemme) una
campagna di calunnie conclusasi, nel 1307, con la
confisca delle enormi ricchezze dell'ordine e con
l'imprigionamento e la condanna a morte di numerosi suoi
membri, accusati di eresia.
L'evocazione dell'episodio di Anagni, mentre da un lato
corona la visione profetica delle malefatte degli
Angioini, ne rappresenta anche il momento di più intensa
drammaticità sul piano della resa espressiva.
Negli episodi che pongono come un fastigio di perfezione
nel male alla catena di misfatti perpetrati dai
Capetingi (versi 73-93) riecheggia continuamente il
richiamo a passi ed espressioni evangeliche concernenti
la passione di Cristo. Tali passi ed espressioni
assumono - nell'ansimare profetico dell'anima di Ugo
Capeto non sazia di dolori - cadenze più dure e decise
di quelle che hanno nella piana stesura del racconto nei
libri sacri, quasi la Passione del Cristo si fosse
rivelata un olocausto inutile ed il sangue stesso del
Figlio di Dio non fosse valso a riscattare, se non
parzialmente ed in modo che il tempo ha offuscato,
l'umanità dal germe del male che la abita. Se Carlo di
Valois è ancora soltanto un vile che giostra (quanto
amaro sarcasmo nel riferire un atto di tradimento alle
nobili tradizioni della cavalleria!) con la lancia di
Giuda, Filippo il Bello è il rinnovellato Pilato,
laddove Bonifacio VIII - fatto altrove oggetto, nella
concretezza del suo agire storico, di deprecazione e
condanna da parte del Poeta, - veduto qui invece
unicamente nella maestà inviolabile del manto che lo
riveste - è senzaltro indicato come il Cristo stesso,
una seconda volta incarnatosi e crocifisso fra i due
ladroni (ma i due ladroni sono i suoi stessi
seviziatori, onde la parafrasi del testo evangelico si
colora, in questa rievocazione dello schiaffo di Anagni,
di toni sinistri e striduli). Bonifacio VIII, il quale,
in quanto protagonista funesto delle vicende che
portarono al bando di Dante da Firenze, è generalmente
considerato dal Poeta come l'incarnazione stessa del
male in terra, qui appare purificato ormai da ogni
scoria terrena, da ogni macchia politica: è soltanto il
"servo dei servi di Dio", che dolorosamente espia,
dall'alto del più glorioso dei troni, i peccati del
mondo. |
94 |
O Segnor
mio, quando sarò io lieto
a veder la vendetta che, nascosa,
fa dolce l'ira tua nel tuo secreto? |
|
94 |
O Signore mio, quando avrò
io la consolazione di vedere in atto il tuo giusto
castigo che, ancora a noi nascosto, nei tuoi segreti
disegni rende dolce la tua ira? |
97 |
Ciò ch'io
dicea di quell' unica sposa
de lo Spirito Santo e che ti fece
verso me volger per alcuna chiosa, |
|
97 |
Quello che
dicevo della Vergine Maria, l'unica sposa dello Spirito
Santo, e che ti indusse a rivolgerti a me per averne
qualche spiegazione, |
100 |
tanto è
risposto a tutte nostre prece
quanto 'l dì dura; ma com' el s'annotta,
contrario suon prendemo in quella vece. |
|
100 |
(con gli
altri esempi di virtù) segue come un responsorio tutte
le nostre preghiere tanto quanto dura il giorno; ma
quando giunge la notte al posto di questi esempi
incominciamo a gridare esempi contrari. |
103 |
Noi repetiam
Pigmalïon allotta,
cui traditore e ladro e paricida
fece la voglia sua de l'oro ghiotta; |
|
103 |
Allora noi rievochiamo
l'esempio di Pigmalione, che l'avida brama di oro fece
traditore, ladro e parricida (nel significato latino di
uccisore di un parente prossimo); |
|
Pigmalione, re di Tiro e fratello di Didone, uccise a
tradimento il cognato e zio Sicheo per impadronirsi
delle sue ricchezze (cfr. Virgilio, Eneide I, 340-350). |
106 |
e la miseria
de l'avaro Mida,
che seguì a la sua dimanda gorda,
per la qual sempre convien che si rida. |
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106 |
e rievochiamo la misera condizione
nella quale l'avaro re Mida si trovò dopo la sua domanda
ingorda, per cui (ricordandola) ogni volta non si può
non riderne. |
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Mida, il mitico re frigio, ottenne da Bacco, suo ospite,
il potere di cambiare in oro quanto toccava, ma sarebbe
morto di fame se non avesse ottenuto che il privilegio
gli fosse tolto (cfr, Ovidio - Metamorfosi XI, 102-145). |
109 |
Del folle
Acàn ciascun poi si ricorda,
come furò le spoglie, sì che l'ira
di Iosüè qui par ch'ancor lo morda. |
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109 |
Poi ciascuno di noi ricorda la follia
di Acan, che rubò parte del bottino, cosicché qui sembra
colpirlo ancora l'ira di Giosuè. |
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Acan fu lapidato con i suoi familiari perché nella presa
di Gerico, trasgredendo agli ordini di Giosuè, s'era
impadronito di alcuni oggetti del nemico (cfr. Giosuè
VI, 18-19; VII, 20-26). |
112 |
Indi
accusiam col marito Saffira;
lodiam i calci ch'ebbe Elïodoro;
e in infamia tutto 'l monte gira |
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112 |
Quindi accusiamo Safira col marito;
lodiamo Iddio per i calci del cavallo toccati a
Eliodoro; e con infamia viene ripetuto in tutto il monte |
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Safira e suo marito Anania, incaricati di amministrare
alcuni beni della comunità apostolica, trattennero per
sé una parte del denaro ricavato dalla vendita d'un
podere: scoperto l'inganno, caddero a terra fulminati al
rimprovero loro rivolto da San Pietro (cfr. Atti degli
Apostoli V, 1-10).
Eliodoro, inviato da Seleuco, re di Siria, a
saccheggiare il tempio di Gerusalemme, ne fu impedito
perché, appena messo piede nel luogo sacro, "apparve...
un cavallo montato da un terribile cavaliere e
riccamente bardato", il quale colpì con le zampe
anteriori Eliodoro (II Maccabei III, 7-25). |
115 |
Polinestòr
ch'ancise Polidoro;
ultimamente ci si grida: "Crasso,
dilci, che 'l sai: di che sapore è l'oro?". |
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115 |
il nome di Polinestore che uccise
Polidoro: infine ci gridiamo a vicenda: "Crasso, tu che
lo sai, dillo a noi : che sapore ha l'oro?" |
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Polinestore, re di Tracia e genero di Príamo, uccise a
tradimento il giovane cognato Polidoro, affidatogli dai
suoceri, per impadronirsi delle sue ricchezze; la
vendetta fu compiuta da Ecuba, che, saputo il fatto, lo
accecò e lo uccise (cfr. Virgilio - Eneide III, 19-68;
Ovidio, Metamorfosi XIII, 429-575) . Il triumviro M.
Licinio Crasso (114-153 a. C), famoso per le sue
ricchezze e per la sua cupidigia, morì in Asia Minore
durante una spedizione contro i Parti; si dice che Orode,
re dei Parti, avutane la testa, gli facesse versare oro
fuso in bocca dicendo: "Avesti sete d'oro: bevine
dunque!" (cfr. Cicerone De officiis I, 30; II, 18-57). |
118 |
Talor parla
l'uno alto e l'altro basso,
secondo l'affezion ch'ad ir ci sprona
ora a maggiore e ora a minor passo: |
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118 |
Talora (ricordando gli
esempi) uno di noi parla a voce alta e un altro a voce
più bassa, secondo l'intensità del sentimento che ci
sprona a procedere nella purificazione ora con maggiore
ora con minore desiderio |
121 |
però al ben
che 'l dì ci si ragiona,
dianzi non era io sol; ma qui da presso
non alzava la voce altra persona». |
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121 |
perciò a ricordare gli
esempi virtuosi che di giorno qui (ci) ripetiamo, non
ero io solo poco fa; ma qui vicino a me non alzava la
voce nessun'altra anima". |
124 |
Noi eravam
partiti già da esso,
e brigavam di soverchiar la strada
tanto quanto al poder n'era permesso, |
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124 |
Noi ci eravamo già
allontanati da lui, e ci studiavamo di percorrere la
strada con tanta fretta quanta ci permetteva la
difficoltà del cammino, |
127 |
quand' io
senti', come cosa che cada,
tremar lo monte; onde mi prese un gelo
qual prender suol colui ch'a morte vada. |
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127 |
quando sentii tremare il
monte, come se stesse franando; per questo mi prese quel
gelido spavento che suole provare chi è condotto al
supplizio: |
130 |
Certo non si
scoteo sì forte Delo,
pria che Latona in lei facesse 'l nido
a parturir li due occhi del cielo. |
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130 |
certo l'isola di Delo non
veniva scossa dal mare così violentemente, prima che
Latona la scegliesse come rifugio per darvi alla luce
Apollo e Diana (li due occhi del cielo: cioè il sole e
la luna). |
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L'isola di Delo, secondo il mito, galleggiava sulle
acque in balia delle onde e servi da rifugio a Latona,
perseguitata dall'ira della gelosa Giunone, per darvi
alla luce Apollo e Diana, personificazioni del sole e
della luna. L'isoletta errante dell'Egeo fu poi resa
stabile da Apollo per riconoscenza dell'aver essa dato
asilo alla madre (cfr. Virgilio -Eneide III, 69-77;
Ovidio - Metamorfosi VI, 189 sgg.).
Ricondotta l'attenzione del lettore sul tema del viaggio
ultramondano e ripresi i motivi consueti della poesia
della seconda cantica, Dante propone sul finire di
questo canto percorso da un'ira incontenibile, quasi in
solenne risposta all'ansia invocante dell'anima di Ugo
Capeto, una diretta manifestazione del divino nel corso
delle vicende umane (in questo caso l'umana vicenda è
rappresentata dal peregrinare del Poeta, in carne ed
ossa, nei reami della morte), in chiave tuttavia di
perdono e di mistica letizia. "L'invocazione impaziente
di un intervento soprannaturale, così ripetuta nel canto
come in nessun altro del Purgatorio, sembra coronata e
soddisfatta nel trionfo di gloria per la liberazione di
un'anima." (Grana)
Notiamo, al verso 127, l'audace contrasto che si
determina tra l'amorfa, quotidiana familiarità di quel
cosa e lo squassarsi del monte che, secondo i principii
che presiedono alla cosmologia dantesca, non dovrebbe
conoscere perturbamenti di sorta (come sarà chiarito nel
canto XXI, versi 43-54). Il riferimento dotto ad una
vicenda della mitologia pagana nella terzina successiva
(130-132) accentua ulteriormente il rilievo conferito al
carattere miracoloso di questo terremoto
dall'accostamento, per via di analogia, al semplice
cosa. Assistiamo infatti, in questa terzina, alla
miracolosa nascita, nella solitudine propizia di
un'isoletta, di quei "due luminari" di cui parla la
Genesi e che hanno tanta parte nel determinare la
complessa, ma rigorosa simbologia dantesca. |
133 |
Poi cominciò
da tutte parti un grido
tal, che 'l maestro inverso me si feo,
dicendo: «Non dubbiar, mentr' io ti guido». |
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133 |
Poi da ogni parte si levò
un grido tanto possente, che il mio maestro (per
rassicurarmi) s'accostò a me, dicendo: «Non temere,
finché ti guido io». |
136 |
'Glorïa in
excelsis' tutti 'Deo'
dicean, per quel ch'io da' vicin compresi,
onde intender lo grido si poteo. |
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136 |
Per quello che capii dalla
voce delle anime più vicine, da cui fu possibile
intendere le parole gridate, tutti dicevano: «Gloria a
Dio nel più alto dei cieli» (l'inno cantato dagli angeli
alla nascita di Gesù; cfr. Luca II, 14). |
139 |
No' istavamo
immobili e sospesi
come i pastor che prima udir quel canto,
fin che 'l tremar cessò ed el compiési. |
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139 |
Noi due ce ne stavamo
immobili e con l'animo sospeso (sospesi) come i pastori
di Betlemme, che per primi udirono quel canto, finché
cessò il tremito del monte ed ebbe termine il canto. |
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II tema della natività viene definito in una cornice
grandiosa dalla evocazione del mito pagano nei versi
130-132: tutti gli elementi del quadro contribuiscono al
carattere di mistero sovrannaturale da esso proposto,
ma, in particolare, la contrapposizione tra la
piccolezza di quell'isola perduta nel vasto Mediterraneo
e gli astri celesti che da essa prenderanno gioioso
avvio al loro eterno rincorrersi sulla volta celeste,
tra la loro nascita - avvenuta in termini e proporzioni
ancora umani - e il loro destino di fonti di luce,
destinate a giganteggiare sull'umanità quali simboli di
una guida etica secondo l'interpretazione moraleggiante
data dal Medioevo. Questo tema è ripreso, nei versi
139-141, su un tono di più sospesa attenzione al
determinarsi del dato interiore e di più vibrante
intimità. La presenza del sovrannaturale, nella natività
del Cristo, è di tanto meno vistosa del proporsi nel
mito pagano, - in termini di una grandiosità ancora
esteriore - della nascita di Apollo e Diana, di quanto
risulta più direttamente vincolata al problema della
colpa e del dolore. |
142 |
Poi
ripigliammo nostro cammin santo,
guardando l'ombre che giacean per terra,
tornate già in su l'usato pianto. |
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142 |
Poi riprendemmo la strada
della purificazione, osservando le ombre giacenti a
terra, già tornate al loro pianto abituale. |
145 |
Nulla
ignoranza mai con tanta guerra
mi fé desideroso di sapere,
se la memoria mia in ciò non erra, |
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145 |
Se in questo la mia
memoria non erra, nessuna ignoranza mi rese mai
desideroso di sapere con tanto assillo, |
148 |
quanta
pareami allor, pensando, avere;
né per la fretta dimandare er' oso,
né per me lì potea cosa vedere: |
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148 |
quanto mi sembrava di
averne allora ripensando al terremoto e al canto; né
osavo domandare a Virgilio per la sua fretta, né da me
solo potevo vedere in quei fatti alcuna cosa che
m'illuminasse: |
151 |
così
m'andava timido e pensoso. |
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151 |
perciò procedevo timoroso
di chiedere e chiuso nei miei pensieri. |
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