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DIVINA
COMMEDIA: PARAFRASI
PURGATORIO
CANTO XXI° |
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1 |
La sete
natural che mai non sazia
se non con l'acqua onde la femminetta
samaritana domandò la grazia, |
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1 |
La sete naturale di sapere che mai si sazia se non con
quell'acqua della verità, della quale l'umile donna
samaritana chiese a Gesù la grazia (di potersi
dissetare), |
4 |
mi
travagliava, e pungeami la fretta
per la 'mpacciata via dietro al mio duca,
e condoleami a la giusta vendetta. |
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4 |
mi tormentava, e intanto
la fretta mi stimolava a salire dietro alla mia guida
per la via ingombra di anime, e sentivo compassione
della loro pena, pur riconoscendola giusta. |
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L'episodio della Samaritana si legge nel vangelo di
Giovanni (IV, 5-15): Gesù, trovandosi nella città di
Sichar vicino al pozzo di Giacobbe, chiese da bere a una
donna di Samaria, che aveva attinto l'acqua:
meravigliandosi la donna che un giudeo si rivolgesse a
una samaritana, Cristo le rispose con le famose parole:
"chi... berrà l'acqua che gli darò io, non avrà più sete
in eterno; ma l'acqua che gli darò, diventerà in lui
sorgente di acqua, zampillante fino alla vita eterna".
La samaritana allora ehiese a Gesù: "Signore, dammi di
quest'acqua, affinché non abbia più sete". Secondo gli
esegeti, l'acqua dell'episodio evangelico e la grazia
divina; per Dante, più precisamente, è la verità
rivelata da Cristo. L'accenno alla sete della femminetta
sammaritana, mentre suggella, riepilogandone - quasi eco
conclusiva - la limitata portata, le dense discussioni
teoriche dei canti centrali del Purgatorio, e schiude al
tempo stesso una dimensione fino a questo punto dalla
ragione soltanto allusa (quella cioè della Rivelazione),
"sottolinea la sacra solennità dell'avvenimento ritratto
nel canto XX: e anche qui la sostanza poetica non è
nelle apparenze esteriori del fatto ma nella profonda e
lunga risonanza che lascia nella coscienza di Dante" (Momigliano).
Osserva in proposito il Gabrieli: "Una sola parola, anzi
un solo diminutivo, la femminetta, ha messo il Poeta di
suo nell'allusione al celebre episodio di Giovanni dove
si parla di una mulier [donna]; e quel diminutivo basta
a farci risorger dinanzi il racconto evangelico con
evidenza ancor più immediata di note figurazioni
pittoriche, per cui ci sembra di vedere, accanto
all'umile donna di Samaria di cui è fatta menzione,
anche il divino interlocutore qui neppur nominato, ma la
cui presenza e parola domina tutta la scena". |
7 |
Ed ecco, sì
come ne scrive Luca
che Cristo apparve a' due ch'erano in via,
già surto fuor de la sepulcral buca, |
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7 |
Ed ecco improvvisamente, così come ci
racconta San Luca di Cristo, il quale apparve ai due
discepoli che erano sulla via di Emmaus, dopo che era
già risorto e uscito dal sepolcro scavato nella roccia, |
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Nel vangelo di Luca (XXIV, 13-35) si racconta come
Cristo, poco tempo dopo la sua risurrezione, mentre due
suoi discepoli erano sulla strada di Emmaus e
discutevano, "si avvicinò e si unì ad essi" senza essere
da loro riconosciuto. |
10 |
ci apparve
un'ombra, e dietro a noi venìa,
dal piè guardando la turba che giace;
né ci addemmo di lei, sì parlò pria, |
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10 |
ci apparve uno spirito, e
veniva dietro a noi, attenti a non calpestare con i
piedi le anime che giacevano a terra; e non ci
accorgemmo di lui, finché non parlò per primo, |
13 |
dicendo: «O
frati miei, Dio vi dea pace».
Noi ci volgemmo sùbiti, e Virgilio
rendéli 'l cenno ch'a ciò si conface. |
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13 |
dicendoci: «Fratelli miei, Dio vi conceda la pace». Noi
ci voltammo di scatto, e Virgilio gli restituì un cenno
di saluto che era intonato alla stessa cortesia. |
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Le due immagini - quella profana (la nascita del sole e
della luna nell'isola di Delo) e quella sacra (la
natività del redentore per l'esultanza degli umili) -
sono concepite come complementari l'una rispetto
all'altra e al tempo stesso in un rapporto di
subordinazione della prima alla seconda (nel rapporto
cioè che fonda il mero prodigio naturale, di per sé
destituito di significato, pur nella grandiosità delle
proporzioni che lo rendono manifesto, in un ambito di
valori intimamente connessi al nostro destino, al nostro
bisogno di riscattarci dal male, dal dolore). E, mentre
introducono solennemente all'evento miracoloso della
liberazione di un'anima dalle catene della penitenza
alla fine del cantò XX, conducono, come in un crescendo
sinfonico, alla evocazione del Cristo risorto e
miracolosamente apparso, sulla base della testimonianza
di Luca (il ne del verso 7 è come un atto di fede,
asserisce, al di fuori di ogni dubbio, l'universalità
del messaggio evangelico: Luca ha scritto per tutti
noi), a due discepoli i quali, non diversamente da Dante
e Virgilio, erano in via. |
16 |
Poi
cominciò: «Nel beato concilio
ti ponga in pace la verace corte
che me rilega ne l'etterno essilio». |
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16 |
Poi prese a dire: «Il tribunale
infallibile di Dio (la verace corte), che relega me
nell'eterno esilio del limbo, ti ponga nella beatitudine
del paradiso». |
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Particolarmente solenne e misurata è questa risposta di
Virgilio: essa tuttavia, nella contrapposizione evidente
dei due complementi oggetti, il ti del verso 17 e il me
del verso 18, si colora di una mestizia che non riesce
ormai più a tenersi celata, adombrando il tragico
destino del poeta latino che, come risulterà nel canto
successivo, ha schiuso a quest'anima la via della fede e
della beatitudine eterna, senza riuscire a riscattare se
stesso dalle tenebre del paganesimo. Giusta appare
l'osservazione del Momigliano, per il quale questo
"saluto di Virgilio ha un'intonazione insolita, non per
una ragione logica - poiché Virgiiio non sa ancora nulla
dell'anima con cui parla - ma per una ragione dì armonia
poetica: la solennità generale della scena trae
istintivamente Dante à colorire di un'insolita gravità
quel saluto". Ma forse più centrati e puntuali, in
rapporto a quella che emerge come la psicologia del
maestro di Dante in questo canto, risultano i seguenti
rilievi del Gallardo: "Pacate, malinconiche, rassegnate
come non erano mai state prima d'ora se non in qualche
accenno rìvolto a Dante, queste parole di Virgilio
indirizzate ad un'anima già avviata alla salvezza
eterna, pongono in luce particolare il sentimento del
personaggio Virgilio e la sua umana grandezza, la sua
generosità, la sua alta malinconia di escluso dalla
beatitudine celeste. E nell'aver immaginato il
personaggio di Stazio, nell'aver fatto proprio di Stazio,
ammiratore di Virgilio al quale riconoscerà di dover
tutto, poeta inferiore a Virgilio che lo ha guidato
sulla via dell'arte e su quella della salvezza, colui
che in un certo senso a Virgilio deve succedere, Dante
mostra veramente non solo devozione, omaggio,
riconoscimento, ma affetto e amore quale forse nessun
umanista ebbe mai verso il poeta latino. Virgilio appare
come uomo, per quanto riguarda le sue proprie virtù,
veramente il più grande". |
19 |
«Come!»,
diss' elli, e parte andavam forte:
«se voi siete ombre che Dio sù non degni,
chi v'ha per la sua scala tanto scorte?». |
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19 |
«Come!» ci rispose, e intanto
camminavamo in fretta: «se voi siete anime che Dio non
crede degne di salire in paradiso, chi vi ha guidate
così in alto su questa scala (del purgatorio)?» |
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Sempre del Gallardo è la seguente penetrante
osservazione sul carattere di Stazio, quale ci appare
fin dalle prime parole da lui pronunciate: "Stazio è
un'anima libera destinata al cielo; ma il suo modo di
parlare è ancora molto umano: anzi è questo in lui il
momento più veramente e liberamente umano. sciolto come
egli è dal peccato, ma non ancora «beato». È quindi
Stazio a stupirsi". Il Gallardo coglie molto bene quella
che è la nota costante che accompagnerà tutte le
manifestazioni di quest'anima ormai sulla soglia della
felicità eterna: una riconquistata ingenuità e
semplicità nel sentire, una predisposizione felice
all'entusiasmo non meno che alla meraviglia, unite ad un
oblio apparentemente crudele - nei riguardi di Virgilio
- di ciò che possa per altri rappresentare ancora la
colpa, un destino infelice (come quello dell'autore
dell'Eneide, il quale non per atti dei quali la
responsabilità possa essergli imputata si trova privato
per sempre della felicità celeste), il dolore, onde si è
potuto parlare di un "egoistico compiacimento"
(Galletti) che si sprigionerebbe dal parlare di
quest'anima. A questultima interpretazione si può
obiettare che ormai Stazio si trova nella condizione cui
Beatrice accenna come alla propria nel canto II
dell'Inferno (versi 91-93) : lo son fatta da Dio, sua
mercé, tale, che la vostra miseria non mi tange, né
fiamma d'esto incendio non m'assale. In altre parole
Stazio, sul limitare di uno stato di perfetta innocenza,
non può se non da lontano, ormai nella condizione di chi
si ridesta da un sogno, avere una percezione reale di
ciò che siano il male e il dolore. Vedremo che il suo
stato d'animo nei confronti di Virgilio sarà di
entusiastica adesione; anzi, nel suo impeto di
gratitudine che proromperà incontrollato per l'autore
dell'Eneide impeto che in lui coinciderà, nella
riacquistata innocenza, con la gioia per la sua
liberazione dal peccato - Stazio ci apparirà come
abbacinato da troppa luce, rinato ingenuo e schietto,
senza supposizioni circa le ombre che la colpa diffonde
sulla terra. |
22 |
E 'l dottor
mio: «Se tu riguardi a' segni
che questi porta e che l'angel profila,
ben vedrai che coi buon convien ch'e' regni. |
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22 |
E il mio maestro: «Se tu osservi bene i segni che costui
in parte ancora porta e che l'angelo suole tracciare
sulla fronte dei penitenti, potrai vedere chiaramente
che dovrà essere beato. |
25 |
Ma perché
lei che dì e notte fila
non li avea tratta ancora la conocchia
che Cloto impone a ciascuno e compila, |
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25 |
Ma poiché la parca Lachesi, colei che fila giorno e
notte (lo stame della vita umana), non aveva ancora
finito di filare traendo giù per lui il filo che Cloto
pone e avvolge (sulla rocca) per ciascuno, |
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L'affermazione che Dante è ancora vivo è svolta nei
termini del noto mito delle Parche, delle quali la più
giovane, Cloto, pone e avvolge sulla rocca, alla nascita
di ogni uomo, il filo che simboleggia la vita, filo che
poi la seconda Parca, Lachesi, lavora fino al momento in
cui la terza, Atropòs, dà il taglio che segna il momento
della morte. |
28 |
l'anima sua,
ch'è tua e mia serocchia,
venendo sù, non potea venir sola,
però ch'al nostro modo non adocchia. |
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28 |
la sua anima, che è sorella tua e mia,
salendo fin quassù, non poteva venire senza guida,
perché (essendo ancora unita al corpo) non vede
chiaramente il vero come noi. |
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Ai temi della nascita (limitata al suo manifestarsi
naturale nell'accenno al parto di Latona - canto XX,
versi 130132 - interpretata nel suo significato
umanissimo, in quanto promessa di sicuro riscatto, nel
quadro che raffigura Dante e Virgilio immobili e sospesi
non diversamente dai pastori che per primi udirono,
cantato dagli angeli, il Gloria - canto XX, versi
139-141) e della risurrezione radiosa del Cristo (donde
la repentinità del suo mostrarsi: apparve, perché ogni
determinazione ulteriormente circostanziata avrebbe
tolto levità a questa apparizione improvvisa), succede
il tema della morte inevitabile, della Parca implacata
che vigila sui destini di ciascuno di noi. Questo tema,
tuttavia, investe soltanto una parte del nostro essere,
il corpo, spazialmente localizzabile e vincolato alle
necessità ferree delle leggi naturali. Questo è
probabilmente il motivo per il quale il Poeta ricorre
qui al repertorio mitologico, come nella evocazione del
miracolo - veduto in termini che non oltrepassano il
dato naturale, anche se ce lo presentano ingigantito e
come vertiginosamente proiettato in una dimensione per
noi assurda. inconcepibile - della nascita di Apollo e
Diana. Gli antichi concepirono il miracolo come un
sovvertimento delle leggi della natura non fondato in
una sfera spirituale, vincolato quindi ancora al quadro
fisico in cui immaginarono che esso facesse irruzione;
le loro divinità del resto non erano che
personificazioni degli aspetti minacciosi o
imprevedibili che la natura - non ancora dominata da un
sicuro metodo scientifico - assumeva ai loro occhi. |
31 |
Ond' io fui
tratto fuor de l'ampia gola
d'inferno per mostrarli, e mosterrolli
oltre, quanto 'l potrà menar mia scola. |
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31 |
Per questo venni tratto
fuori dal limbo, il primo e più ampio cerchio
dell'inferno, per indicargli il cammino, e glielo
indicherò anche più avanti, fin dove lo potrà guidare il
mio insegnamento. |
34 |
Ma dimmi, se
tu sai, perché tai crolli
diè dianzi 'l monte, e perché tutto ad una
parve gridare infino a' suoi piè molli». |
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34 |
Ma se lo sai, dimmi perché
poco fa il monte sussultò con tali scosse, e perché
tutte le anime insieme parvero cantare a gran voce dalla
cima del monte alla sua base bagnata dal mare». |
37 |
Sì mi diè,
dimandando, per la cruna
del mio disio, che pur con la speranza
si fece la mia sete men digiuna. |
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37 |
Facendo questa domanda,
Virgilio indovinò così bene il mio desiderio (sì mi dié...
per la cruna del mio disio: come se avesse infilato con
precisione il filo nella cruna di un ago), che solo per
la speranza di una risposta la mia sete di sapere
divenne meno ardente. |
40 |
Quei
cominciò: «Cosa non è che sanza
ordine senta la religïone
de la montagna, o che sia fuor d'usanza. |
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40 |
E quell'anima cominciò a
dire: «Il santo monte non è soggetto ad alcuna mutazione
che non sia prestabilita da leggi, o che sia insolita. |
43 |
Libero è qui
da ogne alterazione:
di quel che 'l ciel da sé in sé riceve
esser ci puote, e non d'altro, cagione. |
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43 |
Questo luogo è esente da
ogni perturbazione terrestre: di quanto avviene qui
possono essere causa solo le forze intrinseche al cielo,
e non ciò che il cielo riceve dal di fuori. |
46 |
Per che non
pioggia, non grando, non neve,
non rugiada, non brina più sù cade
che la scaletta di tre gradi breve; |
|
46 |
Per questa ragione al
disopra della breve scaletta di tre gradini
(all'ingresso del purgatorio), non cade pioggia,
grandine, neve, rugiada, brina; |
49 |
nuvole
spesse non paion né rade,
né coruscar, né figlia di Taumante,
che di là cangia sovente contrade; |
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49 |
non appaiono nubi, né
dense né tenui, non lampi, e neppure l'arcobaleno
(figlia di Taumante), che di là sulla terra (essendo
opposto al sole) muta spesso zona nel cielo: |
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Iride, figlia di Taumante e di Elettra, secondo il mito
era la messaggera degli dei, specialmente di Giunone;
scendeva sulla terra a portare i suoi messaggi
camminando sull'arcobaleno che segnava il suo percorso
in cielo. |
52 |
secco vapor
non surge più avante
ch'al sommo d'i tre gradi ch'io parlai,
dov' ha 'l vicario di Pietro le piante. |
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52 |
e nemmeno il vapore secco supera la
sommità dei tre gradini di cui parlai, dove posa i piedi
l'angelo por tiere, vicario di San Pietro. |
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Qui Dante sottintende la teoria della fisica
aristotelica che attribuiva la causa delle alterazioni
terrestri ai vapori che sorgono dalla terra: i vapori
umidi causano le precipitazioni atmosferiche, pioggia,
grandine, neve, rugiada, brina ecc. (cfr. versi 46-50) ;
il vapore secco e sottile genera il vento; quello secco
e denso, non potendo uscire al l'aperto, rimane
imprigionato nelle viscere della terra e produce i
terremoti, poiché genera venti sotterranei che fanno
vibrare il terreno. L'insistere sulla negazione assunta
in funzione coordinativa (non... né... non) conferisce a
questa parte della delucidazione di Stazio un ritmo
incalzante e concitato, per cui questo intervento
didascalico, sfuggendo ai rischi di una sua definizione
in termini intellettualistici, s'impone alla nostra
attenzione anzitutto in quanto poesia, attonita
contemplazione di un ordine di leggi arcane, che la
nostra ragione non può cogliere. A determinare la
tonalità intimamente poetica di questo passo
contribuisce altresì l'animazione nei modi di un
capriccioso, leggendario errare (né figlia di Taumante,
che di là cangia sovente contrade), attribuita al
fenomeno dell'arcobaleno, nonché la netta
contrapposizione dei due ordini di leggi - tra loro
inconciliabili ad opera della sola ragione - cui
obbediscono rispettivamente la parte alta e quella bassa
della montagna del purgatorio. Stazio "rivela già qui
quella sua particolare competenza in naturalibus [in
campo scientifico] che sarà la ragione per cui Virgilio
gli affiderà l'impegnativo compito d'intrattenere (nel
canto XXV) Dante sul problema della generazione
dell'uomo" (Mattalia), ma occorre aggiungere che questa
sua "competenza in naturalibus" appare qui totalmente
trasfigurata e come travasata nella cornice di un mito
grandioso, di un eccelso miracolo. A determinare questo
clima di miracolo contribuisce per gran parte, al verso
48, il diminutivo scaletta, di cui la specificazione di
tre gradi e l'ulteriore attribuzione (breve) posta a
chiusura del verso sembrano voler ribadire l'esiguità:
la mole immane della montagna dei penitenti è sottomessa
ad una giurisdizione che ha quale suo attributo visibile
una piccola - derisoria in confronto alle maestose
proporzioni che ne tagliano la vetta in un cielo puro
scala di appena tre gradini. |
55 |
Trema forse
più giù poco o assai;
ma per vento che 'n terra si nasconda,
non so come, qua sù non tremò mai. |
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55 |
Al di sotto dei tre
gradini il monte forse trema poco o molto; ma (pur
poggiando sopra una base soggetta ai terremoti) quassù,
non so come, non tremò mai per il vento che si nasconde
dentro la terra (e causa i terremoti). |
58 |
Tremaci
quando alcuna anima monda
sentesi, sì che surga o che si mova
per salir sù; e tal grido seconda. |
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58 |
Qui il monte trema quando
qualche anima si sente purificata, al punto di levarsi
in piedi (se è in questo girone) o di muoversi per
ascendere (se è negli altri); e al terremoto segue il
canto del «Gloria». |
61 |
De la
mondizia sol voler fa prova,
che, tutto libero a mutar convento,
l'alma sorprende, e di voler le giova. |
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61 |
Della compiuta
purificazione è prova soltanto la volontà, la quale,
sentendosi del tutto libera di mutar dimora, colpisce
improvvisa l'anima, e tale volontà è efficace. |
64 |
Prima vuol
ben, ma non lascia il talento
che divina giustizia, contra voglia,
come fu al peccar, pone al tormento. |
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64 |
Prima (di sentirsi monda)
l'anima vuole bensì ascendere, ma non glielo permette
quel desiderio che, in contrasto con la volontà di
salire, la divina giustizia pone in lei rivolto
all'espiazione, come fu già rivolto al peccato. |
67 |
E io, che
son giaciuto a questa doglia
cinquecent' anni e più, pur mo sentii
libera volontà di miglior soglia: |
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67 |
E io, che per espiare
giacqui cinquecento anni e più in questo girone, solo
ora sentii tutta libera la volontà di muovermi verso la
dimora del paradiso |
70 |
però
sentisti il tremoto e li pii
spiriti per lo monte render lode
a quel Segnor, che tosto sù li 'nvii». |
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70 |
per questo hai sentito il
terremoto e hai udito gli spiriti pii rendere lode per
tutto il monte del purgatorio a quel Signore che mi
auguro voglia inviarli presto in paradiso». |
|
L'esposizione didascalica di Stazio, mantenuta - nella
descrizione delle leggi vigenti al di sopra della
scaletta di tre gradi breve - su un tono di ancora
apparente oggettività, assurge, nella seconda parte del
suo discorso, ad una tonalità più intensa: lo stupore
che aveva determinato la cadenza quasi di favola della
precedente descrizione si interiorizza, è come assorbito
in un raccolto, seppure gioioso, ripiegarsi dell'anima
redenta sul proprio destino. Oggetto dei chiarimenti di
Stazio non è più qui la natura - contemplata in una sua
condizione edenica, in quanto sottratta al determinismo
cieco che sembra vincolarla in terra - ma la sfera del
libero volere, autonoma nei riguardi della natura anche
nel corso del nostro esistere terreno. Il motivo - già
fatto oggetto di disamina severa da parte di Virgilio
nel canto XVIII - della moralità (verso 69: però
moralità lasciato al mondo) riaffiora commosso, dopo un
preludiare rapito ed estatico (trema... tremaci), nelle
terzine 61 e 64, per concludersi trionfalmente nella
contrapposizione del grande numero di anni occorso per
la purificazione di Stazio all'istante che di tale
purificazione ha segnato il termine felice (pur mo
sentii) e colmarsi di gratitudine nell'augurio da
quest'anima rivolto ai pii spiriti che hanno glorificato
il Signore per la sua avvenuta liberazione. |
73 |
Così ne
disse; e però ch'el si gode
tanto del ber quant' è grande la sete,
non saprei dir quant' el mi fece prode. |
|
73 |
Così ci parlò: e poiché
bevendo si gode tanto quanto grande è la sete, non
saprei dire quanto egli mi giovò (soddisfacendo con
questa risposta la mia ardente brama di conoscere). |
76 |
E 'l savio
duca: «Omai veggio la rete
che qui vi 'mpiglia e come si scalappia,
perché ci trema e di che congaudete. |
|
76 |
E la mia saggia guida:
«Ormai intendo chiaramente che cosa (il desiderio
guidato dalla volontà divina: cfr. versi 64-66) vi tiene
qui impigliati come una rete e come (con la penitenza)
ci si scioglie da essa, perché qui il monte trema, e
perché col canto vi rallegrate tutti insieme. |
79 |
Ora chi
fosti, piacciati ch'io sappia,
e perché tanti secoli giaciuto
qui se', ne le parole tue mi cappia». |
|
79 |
Ora ti piaccia farmi
sapere chi fosti, e le tue parole mi rivelino perché hai
dovuto giacere tanti secoli in questo girone». |
82 |
«Nel tempo
che 'l buon Tito, con l'aiuto
del sommo rege, vendicò le fóra
ond' uscì 'l sangue per Giuda venduto, |
|
82 |
«Nel tempo in cui il
valoroso Tito, con l'aiuto di Dio, vendicò le piaghe di
Cristo dalle quali usci il sangue venduto da Giuda, |
|
Tito, figlio dell'imperatore Vespasiano e in seguito suo
successore (79 d. C.), condusse una spedizione punitiva
contro gli Ebrei ribelli, che si concluse nel 70 d. C.
con la distruzione di Gerusalemme, distruzione che,
secondo Dante, avvenne per volontà divina, affinché
fosse vendicata la morte di Cristo. |
85 |
col nome che
più dura e più onora
era io di là», rispuose quello spirto,
«famoso assai, ma non con fede ancora. |
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85 |
io ero di là sulla terra col nome di
poeta, il più duraturo e onorifico di tutti i nomi»
rispose quello spirito «assai famoso, ma non ancora con
la fede cristiana. |
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Lo spirito, dopo aver a lungo parlato; finalmente rivela
la propria identità: si tratta di Publio Papinio Stazio,
poeta latino, nato intorno al 50 d. C. a Napoli, dove
morì verso la fine del secolo. Dante lo dice tolosano
confondendolo, come tutti i dotti del Medioevo, con
Lucio Stazio Ursulo, un noto retore vissuto ai tempi di
Nerone e nativo di Tolosa, nella Gallia Narbonese:
confusione che risale già a scrittori latini cristiani,
San Gerolamo e Fulgenzio. Stazio, considerato nel
Medioevo come uno dei maggiori poeti epici dopo
Virgilio, è autore di due poemi: la Tebaide, in dodici
libri come l'Eneide, che tratta le vicende della guerra
dei Sette contro Tebe (cfr. verso 92) , e l'Achilleide,
rimasto interrotto al secondo libro (cfr. versi 92-93),
che canta le gesta di Achille. Una terza opera di Stazio,
le Silvae, era ignota a Dante perché fu scoperta solo
nel secolo XV dall'umanista Poggio Bracciolini. Nel De
Vulgari Eloquentia (II, VI, 7) Dante colloca Stazio
accanto a Virgilio, Ovidio e Lucano tra i poeti ai quali
ispirarsi come a maestri. Dalla sua morte fino al 1300
Stazio ha passato nel purgatorio 12 secoli, di cui più
di cinque nel girone degli avari e dei prodighi, dopo
essere stato più di quattro secoli in quello degli
accidiosi (cfr. Purgatorio XXII, 92-93) e il resto del
tempo o nell'antipurgatorio o nelle prime cornici. |
88 |
Tanto fu
dolce mio vocale spirto,
che, tolosano, a sé mi trasse Roma,
dove mertai le tempie ornar di mirto. |
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88 |
Il mio canto fu così dolce
che, sebbene fossi di Tolosa, Roma mi chiamò a sé, e lì
meritai di cingere la fronte con la corona di mirto (con
il mirto, infatti, oltre che con l'alloro, si coronavano
i poeti). |
91 |
Stazio la
gente ancor di là mi noma:
cantai di Tebe, e poi del grande Achille;
ma caddi in via con la seconda soma. |
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91 |
La gente nel mondo dei
mortali mi chiama ancora Stazio: prima cantai le vicende
della guerra tebana, poi quelle del grande Achille: ma
morii in piena attività quando la fatica del secondo
poema non era ancora compiuta. |
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Nelle parole di Stazio, altrimenti improntate a lieto,
incontenibile entusiasmo, riaffiora qui grave - nel
caddi, nel concretissimo soma del verso 93, esprimente
tutta la fatica del poetare,. da Dante concepito come un
compito severo, una missione profetica da portare a
compimento a prezzo della vita - il tema del nostro
destino di esseri destinati a morire, cui il mesto e più
consapevole eloquio di Virgilio ha dato vita
nell'immagine della Parca insonne (versi 25-27). Il tema
della morte incrina per un attimo il lieto ascendere del
gaudio di Stazio verso espressioni di sempre più accesa
gratitudine per la sorte di poeta famoso arrisagli in
terra e per l'avventura che ebbe di imbattersi
nell'opera di Virgilio (cfr. versi 94-96 e 97-99), ne
rende più sommessa la voce, vela la stessa baldanza con
la quale è stato da lui affermato il primato della
poesia nel mondo (col nome che più dura e più onora) e
la sopravvivenza della fama, che si consegue poetando,
alla fragilità del nostro destino personale. Stazio la
gente ancor di là mi noma: quale orgoglio contenuto, ma
non per ciò meno esplicito, nelle due determinazioni
avverbiali, rispettivamente di tempo e di luogo (ancor e
di là) poste alla fine del primo emistichio ed al
principio del secondo! Ma il tempo è espresso attraverso
una modalità la quale non consente aperture al futuro:
quello di Stazio, nonostante tutto, è soltanto un mesto
sguardo retrospettivo, che misura il passato, si esalta
e si spegne in un nostalgico ancor; lo spazio d'altra
parte, evocato con non minore accoramento nel di là, non
localizza e non precisa, additando nel suo complesso la
vita. Anche nelle anime promesse alla beatitudine
riaffiora il rimpianto - che tanto frequentemente
riecheggiò nell'inferno (ricordiamo il dolce mondo di
Ciacco, il dolce lume di Cavalcante, il trepido riandare
col pensiero alla terra nativa di Francesca da Rimini o
di Pier da Medicina) - per la vita rischiarata dai raggi
di un sole non simbolico, non sottratto al nostro
concreto sentire. |
94 |
Al mio ardor
fuor seme le faville,
che mi scaldar, de la divina fiamma
onde sono allumati più di mille; |
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94 |
Il fuoco della mia poesia
prese alimento dalle scintille, che sempre mi
scaldarono, di quella fiamma divina, al cui calore
moltissimi altri poeti si sono accesi; |
97 |
de l'Eneïda
dico, la qual mamma
fummi, e fummi nutrice, poetando:
sanz' essa non fermai peso di dramma. |
|
97 |
intendo dire
la fiamma dell'Eneide, che mentre poetavo mi fu madre
(generando in me l'amore alla poesia) e mi fu nutrice
(educando quell'amore) : senza tenerla a modello non
creai nei miei versi nulla che avesse un valore anche
minimo (peso di dramma: l'ottava parte di un'oncia). |
|
L'immagine della divina fiamma verrà ripresa, al verso
68 del canto XXII - in un'accezione più cauta ed intima,
assai più ricca tuttavia di risonanza spirituale - in
quella, pacata e tersa, non più dell'incendio divoratore
che semina faville negli animi, ma del lume, il quale,
privo di bagliori improvvisi o esorbitanti, ma saldo,
punto di riferimento indefettibile, fa luce nelle
tenebre ed indica la strada. La diversa ampiezza di
risonanze delle due immagini va messa in rapporto con il
diverso angolo visuale da cui Stazio considera nei due
canti l'influsso su di lui esercitato dal vate
mantovano. Qui Stazio menziona, quale promotrice del suo
destarsi alla vita dello spirito, l'Eneide, da lui
considerata esclusivamente sotto il profilo poetico, in
quanto modello insuperato di bello stile (il tributo di
riconoscenza di Stazio verso Virgilio ha un evidente
sottofondo autobiografico nella vicenda di Dante, trova
le sue radici in uno dei momenti cruciali
dell'esperienza spirituale del Poeta e quest'ultima
esprime, coronando così il panegirico di Virgilio dei
versi 79-87 del primo canto dell'Inferno). Invece, nel
canto XXII, l'influsso del mantovano appare aver operato
su di lui attraverso un testo diverso, la IV Egloga, e
in una direzione divergente da quella che lo spinse,
acceso di sacro amore per l'Eneide a cercare la gloria
poetica. La IV Egloga determina, infatti, in Stazio, una
«conversione» di tutt'altro genere rispetto a quella,
meramente letteraria, evocata entusiasticamente da
quest'anima nei versi 94-99 del canto presente: la
conversione di tutto il suo essere, non del suo solo
intelletto poetante, alla vera fede, quella che conforta
anzitutto non i favoriti dalle Muse, ma i cuori sempiici,
i poveri di spirito. Nell'espressione mamma fummi e
fummi nutrice poetando culmina l'entusiastico tributo di
gratitudine da Stazio rivolto al "suo" autore. Notiamo
in essa la pregnanza del gerundio poetando, usato in
funzione di participio presente. Poetando sta qui a
significare «nell'atto in cui poetavo», ma dalla
definizione di questo atto l'elemento soggettivo è
sparito: l'atto poetico - della poesia nel suo farsi - è
concepito come per sé stante, acquistando in tal modo
una densità di implicazioni e rimandi che un più disteso
discorrere avrebbe precluso. |
100 |
E per esser
vivuto di là quando
visse Virgilio, assentirei un sole
più che non deggio al mio uscir di bando». |
|
100 |
E se fosse
stato possibile esser vissuto sulla terra al tempo di
Virgilio, accetterei di ritardare di un anno solare
oltre il tempo dovuto la mia liberazione da questo
esilio (uscir di bando) del purgatorio.» |
103 |
Volser
Virgilio a me queste parole
con viso che, tacendo, disse 'Taci';
ma non può tutto la virtù che vuole; |
|
103 |
Queste parole fecero
voltare Virgilio verso di me con un volto che, pur senza
parole, diceva: "Taci"; ma la volontà non può tutto, |
106 |
ché riso e
pianto son tanto seguaci
a la passion di che ciascun si spicca,
che men seguon voler ne' più veraci. |
|
106 |
perché il riso e il pianto
seguono con tanta prontezza i sentimenti della gioia e
del dolore, da cui ciascuno dei due deriva, che
obbediscono ancor meno al freno della volontà nei
caratteri più schietti. |
109 |
Io pur
sorrisi come l'uom ch'ammicca;
per che l'ombra si tacque, e riguardommi
ne li occhi ove 'l sembiante più si ficca; |
|
109 |
Io sorrisi soltanto come
chi accenna solo con l'occhio; per questo Stazio tacque,
e mi fissò negli occhi, dove la espressione dell'animo
traspare più che in ogni altra parte; |
112 |
e «Se tanto
labore in bene assommi»,
disse, «perché la tua faccia testeso
un lampeggiar di riso dimostrommi?». |
|
112 |
e: «Possa tu condurre a
buon termine la cosi ardua fatica del viaggio» disse, «
ama perché or ora il tuo volto mi ha lasciato vedere un
lampo di sorriso?» |
115 |
Or son io
d'una parte e d'altra preso:
l'una mi fa tacer, l'altra scongiura
ch'io dica; ond' io sospiro, e sono inteso |
|
115 |
A questo punto io sono
prigioniero fra due volontà contrarie: una (quella di
Virgilio) mi fa tacere, l'altra (quella di Stazio) mi
scongiura di parlare; per questo io sospiro, e vengo
compreso |
118 |
dal mio
maestro, e «Non aver paura»,
mi dice, «di parlar; ma parla e digli
quel ch'e' dimanda con cotanta cura». |
|
118 |
dal mio maestro, che mi
dice: «Non aver paura a parlare; ma parla e digli quello
che chiede con tanto interesse». |
121 |
Ond' io:
«Forse che tu ti maravigli,
antico spirto, del rider ch'io fei;
ma più d'ammirazion vo' che ti pigli. |
|
121 |
Per ciò io dissi: «Forse,
o antico spìrito, ti meravigli del mio sorridere; ma
voglio che tu sia preso da una meraviglia anche
maggiore. |
124 |
Questi che
guida in alto li occhi miei,
è quel Virgilio dal qual tu togliesti
forte a cantar de li uomini e d'i dèi. |
|
124 |
Questi che mi guida a
vedere l'alta cima del monte, è proprio quel Virgilio
dal quale attingesti la virtù di cantare nei tuoi poemi
gli uomini e gli dei. |
127 |
Se cagion
altra al mio rider credesti,
lasciala per non vera, ed esser credi
quelle parole che di lui dicesti». |
|
127 |
Se hai creduto che fosse
un'altra la causa del mio sorriso, lasciala da parte
come falsa, e credi che a farmi sorridere furono proprio
quelle parole che dicesti di lui». |
130 |
Già
s'inchinava ad abbracciar li piedi
al mio dottor, ma el li disse: «Frate,
non far, ché tu se' ombra e ombra vedi». |
|
130 |
Stazio già stava
chinandosi per abbracciare i piedi al mio maestro, ma
questi gli disse: «Fratello, non fare questo, perché tu
sei un'ombra e in me non vedi che un'ombra». |
133 |
Ed ei
surgendo: «Or puoi la quantitate
comprender de l'amor ch'a te mi scalda,
quand' io dismento nostra vanitate, |
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133 |
E Stazio rialzandosi: «Ora
puoi comprendere quanto sia grande l'amore che mi
infiamma per te, dal momento che dimentico la nostra
inconsistenza corporea, |
136 |
trattando
l'ombre come cosa salda». |
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136 |
e tratto le ombre come
fossero corpi solidi». |
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