1 |
Già era l'angel
dietro a noi rimaso,
l'angel che n'avea vòlti al sesto giro,
avendomi dal viso un colpo raso; |
|
1 |
Già era rimasto dietro alle nostre spalle l'angelo, che
ci aveva avviati (alla scala che porta) al sesto girone;
dopo avermi cancellato dalla fronte la ferita di un
altro P; |
4 |
e quei
c'hanno a giustizia lor disiro
detto n'avea beati, e le sue voci
con 'sitiunt', sanz' altro, ciò forniro. |
|
4 |
e per noi aveva proclamati
beati quelli che rivolgono il loro desiderio alla
giustizia, e la sua voce concluse la recitazione della
beatitudine con "hanno sete", senza aggiungere altro. |
|
Dante si riferisce al testo della beatitudine evangelica
(Matteo V, 6) "Beati qui esuriunt et sitiunt iustitiam,
quoniam ipsi saturabuntur" ("Beati quelli che hanno fame
e sete di giustizia, perché essi saranno saziati"); ma
sembra che l'angelo si limiti a recitare solo una parte
della beatitudine, finendo con la parola sitiunt ed
omettendo l'esuriunt - che sarà cantato dall'angelo
della sesta cornice e riferito ai golosi (canto XXIV,
151-154) - e l'ultima frase. |
7 |
E io più
lieve che per l'altre foci
m'andava, sì che sanz' alcun labore
seguiva in sù li spiriti veloci; |
|
7 |
E io nel salire mi sentivo
più leggiero che nei passaggi precedenti (tra una
cornice e l'altra), tanto che senza alcuna fatica
riuscivo a seguire i due spiriti che salivano rapidi la
scala, |
10 |
quando
Virgilio incominciò: «Amore,
acceso di virtù, sempre altro accese,
pur che la fiamma sua paresse fore; |
|
10 |
quando Virgilio cominciò a
dire: «L'amore, che nasce dalla virtù, purché la sua
fiamma appaia all'esterno, accende sempre un altro
amore: |
13 |
onde da
l'ora che tra noi discese
nel limbo de lo 'nferno Giovenale,
che la tua affezion mi fé palese, |
|
13 |
perciò dal momento in cui nel limbo dell'inferno scese
fra noi Giovenale, che mi rivelò il tuo affetto per me, |
|
Decimo Giunio Giovenale, poeta satirico latino, nato ad
Aquino intorno al 47 d. C. e morto verso il 130, fu
contemporaneo di Stazio e grande ammiratore della
Tebaíde, come si rileva da una delle sue satire (VII,
82-88). |
16 |
mia
benvoglienza inverso te fu quale
più strinse mai di non vista persona,
sì ch'or mi parran corte queste scale. |
|
16 |
la mia benevolenza verso
di te fu tale che mai una più grande strinse una persona
ad un'altra non vista, sicché ora (per il desiderio di
stare con te) mi sembreranno troppo brevi queste salite
ai gironi superiori. |
19 |
Ma dimmi, e
come amico mi perdona
se troppa sicurtà m'allarga il freno,
e come amico omai meco ragiona: |
|
19 |
Ma dimmi, e
da amico perdonami se la troppa franchezza allenta il
freno del riserbo (nel chiedere), e come amico ormai
parlami: |
22 |
come poté
trovar dentro al tuo seno
loco avarizia, tra cotanto senno
di quanto per tua cura fosti pieno?». |
|
22 |
come poté albergare nel tuo animo l'avarizia, con tutta
la sapienza di cui, per il tuo assiduo sforzo, fosti
ripieno?». |
25 |
Queste
parole Stazio mover fenno
un poco a riso pria; poscia rispuose:
«Ogne tuo dir d'amor m'è caro cenno. |
|
25 |
Queste parole dapprima fecero sorridere Stazio; poi
rispose: «Ogni tua parola per me è un caro segno
d'amore. |
28 |
Veramente
più volte appaion cose
che danno a dubitar falsa matera
per le vere ragion che son nascose. |
|
28 |
Veramente si vedono spesso
cose le quali, per il fatto che restano nascoste le loro
vere cause, offrono falso argomento di dubbio. |
31 |
La tua
dimanda tuo creder m'avvera
esser ch'i' fossi avaro in l'altra vita,
forse per quella cerchia dov' io era. |
|
31 |
La tua domanda mi fa certo
che è tua opinione che io nell'altra vita sia stato
avaro, forse perché mi trovavo nel girone degli avari. |
34 |
Or sappi
ch'avarizia fu partita
troppo da me, e questa dismisura
migliaia di lunari hanno punita. |
|
34 |
Invece sappi che
l'avarizia fu molto lontana da me (che caddi nel peccato
opposto), e migliaia di mesi (lunari: lunazioni; infatti
Stazio ha trascorso nel quinto girone più di cinquecento
anni. Cfr. canto XXI, verso 68) hanno punito questa
prodigalità. |
|
Poiché nelle biografie di Stazio non vi è alcun cenno
alla sua prodigalità, non si sa a quale fonte Dante
abbia attinto per fare di lui un prodigo: forse ha
interpretato nella forma più onorevole l'accenno di
Giovenale (Satira VII, 86-87) alla grande povertà di
Stazio, il quale era costretto a cercare nella poesia i
mezzi per vivere: la povertà sarebbe stata il risultato
di una precedente prodigalità. |
37 |
E se non
fosse ch'io drizzai mia cura,
quand' io intesi là dove tu chiame,
crucciato quasi a l'umana natura: |
|
37 |
E se non fosse che
corressi la mia tendenza, quando compresi appieno quel
passo dell'Eneide dove tu gridi, quasi crucciato contro
la natura umana: |
40 |
'Per che non
reggi tu, o sacra fame
de l'oro, l'appetito de' mortali?',
voltando sentirei le giostre grame. |
|
40 |
«O sacra fame dell'oro,
perché non regoli tu nella giusta misura la brama dei
mortali?", ora volterei i pesi e starei a sentire i
miserabili scontri di ingiurie (tra gli avari e i
prodighi nel quarto cerchio dell'inferno). |
|
Stazio fa una libera parafrasi delle parole di Virgilio
a proposito dell'assassinio di Polidoro ad opera di
Polinestore (Eneide III, 56-57; cfr. anche Purgatorio XX,
114-115) : "Quid non mortalia pectora cogis auri sacra
tames?" ("A quali delitti non spingi tu gli animi umani
o maledetta fame dell'oro?"). Nel passo virgiliano sacra
significa « esecranda » , « maledetta », senso che Dante
non poteva ignorare, ma che sostituisce con quello
odierno, perché il desiderio della ricchezza, quando
osserva la misura, è buono ed è ugualmente lontano tanto
dall'avarizia quanto dalla prodigalità. Quindi possiamo
ritenere che Dante non abbia frainteso il testo
virgiliano, come fraintese un altro passo dell'Eneide
(1, 664-665) nel Convivio (II, V, 14), ma che piuttosto
si sia preso la licenza di adattare liberamente le
parole di Virgilio ai fini del suo episodio.
Una spiegazione quanto mai plausibile e stimolante del
travisamento da parte del Poeta della lettera (e dello
spirito) del testo virgiliano ci è fornita dal
Montanari: "Dante credeva anche che ogni frase di un
grande poeta (e tanto più di Virgilio, così
paradossalmente divinizzato proprio nella figura del
profeta sacrificato alla civiltà puramente naturale),
fosse ricca di significati molteplici, come ricca di
molteplici significati credeva ogni parola della Sacra
Scrittura. È vero che qui non si tratterebbe di
significati molteplici, ma addirittura opposti; non
tuttavia contraddittori. Opposti sì, ma riferiti ad
un'unica verità: che avarizia e prodigalità sono i due
vizi ugualmente contrari (secondo la dottrina
aristotelica del giusto mezzo) alla virtù del retto uso
della ricchezza. La stessa frase che Dante sapeva
significare detestazione dell'avarizia, poté essere da
lui tradotta in detestazione della prodigalità,
utilizzando l'ancipite significato di quid, di cogis e
di sacra, e scoprendo proprio in tale possibilità di
opposta traduzione una particolare ricchezza della
sapienza poetica virgiliana". |
43 |
Allor
m'accorsi che troppo aprir l'ali
potean le mani a spendere, e pente'mi
così di quel come de li altri mali. |
|
43 |
Allora m'accorsi che le
mani potevano allargarsi troppo nello spendere, e mi
pentii tanto della prodigalità quanto degli altri
peccati. |
46 |
Quanti
risurgeran coi crini scemi
per ignoranza, che di questa pecca
toglie 'l penter vivendo e ne li stremi! |
|
46 |
Quanti prodighi
risorgeranno con i capelli tagliati (coi crini scemi)
perché ignorano che questo è un peccato (per ignoranza),
ignoranza la quale toglie loro la possibilità di
pentirsi di questo peccato sia durante la vita che in
morte! |
|
I prodighi risorgeranno dal sepolcro, il giorno del
Giudizio Universale, senza capelli (cfr. Inferno VII,
56-57). |
49 |
E sappie che
la colpa che rimbecca
per dritta opposizione alcun peccato,
con esso insieme qui suo verde secca; |
|
49 |
E sappi che la colpa la
quale si contrappone (rimbecca) in senso diametralmente
opposto ad un peccato, qui in purgatorio viene espiata
(suo verde secca) insieme ad esso: |
52 |
però, s'io
son tra quella gente stato
che piange l'avarizia, per purgarmi,
per lo contrario suo m'è incontrato». |
|
52 |
perciò, se io, per
purificarmi, sono rimasto tra quella gente che piangendo
espia l'avarizía, questo m'è toccato per il peccato ad
essa contraria». |
55 |
«Or quando
tu cantasti le crude armi
de la doppia trestizia di Giocasta»,
disse 'l cantor de' buccolici carmi, |
|
55 |
E Virgilio, l'autore dei
carmi pastorali (bucolici carmi: le Bucoliche), disse:
«Quando tu cantasti la crudele guerra di Eteocle e
Polinice, duplice causa di amarezza per la madre
Giocasta», |
|
Dante accenna all'argomento della Tebaide. I due
fratelli in lotta per la signoria di Tebe sono Eteocle e
Polinice (cfr. Inferno XXVI, 53-54), nati, come Antigone
e Ismene (canto XXII, 110-111), secondo il noto mito,
dall'incestuosa unione di Giocasta col figlio Edipo.
Eteocle e Polinice, che finirono con l'uccidersi a
vicenda, furono per la madre duplice causa di dolore per
la loro nascita e la loro morte. |
58 |
«per quello
che Clïò teco lì tasta,
non par che ti facesse ancor fedele
la fede, sanza qual ben far non basta. |
|
58 |
«da quello che tu vi narri con
l'assistenza della musa Clio, non appare che ti facesse
ancora cristiano la fede, senza la quale non bastano le
opere buone. |
|
Clio era la musa della storia, invocata da: Stazio nella
Tebaide (1, 41 e X, 630) come ispiratrice del suo poema. |
61 |
Se così è,
qual sole o quai candele
ti stenebraron sì, che tu drizzasti
poscia di retro al pescator le vele?». |
|
61 |
Se le cose stanno così, quale divina
illuminazione o quali ìnsegnamenti umani ti liberarono
dalle tenebre del paganesimo, in modo da farti poi
drizzare le vele per seguire (facendoti cristiano) San
Pietro (pescator)?» |
|
Virgilio si rivolge in tono particolarmente solenne
(sottolineato dall'or iniziale e dalla compatta
perifrasi dei versi 55-56, aulicamente nobilitante le
fosche vicende che insanguinarono la stirpe di Edipo) a
Stazio, premettendo alla sua domanda i titoli di gloria
che l'autore della Tebaide si conquistò in terra col
favore delle Muse (anche il richiamo all'attiva,
creatrice presenza nell'animo di Stazio di
un'ispirazione di origine sovrumana - Cliò -
contribuisce alla nobiltà di questo eloquio). La terzina
61 traduce in termini di ardue metafore il senso della
domanda rivolta dall'esiliato nel limbo all'anima ormai
disposta a raggiungere la sua sede celeste. La luce
indefettibile e sovrannaturale del sole è contrapposta
ai bagliori che l'ingegno umano riesce, affidandosi alle
sue sole forze, a far risplendere in terra (le candele),
la conversione appare nella figura di un viaggio (il
tema che si pone alla base dell'intero poema), di una
navigazione (drizzasti... le vele) non esente da rischi
(anche Ulisse drizzò le vele verso occidente, in una
corsa disperata di retro al sol, ma, per non essersi
saputo assegnare dei limiti, la sua navigazione si
convertì in accelerazione vertiginosa - dei remi tacemmo
ali - verso la catastrofe, in folle volo). L'immagine
delle vele suggerisce un procedere impetuoso, cui ogni
vento sembra arridere, quasi una sfida allo strapotere
minaccioso di forze avverse; la medesima immagine
suggellava il compiersi delle malefatte dei Capetingi,
attraverso l'offesa arrecata da Filippo il Bello
all'ordine dei Templari (porta nel Tempio le cupide
vele; canto XX, verso 93). In tal modo l'evento intimo,
costituito dal volgersi di una coscienza al vero,
acquista proporzioni drammatiche e grandiose, si
inserisce nello splendore e quasi nella ineluttabilità
di uno spettacolo naturale: quello di una nave che
isolata solca i deserti d'acqua, incurante delle
tempeste, fedele al segno che ne illumina il cammino. |
64 |
Ed elli a
lui: «Tu prima m'invïasti
verso Parnaso a ber ne le sue grotte,
e prima appresso Dio m'alluminasti. |
|
64 |
E Stazio rispose a Virgilio: «Tu per
primo mi indirizzasti alla poesia avviandomi al monte
Parnaso per bere alla fonte che sgorga dalle sue rocce,
e tu per primo mi desti luce per trovar la strada che
conduce a Dio. |
|
Il Parnaso era un monte della Pocide, famoso come dimora
di Apollo e delle Muse: dalle sue rocce zampillava la
sorgente Castalia e bere alle sue fonti significava
essere ispirati. |
67 |
Facesti come
quei che va di notte,
che porta il lume dietro e sé non giova,
ma dopo sé fa le persone dotte, |
|
67 |
Hai fatto come chi cammina
di notte, il quale porta il lume dietro e non giova a se
stesso, ma rende, esperte del cammino le persone che
vengono dietro a lui, |
70 |
quando
dicesti: 'Secol si rinova;
torna giustizia e primo tempo umano,
e progenïe scende da ciel nova'. |
|
70 |
quando dicesti: "Il mondo
si rinnova; torna la giustizia e torna la prima età
dell'oro e dell'umanità innocente, e dal cielo scende
una nuova progenie". |
|
Il passo che ha illuminato Stazio e che Dante riassume e
traduce è quello famoso della quarta Egloga virgiliana
(versi 5-7) : "magnus ab integro saeclorum nascitur ordo.
Iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna; iam nova
progenies caelo demittitur alto ("una grande serie di
secoli ricomincia da capo. Ritorna ormai anche la
Vergine, ritorna il regno di Saturno; e dall'alto dei
cieli è inviata ormai una nuova progenie"). I versi di
Virgilio presagiscono e celebrano il ritorno all'età
dell'oro sotto il regime di Augusto e alludono
probabilmente alla nascita di Solonino, il figlio di
Asinio Pollione, console nel 40 a. C.; ma fin dal IV
secolo furono interpretati come una profezia più o meno
consapevole della nascita del Redentore dalla Vergine
Madre (la "Virgo" del testo virgiliano è Astrea, dea
della giustizia) e della nuova era da Lui iniziata.
Inoltre il mito classico di un'età felice e semplice
(primo tempo umano) corrisponde alla narrazione biblica
della felice e innocente vita di Adamo ed Eva prima del
peccato originale. Queste interpretazioni fornirono il
fondamento alla leggenda medievale di un Virgilio
precristiano, accettata da Dante (Monarchia I, 11, 1-2;
Epistola VII, 6) e qui portata alla massima
significazione poetica e morale.
Il paragone contenuto nella terzina 67 aveva, ai tempi
del Poeta, una lunga, solenne tradizione di allusioni
simboliche, tutte derivanti dall'immagine biblica del
"camminare nelle tenebre" che vengono rischiarate dalla
luce di Dio. In esso culmina - e compiutamente si
esprime - il senso del travolgente progredire per
metafore, che, a partire dal verso 130 del canto XX, ha
dapprima anticipato, poi via via commentato e
interpretato il drammatico volgersi di Stazio ai valori
supremi dello spirito: culturali in un primo tempo,
quindi morali (l'insegnamento da lui ricavato dalla
lettura dell'episodio di Polidoro), infine religiosi.
Questa immagine si riallaccia tra l'altro intimamente -
per ampiezza di risonanze che si rendono interpreti di
un divenire storico (il senso dell'avvento del
Cristianesimo nel mondo antico) - a quella del Cristo
risorto (canto XXI, versi 7-9). Il Porena è del parere
che la metafora del lume svolta nei versi 67-69 "è
certamente la più alta e la più precisa per esprimere il
misterioso, profondo legame che passa tra il mondo
classico e il mondo cristiano... In verità l'avvento
cristiano è un fatto nuovo e miracoloso; ma è anche una
continuazione. C'è da una parte lo svolgersi naturale
dell'una storia nell'altra e c'è dall'altra il fatto
nuovo, la pura negazione del passato. Dante ha segnato
forse con più profondità di ogni altro i punti del
distacco, i limiti dell'antica sapienza, ma anche la
confluenza e le necessarie integrazioni". |
73 |
Per te poeta
fui, per te cristiano:
ma perché veggi mei ciò ch'io disegno,
a colorare stenderò la mano. |
|
73 |
Per mezzo tuo diventai
poeta, per mezzo tuo diventai cristiano: ma affinché tu
veda meglio il disegno che ho abbozzato, cercherò di
colorirlo (completando il discorso). |
76 |
Già era 'l
mondo tutto quanto pregno
de la vera credenza, seminata
per li messaggi de l'etterno regno; |
|
76 |
Il mondo era già tutto
impregnato della vera fede, seminata dagli Apostoli,
messaggeri dell'eterno regno di Dio; |
79 |
e la parola
tua sopra toccata
si consonava a' nuovi predicanti;
ond' io a visitarli presi usata. |
|
79 |
e le tue parole che ho
sopra citato s'accordavano con quelle dei predicatori
della nuova fede; perciò io presi l'abitudine di
frequentarli. |
82 |
Vennermi poi
parendo tanto santi,
che, quando Domizian li perseguette,
sanza mio lagrimar non fur lor pianti; |
|
82 |
Essi poi mi si vennero
rivelando tanto santi, che quando l'imperatore Domiziano
li perseguitò, al loro pianto si unirono le lagrime
della mia compassione; |
|
Domiziano fu imperatore dall'81 al 96 d. C. Gli antichi
scrittori cristiani gli attribuiscono una feroce
persecuzione (la seconda dopo quella di Nerone), della
quale però le fonti storiche pagane non fanno alcun
cenno. |
85 |
e mentre che
di là per me si stette,
io li sovvenni, e i lor dritti costumi
fer dispregiare a me tutte altre sette. |
|
85 |
e finché rimasi di là
sulla terra, io li aiutai, e i loro onesti costumi mi
indussero a disprezzare ogni altra scuola (religiosa e
filosofica). |
88 |
E pria ch'io
conducessi i Greci a' fiumi
di Tebe poetando, ebb' io battesmo;
ma per paura chiuso cristian fu'mi, |
|
88 |
E prima che scrivessi i
versi nei quali conduco i Greci ai fiumi di Tebe (in
aiuto di Polinice contro Eteocle), ricevetti il
battesimo: ma per paura (della persecuzione) fui
cristiano di nascosto, |
|
Stazio accenna al libro IX della Tebaide, dove descrive
l'arrivo dell'esercito greco, comandato da Adrasto,
sulle rive dei fiumi Ismeno e Asopo, che scorrono vicino
a Tebe. |
91 |
lungamente
mostrando paganesmo;
e questa tepidezza il quarto cerchio
cerchiar mi fé più che 'l quarto centesmo. |
|
91 |
continuando a lungo a
mostrarmi pagano; e questa accidia mi costrinse a
percorrere il quarto girone per più di quattrocento
anni. |
94 |
Tu dunque,
che levato hai il coperchio
che m'ascondeva quanto bene io dico,
mentre che del salire avem soverchio, |
|
94 |
Tu dunque che mi hai tolto
il velo che prima mi nascondeva il grande bene (della
verità cristiana), di cui parlo, finché ci avanza ancora
del tempo durante la salita, |
97 |
dimmi dov' è
Terrenzio nostro antico,
Cecilio e Plauto e Varro, se lo sai:
dimmi se son dannati, e in qual vico». |
|
97 |
dimmi dov'è
Terenzio, nostra antica gloria, dimmi dove sono Cecilio
e Plauto e Vario, se lo sai: dimmi se sono dannati, e in
quale cerchio». |
|
Stazio chiede a Virgilio notizie di alcuni poeti latini:
Publio Terenzio Afro (195-159 a. C.), antico rispetto a
Stazio, è con Tito Maccio Plauto (254184 a. C.), autore
di venti commedie, uno dei maggiori poeti comici latini
del periodo arcaico: accanto a Terenzio e a Plauto
vengono nominati Cecilio Stazio, un altro poeta comico
latino, di cui non ci resta nulla, morto nel 168 a. C. e
un Vario, che è quasi certamente il poeta epico e
tragico Lucio Vario Rufo, contemporaneo e amico di
Orazio e Virgilio, del quale curò l'edizione postuma
dell'Eneide. Di lui parla Orazio nell'Ars poetica (versi
53-54), in un passo noto a Dante, dove a Cecilio e a
Plauto vengono contrapposti i poeti contemporanei
Virgilio e Vario.
Circa le motivazioni psicologiche di questa domanda
rivolta da Stazio al "suo autore" e autore della sua
conversione - domanda che smorza l'acme passionale in
cui, come in un grido, era culminato il racconto della
sua vita- osservazioni assai valide e penetranti sono
state fatte dal Porena: "Con la rivelazione di Stazio
circa la radice virgiliana del suo cristianesimo,
l'apoteosi di Virgilio è compiuta. Virgilio non è salvo,
ma è stato autore di salvazione, non è in paradiso, ma è
stato largitore di paradiso, non ha conosciuto il vero
Dio, ma l'ha fatto conoscere altrui. Ma via via che si
compie l'apoteosi, si compie anche la tragedia. È certo
un nobilissimo conforto aver portato nelle mani la
fiaccola che ha rischiarato ad altre anime la via della
Verità; ma in altro senso, è una terribile amarezza aver
impugnata quella fiaccola, e per una cecità strana come
il non veder se stesso, non averla veduta!... Sente
Dante tutta la profonda, e direi terribile poesia di
tale situazione?... tutto il Poeta fa sentire a Stazio:
il quale, terminato il racconto di sé, quasi a non dar
tempo a Virgilio di dolorose meditazioni, riconduce il
discorso dalla fede alla poesia, per ritornare in quel
regno dove Virgilio è sovrano: e, quasi come fosse lui
l'esule, che anela notizie di un mondo a lui chiuso,
domanda ove siano alcuni famosi poeti latini..." |
100 |
«Costoro e
Persio e io e altri assai»,
rispuose il duca mio, «siam con quel Greco
che le Muse lattar più ch'altri mai, |
|
100 |
La mia guida rispose: «Tutti costoro e
Persio e io e molti altri assieme ad Omero (quel greco),
che le Muse nutrirono più di qualsiasi altro poeta,
siamo |
|
Aulo Persio Flacco (34-62 d.C.), il noto poeta satirico,
fu molto apprezzato nel Medioevo e le sue satire erano
lette nelle scuole, ma Dante non lo cita mai altrove. |
103 |
nel primo
cinghio del carcere cieco;
spesse fïate ragioniam del monte
che sempre ha le nutrice nostre seco. |
|
103 |
nel limbo, il primo
cerchio dell'inferno (carcere cieco): spesso parliamo
del monte Parnaso, dimora abituale delle nutrici della
nostra arte (le Muse). |
106 |
Euripide v'è
nosco e Antifonte,
Simonide, Agatone e altri piùe
Greci che già di lauro ornar la fronte. |
|
106 |
Con noi sono anche
Euripide e Antifonte, Simonide, Agatone e molti altri
greci che un tempo meritarono di ornare la loro fronte
con l'alloro. |
|
Euripide (480-406 a. C.) , il terzo in ordine di tempo
dei grandi poeti tragici greci dopo Eschilo e Sofocle,
fu da Dante conosciuto soltanto attraverso gli scrittori
latini. Antifonte è un altro poeta tragico greco (sec.
IV a. C.), che forse Dante confonde con l'oratore
Antifonte Ramnusio. Simonide è il famoso poeta lirico di
Ceo (556-469 a. C.). cantore dei caduti alle Termopili e
a Maratona. Agatone è un poeta tragico ateniese (448-400
a. C.). |
109 |
Quivi si
veggion de le genti tue
Antigone, Deïfile e Argia,
e Ismene sì trista come fue. |
|
109 |
Nello stesso cerchio si vedono, dei
personaggi da te cantati, Antigone, Deifile e Argia, e
Ismene, la quale è ancora piena di tristezza come fu in
vita. |
|
Virgilio conferisce una vita reale ai personaggi mitici
della Tebaide e dell'Achilleide, ricambiando così le
lodi che Stazio aveva fatto di lui e dell'Eneide.
Antigone, figlia di Edipo, fu fatta morire dal tiranno
Creonte perché contro la volontà di quest'ultimo aveva
sepolto il cadavere del fratello Polinice, morto
combattendo contro Eteocle. Deifile, figlia di Adrasto
re di Argo, fu sposa di Tideo, uno dei sette re che
combatterono contro Tebe (cfr. Interno XXXII, 130-131),
e madre di Diomede. Argia fu sorella di Deifile e sposa
di Polinice. Ismene fu sorella di Antigone ed anch'ella
ebbe una vita infelice perché vide morire o mettere a
morte le persone più care: il padre. la madre. i
fratelli e il fidanzato Cirreo; fu condannata da Creonte
e morì con Antigone. |
112 |
Védeisi
quella che mostrò Langia;
èvvi la figlia di Tiresia, e Teti,
e con le suore sue Deïdamia». |
|
112 |
Vi si vede Isifile, colei che indicò la
fonte Langia: c'è pure la figlia di Tiresia e di Teti, e
c'è Deidamia con le sue sorelle». |
|
Virgilio accenna a Isifile, figlia di Toante. diventata
schiava di Licurgo, re di Nemea, la quale mostrò ai
guerrieri greci che assediavano Tebe, la fonte Langia.
La sola figlia di Tiresia di cui si parli nella Tebaide
è Manto, che Dante però ha posto nella bolgia degli
indovini nell'inferno (Inferno XX, 52-93), dove ne parla
troppo a lungo per supporre che qui la metta nel limbo
per una semplice dimenticanza. I commentatori cercano di
spiegare l'equivoco con varie ipotesi tutte probabili,
ma nessuna decisiva: alcuni pensano che il quivi del
verso 109 e l'evvi del 113 possano riferirsi non più al
primo cinghio, ma a carcere cieco (verso 103) ,
all'inferno nel suo insieme; altri ritengono che Dante
abbia aggiunto i versi su Manto, nel canto XX
dell'Inferno, mentre correggeva l'Inferno stesso dopo la
composizione del Purgatorio.
Deidamia, figlia di Licomede re di Sciro, fu amata da
Achille nel periodo in cui l'eroe viveva nascosto in
abiti femminili alla corte di Sciro per evitare di
andare alla guerra di Troia.
Nell'incalzare dei tre termini del verso 103,
dall'aspro, crudele, concretissimo cinghio, ai due
successivi, già maggiormente sciolti in una scansione
malinconica, carcere e cieco, Virgilio palesa per la
prima volta quella tristezza che abbiamo sentito, lungo
tutto l'arco del suo discorrere con Stazio, moderare il
suo eloquio, conferirgli un tono alto e distaccato nella
sua crepuscolare saggezza. L'enumerazione degli spiriti
magni che condividono nel limbo il destino del mantovano
è stata dal Momigliano giudicata una mera "appendice del
limbo... arida, più di quella della fine del IV
dell'Inferno, dove l'enumerazione è interrotta di quando
in quando da una designazione solenne" È sfuggito
evidentemente al critico che il culto dei beni eccelsi
dell'intelligenza, e dei valori dominanti della cultura
- assai più acuto in Dante che nelle generazioni di
umanisti che lo seguirono, pur essendo in lui
subordinato al culto dei valori della fede cristiana -
si traduce qui in poesia, una poesia che, se rimane
ardua da definire attraverso precisi riferimenti,
circola tuttavia come linfa segreta nel chiuso di queste
terzine, sottraendole all'aridità di un semplice
catalogo per trasferirle in un clima di mito sereno e
rapito.
Basti porre attenzione all'avvio di questa enumerazione
- al verso 100 cioè, dove l'indicazione generica e altri
assai, posta in chiusura di verso, alleggerisce il peso
di ogni troppo circoscritto riferimento, trasportando la
storia nel quadro aperto e aerato di una luminosa
leggenda - e rilevare la designazione perifrastica (il
che le Muse lattar più ch'altro mai ripropone il tema
della fertilità educatrice delle opere di poesia,
proclamata da Stazio nei riguardi dell'Eneide nel canto
XXI, versi 97-98) di Omero poeta sovrano (Inferno IV,
verso 88). Le considerazioni svolte dal Parodi su questo
inclinarsi verso una sua più serena risoluzione del
drammatico episodio della conversione di Stazio,
appaiono illuminanti in proposito: "Dante, non pago di
stare allato a Virgilio, in così familiare e tenera
unione, per tanta parte del suo fatale viaggio, né di
aver già veduto con lui, sulla soglia del nobile
castello e dentro le settemplici mura, i signori
dell'altissimo canto e gli spiriti magni, anelava ad una
più compiuta illusione di rivivere un'ora di quel mondo
meraviglioso e scomparso dei classici. Egli volle
assistere al colloquio di Virgilio con un'anima colla
quale potesse alfine liberamente espandersi, perché più
vicina alla sua; volle veder sorgere intorno a loro,
quasi corteggio adunato intorno ai due poeti maggiori,
le ombre minori di Giovenale, di Terenzio antico e degli
altri; volle, infine, rinnovare e compiere la già
lontana e, nell'insieme, un po' fredda rappresentazione
del nobile castello in una semplice e fresca intimità di
vita familiare e presente, della quale fosse partecipe.
È il più singolare e nuovo aspetto dell'« umanesimo»
dantesco questa sua trasformazione sentimentale, per la
quale l'ammirazione si fa desiderio ed amore, e
dileguano i confini tra il presente e il passato, tra
l'immaginazione e il ricordo, tra il vero e il sogno". |
115 |
Tacevansi
ambedue già li poeti,
di novo attenti a riguardar dintorno,
liberi da saliri e da pareti; |
|
115 |
Entrambi i poeti se ne
stavano ora in silenzio, di nuovo attenti a osservare
intorno, essendo ormai liberi dalla fatica della salita
e dell'ostacolo delle pareti (che prima impedivano la
vista); |
118 |
e già le
quattro ancelle eran del giorno
rimase a dietro, e la quinta era al temo,
drizzando pur in sù l'ardente corno, |
|
118 |
ed erano già passate
quattro ore (ancelle) del giorno, e la quinta (sono
trascorse le dieci del mattino) era al timone del carro
solare e ne drizzava sempre verso l'alto la punta
infuocata, |
121 |
quando il
mio duca: «Io credo ch'a lo stremo
le destre spalle volger ne convegna,
girando il monte come far solemo». |
|
121 |
quando la mia guida disse:
«Credo che dobbiamo volgere il nostro fianco destro
verso l'orlo di questa cornice, girando così intorno al
monte come siamo soliti fare». |
124 |
Così
l'usanza fu lì nostra insegna,
e prendemmo la via con men sospetto
per l'assentir di quell' anima degna. |
|
124 |
Così l'abitudine fu in
quel momento la nostra guida nello scegliere la
direzione, e prendemmo la via (del sesto girone) con
meno timore di sbagliare per il consenso che ci diede
l'anima eletta di Stazio. |
127 |
Elli givan
dinanzi, e io soletto
di retro, e ascoltava i lor sermoni,
ch'a poetar mi davano intelletto. |
|
127 |
Essi camminavano davanti,
ed io dietro tutto solo, e ascoltavo i loro discorsi,
che mi davano ammaestramenti nell'arte di poetare. |
130 |
Ma tosto
ruppe le dolci ragioni
un alber che trovammo in mezza strada,
con pomi a odorar soavi e buoni; |
|
130 |
Ma presto interruppe i
loro dolci ragionamenti la vista di un albero che
trovammo in mezzo alla via, carico di frutti dal profumo
buono e soave; |
|
Vicino all'uscita del girone Dante scorgerà poi un altro
albero (cfr. canto XXIV, 103-104; 116-117), germogliato
da quello della scienza del bene e del male, posto da
Dio nel paradiso terrestre (cfr. Genesi II, 9) . Si è
discusso sul significato allegorico dell'albero che qui
appare, ma sembra che tutti e due gli alberi posti da
Dante nella cornice dei golosi abbiano la semplice
funzione di suscitare fame e sete fisica nelle anime a
tormento ed ammaestramento (cfr. canto XXIII, versi
61-69). |
133 |
e come abete
in alto si digrada
di ramo in ramo, così quello in giuso,
cred' io, perché persona sù non vada. |
|
133 |
e come l'abete va
restringendo la sua chioma di ramo in ramo verso l'alto,
così quell'albero restringeva la chioma dall'alto in
basso, credo, perché nessuno possa salirvi a cogliere i
frutti. |
136 |
Dal lato
onde 'l cammin nostro era chiuso,
cadea de l'alta roccia un liquor chiaro
e si spandeva per le foglie suso. |
|
136 |
Alla nostra sinistra,
dalla parte in cui la parete rocciosa limitava il nostro
cammino verso il monte, cadeva dall'alto della roccia
un'acqua limpida e si spargeva sulla parte alta delle
foglie. |
139 |
Li due poeti
a l'alber s'appressaro;
e una voce per entro le fronde
gridò: «Di questo cibo avrete caro». |
|
139 |
I due poeti s'avvicinarono
all'albero; intanto una voce tra le fronde gridò: «Di
questo cibo avrete carestia». |
|
Una voce improvvisa e misteriosa grida esempi di
sobrietà nel bere e di temperanza nel mangiare. Il primo
esempio virtuoso è quello della Vergine Maria alle nozze
di Cana (cfr. Giovanni II, 1-11), episodio già proposto
per inculcare la carità (cfr. canto XIII, versi 28-29). |
142 |
Poi disse:
«Più pensava Maria onde
fosser le nozze orrevoli e intere,
ch'a la sua bocca, ch'or per voi risponde. |
|
142 |
Poi continuò: «Maria
pensava più a rendere decorose e complete le nozze, che
alla sua bocca, la quale ora prega intercedendo in
vostro favore. |
145 |
E le Romane
antiche, per lor bere,
contente furon d'acqua; e Danïello
dispregiò cibo e acquistò savere. |
|
145 |
E le antiche donne di
Roma, per bere, s'accontentavano di acqua; e il profeta
Daniele ricusò il cibo e acquistò la sapienza. |
|
Secondo Valerio Massimo (Facta et dicta memorabilia II,
I, 3) "l'uso del vino era ignoto anticamente alle donne
romane". Il profeta Daniele, dopo la conquista di
Gerusalemme, fu inviato alla corte di Nabucodonosor, ma
egli, per non contaminarsi, rifiutò di sedersi alla
mensa reale e si astenne da determinati cibi e dal vino,
accontentandosi di legumi ed acqua: in premio ebbe da
Dio la sapienza e la capacità di spiegare i sogni
(Daniele I, 3-20). |
148 |
Lo secol
primo, quant' oro fu bello,
fé savorose con fame le ghiande,
e nettare con sete ogne ruscello. |
|
148 |
La prima età degli uomini che fu bella
quanto l'oro, con la fame rese saporite le ghiande, e
con la sete trasformò ogni ruscello in nettare. |
|
Dante accenna all'età dell'oro dell'umanità primitiva (cfr.
Inferno XIV, 106; Purgatorio XXVIII, 140), cantata nelle
favole dei poeti (cfr. Ovidiò - Metamorfosi I, 89-112;
Virgilio - Eneide VIII, 324-325). Per Dante l'antica età
dell'oro non consisteva nell'abbondanza dei frutti e
nella soavità dei cibi e delle bevande, secondo il mito
dei fiumi che scorrevano latte e degli alberi stillanti
miele, ma nella sobrietà e temperanza: la fame e la sete
rendevano piacevoli i più semplici frutti della terra e
l'acqua schietta delle fonti. |
151 |
Mele e
locuste furon le vivande
che nodriro il Batista nel diserto;
per ch'elli è glorïoso e tanto grande |
|
151 |
Miele selvatico e locuste
furono il cibo che nutrì Giovanni Battista nel deserto;
e per questo egli è glorioso e tanto grande |
154 |
quanto per
lo Vangelio v'è aperto». |
|
154 |
quanto vi è rivelato dal
Vangelo». |
|
San Giovanni Battista nel deserto, secondo il racconto
evangelico, si cibava di cavallette e di miele selvatico
(Matteo III, 4; Marco I, 6). E il vangelo dice di lui:
"Fra i nati di donna, non vi è nessuno più grande di
Giovanni" (Luca VII, 28; cfr. Matteo XI, 11). |