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DIVINA
COMMEDIA: PARAFRASI
PURGATORIO
CANTO XXIII° |
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1 |
Mentre che
li occhi per la fronda verde
ficcava ïo sì come far suole
chi dietro a li uccellin sua vita perde, |
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1 |
Mentre io ficcavo gli occhi tra le fronde verdi
dell'albero (per scoprire donde provenisse la voce: cfr.
canto XXII. 140 sgg.), come suole fare il cacciatore che
perde tutto il suo tempo dietro gli uccelletti, |
4 |
lo più che
padre mi dicea: «Figliuole,
vienne oramai, ché 'l tempo che n'è imposto
più utilmente compartir si vuole». |
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4 |
Virgilio, premuroso più
che un padre, mi diceva: «Figliolo, ora vieni, perché
bisogna distribuire in modo più utile il tempo che ci è
assegnato (per visitare il monte)». |
7 |
Io volsi 'l
viso, e 'l passo non men tosto,
appresso i savi, che parlavan sìe,
che l'andar mi facean di nullo costo. |
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7 |
Io volsi gli occhi, e non
meno in fretta il passo, verso i due poeti, i quali
tenevano discorsi così interessanti, che camminare con
loro non mi costava alcuna fatica. |
10 |
Ed ecco
piangere e cantar s'udìe
'Labïa mëa, Domine' per modo
tal, che diletto e doglia parturìe. |
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10 |
Ed ecco si udì piangere e
cantare «Signore, (aprirai) le mie labbra» in modo tale,
che suscitò diletto per il canto e dolore per il pianto. |
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In merito al versetto sacro « Labia mea, Domina» (Salmo
L, 17) che Dante, con tecnica analoga a quella messa in
opera nella liturgia dei precedenti gironi, accenna
appena, Il "suggestivamente, come uno spunto di musica
che si continua nell'animo del lettore" (Momigliano), il
Gallardo acutamente osserva come in tutto il secondo
regno le sofferenze generino contemporaneamente dolore e
gaudio, ma come qui tale inscindibile complementarità di
sentimenti in apparenza l'uno all'altro irriducibili sia
"sentita più direttamente dal Poeta che ascolta e ne fa
uno stato d'animo e non soltanto una convinzione. Più
avanti il motivo torna spesso nel canto, costituendo al
tempo stesso la riaffermazione di un principio generale,
e non potrebbe non essere così, e lo sviluppo di un
motivo personale e particolare, proprio di questa
situazione e di questo canto e dei suoi protagonisti:
Dante stesso e Forese Donati". La risposta di Virgilio
al discepolo fornisce in apparenza solo i nudi,
essenziali elementi di una spiegazione vertente
sull'origine del canto sacro che si è levato improvviso
(verso 10: ed ecco... ), ma, come fa notare il
Momigliano, costituisce "già una pittura spettrale,
rapida e compunta, della schiera che si avvicina...
queste parole consuonano con le due terzine che seguono,
e particolarmente con le parole i peregrin pensosi e col
verso d'anime turba tacita e devota... La descrizione ha
già qui un passo rapido e senza peso... e le parole di
Virgilio... hanno già non soltanto il colore di quella
processione, ma anche il movimento". |
13 |
«O dolce
padre, che è quel ch'i' odo?»,
comincia' io; ed elli: «Ombre che vanno
forse di lor dover solvendo il nodo». |
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13 |
Io allora cominciai a dire: «Dolce padre, che significa
questo canto che io odo?» Ed egli mi rispose: «Forse
sono anime che vanno sciogliendo il vincolo del loro
debito con Dio». |
16 |
Sì come i
peregrin pensosi fanno,
giugnendo per cammin gente non nota,
che si volgono ad essa e non restanno, |
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16 |
Così come fanno i
pellegrini assorti nei loro pensieri, quando per via
raggiungono persone sconosciute, e le guardano senza
fermarsi, |
19 |
così di
retro a noi, più tosto mota,
venendo e trapassando ci ammirava
d'anime turba tacita e devota. |
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19 |
alla stessa
maniera ci osservava con stupore una turba silenziosa e
devota di anime che veniva dietro di noi, ma con passo
più spedito, e ci oltrepassava. |
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Il tema dei viandanti sperduti in contrade ignote,
lontani dalle sedi dei loro affetti più saldi, dal
calore di una famiglia, di una patria, spinti nel loro
andare da un alto senso di responsabilità è costante in
Dante fin dalla Vita Nova ("Deh peregrini che pensosi
andate"; XL, 9), ed è ripreso con insistenza particolare
nella seconda cantica (canto I, nell'allusione all'om
che torna alla perduta strada, che 'nfino ad essa li
pare ire invano, versi 119-120; canto II, in quella all'uom
che va, né sa dove riesca, verso 132, e in quella, posta
all'inizio del medesimo canto, alla gente che pensa a
suo cammino, che va col cuore e col corpo dimora, versi
11-12; nonché nella accorata, sinfonica apertura del
canto VIII, sullo sfondo di un tramonto che la squilla
di campanili remoti rende più pungente e greve di
memorie ed affanni). È lo stesso motivo in virtù del
quale nel Medioevo la vita era considerata un viaggio,
un progressivo distaccarsi dalle cose più care per
tendere ad una meta ardua che le inverasse
trascendendole, e in virtù del quale nella letteratura
dell'epoca gli uomini sono spesso indicati col termine
di "itinerantes", viaggiatori. Alla base di questa
poesia dello smarrimento dell'uomo entro orizzonti
sconosciuti e distanti - in spazi che lo sottraggono
all'intimità circoscritta dei suoi affetti più semplici
per restituirlo, attraverso il dolore, alle prospettive
universali che inquadrano il cosmo intero - va collegata
un'esperienza autobiografica, nella Vita Nova presagita
quasi per divinatore intuito, nella Commedia riflettente
invece una inesorabile, dura, sperimentata realtà:
quella dell'esilio. |
22 |
Ne li occhi
era ciascuna oscura e cava,
palida ne la faccia, e tanto scema
che da l'ossa la pelle s'informava. |
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22 |
Ogni anima aveva gli occhi spenti e incavati, la faccia
pallida, e la persona tanto magra, che la pelle prendeva
la forma delle ossa. |
25 |
Non credo
che così a buccia strema
Erisittone fosse fatto secco,
per digiunar, quando più n'ebbe tema. |
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25 |
Non ritengo che Eresitone per il digiuno fosse così
ridotto alla sola pelle, quando temette maggiormente di
dover restare digiuno (e giunse ad addentare le proprie
carni). |
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Eresitone, figlio di Triope re di Tessaglia, avendo
tagliato una quercia in un bosco sacro a Cerere, fu
punito dalla dea con una fame insaziabile, per
soddisfare la quale si ridusse a consumare tutte le sue
sostanze, a vendere la figlia in cambio di cibo e infine
a divorare le proprie membra (cfr. Ovidio . Metamorfosi
VIII, 726-881). |
28 |
Io dicea fra
me stesso pensando: 'Ecco
la gente che perdé Ierusalemme,
quando Maria nel figlio diè di becco!'. |
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28 |
Pensavo e dicevo tra me stesso: «Così
dovettero ridursi gli Ebrei (la gente) che perdettero
Gerusalemme, quando (durante l'assedio dell'imperatore
Tito) Maria di Eleazaro divorò (dié di becco) il proprio
figlioletto!». |
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Dante allude ad un episodio disumano avvenuto a
Gerusalemme nel 70 d. C., durante l'assedio posto da
Tito: Giuseppe Flavio (Bellum Judaicum VI, 3) racconta
che una donna, Maria di Eleazaro, resa furiosa dalla
fame, uccise il figlioletto e ne addentò le carni. |
31 |
Parean
l'occhiaie anella sanza gemme:
chi nel viso de li uomini legge 'omo'
ben avria quivi conosciuta l'emme. |
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31 |
Le occhiaie parevano castoni di anelli
senza gemme: chi nel volto umano afferma potersi leggere
la parola "orno", su quei volti avrebbe distinto molto
bene la emme. |
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Dante accenna a un'opinione diffusa fra i predicatori e
i moralisti medievali, secondo i quali nella struttura
del volto umano si poteva leggere la parola OMO: gli
zigomi sporgenti, gli archi sopracciliari e il naso
formano una specie di M, mentre le occhiaie danno le due
0 contenute, come si usava spesso nelle epigrafi del
tempo, nelle due anse della M.
Il tema del travolgimento delle fattezze umane è stato
variamente affrontato dal Poeta nell'Interno: ad esempio
nei canti dei sodomiti, donde la difficoltà per Dante di
riconoscere - nell'ombra ustionata che la rende visibile
palesandone al tempo stesso la pena e il peccato -
l'anima di Brunetto Latini; o in quello degli indovini o
ancora in quello dei seminatori di scismi, donde il
desiderio di pianto nel protagonista. Qui esso ripropone
la conversione dell'uomo in oggetto - più propriamente
in oggetto d'uso, in manufatto - la perdita totale della
sua sacra, perché da Dio sancita, autonomia. La spietata
oggettivazione dell'umano risalta maggiormente su uno
sfondo di scherno atroce - per il riferimento alle
anella prive del bagliore delle gemme che solitamente
vengono in esse incastonate. La precisione di tale
riferimento tuttavia - come pure quella volta a
riscontrare nel viso dei golosi soltanto la M della
parola OMO (altro indice della loro degradata umanità) ,
non si inquadra in una cornice angosciata e senza
scampo, quale era quella dell'Inferno, ma appare come
disciolta nell'onda ampia e musicale - in cui speranza e
pentimento si fondono delle terzine in cui è inserita. |
34 |
Chi
crederebbe che l'odor d'un pomo
sì governasse, generando brama,
e quel d'un'acqua, non sappiendo como? |
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34 |
Chi, ignorando (non sappiendo) in che
modo ciò avvenga (como: dal latino quomodo), potrebbe
credere che il profumo di un frutto e quello di
un'acqua, generando brama (di mangiare e di bere),
potessero ridurre in tale stato (sì governasse) quelle
anime? |
37 |
Già era in
ammirar che sì li affama,
per la cagione ancor non manifesta
di lor magrezza e di lor trista squama, |
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37 |
Ero tutto intento a
considerare che cosa le rendesse tanto affamate, non
essendomi ancora nota la causa della loro consunzione, e
della loro pelle disseccata e squamosa, |
40 |
ed ecco del
profondo de la testa
volse a me li occhi un'ombra e guardò fiso;
poi gridò forte: «Qual grazia m'è questa?». |
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40 |
quand'ecco un'ombra dal
fondo delle occhiaie incavate nella testa rivolse a me
gli occhi e mi guardò fissamente; poi gridò ad alta
voce: «Che grazia singolare è mai questa per me?» |
43 |
Mai non
l'avrei riconosciuto al viso;
ma ne la voce sua mi fu palese
ciò che l'aspetto in sé avea conquiso. |
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43 |
Io non l'avrei mai
riconosciuto solo guardandolo; ma nella sua voce mi si
rivelò la persona che l'aspetto esteriore aveva
distrutto. |
46 |
Questa
favilla tutta mi raccese
mia conoscenza a la cangiata labbia,
e ravvisai la faccia di Forese. |
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46 |
La voce fu la scintilla
che ravvivò in me la piena conoscenza di quella
fisionomia mutata, e così potei riconoscere la faccia di
Forese Donati. |
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Forese di Simone Donati, fratello di Corso (cfr.
Purgatorio XXIV, 82-90), l'odiato capo di parte nera, e
di quella Piccarda che Dante incontrerà nel cielo della
Luna (cfr. Purgatorio XXIV, 1015; Paradiso III, 34-51) ,
era lontano parente di Gemma Donati, moglie di Dante e
morì il 28 luglio 1296.
Il presente episodio non solo è documento
dell'affettuosa amicizia che legava il Poeta a Forese,
ma è conferma anche di quel periodo di dissipazione
nella vita giovanile di Dante (versi 115-118), al quale
deve assegnarsi una Tenzone di sei sonetti, a botta e
risposta, scambiati tra i due amici: non si sa se per
scherzo o in un momento di avvelenato malumore, essi si
lanciano l'un l'altro, senza risparmiare nemmeno le
famiglie, le peggiori insinuazioni, delle quali questo
canto vuole essere implicitamente, e in qualche punto,
esplicitamente, una riparazione postuma. In quei sonetti
Dante allude ripetutamente al vizio della gola di cui si
macchiò Forese (Rime LXXV, 1-4; LXXVII, 1-4). Secondo
l'Ottimo, un antico commentatore, il Poeta assisté
Forese morente e lo indusse a confessarsi.
Può riuscire utile, al fine di una più accurata
determinazione delle modalità caratterizzanti il poetare
dantesco nelle prime due cantiche, istituire un
raffronto tra il riconoscimento di Forese Donati e la
scarna, essenziale designa. zione che accompagna il
gesto con cui Virgilio (Interno X, verso 33) addita al
suo discepolo il tetragono, torreggiante Farinata. Il
raffronto può prendere l'avvio da un semplice aggettivo,
di accezione generalissima: il tutto del verso 33 del
canto di Farinata (dalla cintola in su tutto 'l vedrai),
il tutta dell'espressione con cui il Poeta ci rende
conto dell'avvenuto riconoscimento da parte sua di
Forese: questa favilla tutta mi raccese mia
conoscenza... Il verso che ci mette in presenza della
statura eccelsa - fisica in primo luogo, ma in cui
traspare una eccelsa levatura morale - dell'eretico
condottiero ghibellino s'impone a noi, per la sua
fermezza, come un blocco statuario: Farinata ci appare
immobile e pervicace, nel dolore e nel disperato
orgoglio. Qui, invece, nella scena del riconoscimento di
Forese, avvertiamo un maggior movimento, un prevalere
dell'elemento musicale su quello epigrafico e scultoreo,
una più sfumata emozione.
Al netto vedrai del verso 33 del X della prima cantica
si contrappone qui il più complesso, metaforico e caldo
mi raccese mia conoscenza, cui fa seguito il trattenuto
dolore che definisce la cangiata labbia dell'amico,
dolore che peraltro appare ampiamente riscattato
dall'impeto di gioia che si sprigiona dall'iniziale
favilla. In questa terzina avvertiamo una dolcezza, un
senso dello «sfumato», che risultano totalmente assenti
nell'episodio che ha per protagonista il magnanimo
ghibellino del settimo cerchio infernale. Qui il
riconoscimento non è immediato (laddove nell'episodio
del canto X dell'Interno avevamo il reciso, tagliente,
irrefutabile vedi là Farinata che s'è dritto) : richiede
tempo ed affanno, un ripiegarsi sui propri ricordi
(ravvisai) più gelosamente custoditi, un momento
profondo di meraviglia e dolore. |
49 |
«Deh, non
contendere a l'asciutta scabbia
che mi scolora», pregava, «la pelle,
né a difetto di carne ch'io abbia; |
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49 |
Pregandomi mi diceva:
«Deh, non badare all'arida scabbia che mi scolora la
pelle, né alla mancanza di carne che denoto, |
52 |
ma dimmi il
ver di te, dì chi son quelle
due anime che là ti fanno scorta;
non rimaner che tu non mi favelle!». |
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52 |
ma dimmi la verità
riguardo a te (che mi sembri ancor vivo), e dimmi chi
sono quelle due anime là che ti guidano: non ti astenere
dal parlarmi!» |
55 |
«La faccia
tua, ch'io lagrimai già morta,
mi dà di pianger mo non minor doglia»,
rispuos' io lui, «veggendola sì torta. |
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55 |
Gli risposi: «Il tuo viso,
che io già piansi quando moristi, mi causa ora un dolore
non meno intenso (di quello di allora), tale da farmi
piangere, vedendolo così deformato. |
58 |
Però mi dì,
per Dio, che sì vi sfoglia;
non mi far dir mentr' io mi maraviglio,
ché mal può dir chi è pien d'altra voglia». |
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58 |
Perciò (però) dimmi, per
amore di Dio, che cosa vi consuma in tal modo: non farmi
parlare finché sono in preda allo stupore perché chi è
dominato da un altro desiderio con difficoltà può
parlare». |
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La terzina 55 traduce l'eco di un dolore personale -
quello che Dante provò alla vista della pena cui era
stato destinato, per espiare, il suo amico di gioventù -
ma costituisce al tempo stesso l'espressione di un
dolore più vasto: quello derivante dalla vista della
nobiltà e sacralità delle fattezze umane rese
irriconoscibili, caricaturalmente deformate
dall'intensità del soffrire (nel caso specifico dalla
fame). "Forese lo ha pregato di non badare al suo volto
disfatto: ma Dante non ne distoglie lo sguardo, ne ha
non ribrezzo, ma pietà; e il volto consunto gli richiama
il volto di Forese vivo e glielo accosta con un senso di
amicizia che ha un così religioso significato di contro
all'ostilità di un tempo. Dante dice: la taccia tua,
ch'io lagrimai già morta, con un accenno fugace ma
profondo: tra l'ostilità d'un tempo e l'affetto di ora
c'è stata di mezzo la morte di Forese; e forse è stata
proprio la morte a spegnere l'odio di un tempo! Dante è
qui un'anima purgante." (Momigliano)
A questi fini spunti del Momigliano mantenuti
prevalentemente sul piano di un'indagine psicologica -
possiamo accostare alcune belle notazioni di un critico
la cui analisi precedette di alcuni decenni quella del
Momigliano, il Fassò: "il Poeta che... per solo impulso
di umana simpatia ha pianto desolatamente nella bolgia
degli indovini per aver visto la nostra immagine sì
torta (lo stesso aggettivo usato qui per la faccia di
Forese!), il Poeta che nella bolgia dei seminatori di
discordia ha le luci inebriate e vaghe di stare a
piangere davanti allo scempio della figura umana, come
potrebbe non piangere davanti al terrificante spettacolo
dei golosi che paiono non morti, ma cose rimorte, e
hanno non orbite, ma fosse degli occhi? E come potrebbe
non piangere davanti a quello che egli amò teneramente
in vita, a cui forse chiuse, con mano fraterna, gli
occhi nell'ora della morte?"
Nella terzina che segue, con movimento analogo a quello
rilevato nella duplice proposizione dei versi 31-33 e
34-36, il fatto singolo (in questo caso il sentimento
provato dal protagonista alla vista dell'amico)
s'inquadra in una severa cornice concettuale: Dante
cerca anche qui, nell'ambito di una sfera di idee
generali e valide nei confronti di una molteplicità di
casi, le ragioni di ciò di cui la guerra sì del cammino
e sì della pietafe (Inferno II, 4-5) lo mette
attualmente in presenza, le ragioni quindi del suo
medesimo conseguente dolore: però mi di', per Dio, che
sì vi sfoglia. |
61 |
Ed elli a
me: «De l'etterno consiglio
cade vertù ne l'acqua e ne la pianta
rimasa dietro, ond' io sì m'assottiglio. |
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61 |
Ed egli a me: «Per
disposizione divina scende nell'acqua e nella pianta
rimasta dietro di noi un potere per cui io dimagrisco in
questo modo. |
64 |
Tutta esta
gente che piangendo canta
per seguitar la gola oltra misura,
in fame e 'n sete qui si rifà santa. |
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64 |
Tutta questa gente che
canta e piange per aver assecondato la gola oltre
misura, qui soffrendo la fame e la sete ritorna pura. |
67 |
Di bere e di
mangiar n'accende cura
l'odor ch'esce del pomo e de lo sprazzo
che si distende su per sua verdura. |
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67 |
A noi accende il desiderio
di bere e di mangiare il profumo che emana dal frutto di
quell'albero e dallo spruzzo d'acqua che si irradia
sopra le sue foglie verdi. |
70 |
E non pur
una volta, questo spazzo
girando, si rinfresca nostra pena:
io dico pena, e dovria dir sollazzo, |
|
70 |
E non una sola volta si
rinnova la nostra pena, mentre giriamo il ripiano di
questa cornice: ho detto pena, e dovrei dire gioia, |
73 |
ché quella
voglia a li alberi ci mena
che menò Cristo lieto a dire 'Elì',
quando ne liberò con la sua vena». |
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73 |
perché ci conduce agli
alberi (il primo all'ingresso del girone, canto XXII,
131 sgg., l'altro all'uscita, canto XXIV, 103 sgg.)
quella stessa volontà che condusse Cristo lieto sulla
croce a dire "Dio mio", quando ci redense col suo
sangue». |
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Cristo sulla croce, nell'attimo supremo, preso
dall'angoscia giunse ad esclamare: "Eli, Eli, lamma
sabachtani?": "Dio mio, Dio mio, perché mi hai
abbandonato?" (Matteo XXVII, 46; Marco XV, 34). |
76 |
E io a lui:
«Forese, da quel dì
nel qual mutasti mondo a miglior vita,
cinqu' anni non son vòlti infino a qui. |
|
76 |
E io gli dissi: «Forese,
dal giorno in cui passasti dalla vita terrena a
un'esistenza migliore fino ad oggi non sono ancora
trascorsi cinque anni. |
79 |
Se prima fu
la possa in te finita
di peccar più, che sovvenisse l'ora
del buon dolor ch'a Dio ne rimarita, |
|
79 |
Se in te venne meno la
possibilità di peccare ulteriormente prima che
sopraggiungesse l'ora del sincero pentimento che ci
riconcilia con Dio (cioè: se ti pentisti solo nel
momento estremo della vita, allorché non è più possibile
peccare, |
82 |
come se' tu
qua sù venuto ancora?
Io ti credea trovar là giù di sotto,
dove tempo per tempo si ristora». |
|
82 |
come sei di già venuto
quassù? Io pensavo di trovarti laggiù
nell'antipurgatorio, dove il tempo perduto (senza
pentirsi) si compensa con altrettanto tempo di attesa
(prima dell'espiazione)». |
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Dante pensava di incontrare l'amico Forese
nell'antipurgatorio, tra i negligenti, i quali devono
ritardare l'espiazione di tanto quanto hanno ritardato
il pentimento (cfr. Purgatorio IV, 130135; XI, 127-132). |
85 |
Ond' elli a
me: «Sì tosto m'ha condotto
a ber lo dolce assenzo d'i martìri
la Nella mia con suo pianger dirotto. |
|
85 |
Perciò mi rispose: «Mi ha condotto così
presto quassù a bere il dolce assenzio delle pene la mia
Nella con le sue calde lagrime. |
|
Di Nella o Giovanna Donati sappiamo soltanto quello che
qui ne dice Forese. Dante, nel primo sonetto della
citata Tenzone, la rappresenta crucciata contro il
marito, perché da questo trascurata: qui fa ammenda di
quella sua prima malevola presentazione. |
88 |
Con suoi
prieghi devoti e con sospiri
tratto m'ha de la costa ove s'aspetta,
e liberato m'ha de li altri giri. |
|
88 |
Con le sue preghiere devote e con i
sospiri mi ha tratto dall'antipurgatorio, e mi ha
liberato dai gironi precedenti. |
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In merito alla cadenza dolcissima, nel suo nostalgico
proporsi alla memoria, del verso 87, giova ricordare
quanto il possessivo (qui mia), posposto al sostantivo
indicante l'oggetto del possesso, renda tenero,
familiare ed intenso al tempo stesso il dire del Poeta.
Qui, ad accrescere l'effetto della tenera rievocazione,
il sostantivo che precede il possessivo si atteggia nei
modi affettuosi ed intimi di un vezzeggiativo (la
Nella), forma domestica e dimessa ma perciò appunto più
personalizzata ed intensa . del nome proprio. II
ricordare colmo di amore e gratitudine di Forese si
concreterà, nel verso 92, in un altro tenerissimo
vezzeggiativo, seguito anche questo dal possessivo mia
(la vedovella mia), nel quale si compendia una somma di
suggerimenti: la giovane età della sposa lasciata sola
ad affrontare le asprezze del vivere, la costanza del
suo amore nei riguardi del marito morto, la gentilezza
di questo suo sentire. Osserva il Fassò che il Poeta
dedica alla moglie di Forese - da lui in termini tanto
offensivi trattata nella Tenzone giovanile con l'amico -
non più di nove versi, nei quali tuttavia vive, e si
sublima a creatura imperitura dell'arte, "una soave
figura di donna amorosa, di moglie cristiana, castamente
fedele oltre la tomba. Fu detta [dal Trabalza, in una
sua esegesi di questo canto] un'ombra gentile di
Beatrice: no, non è un'ombra... E' una creatura viva,
vera e salda, non velata da simboli, un cuore dolorante,
tutto umano. Vano cercarle sorelle fuori e dentro la
Divina Commedia: che se l'innocente figlia di Nino
Visconti e la buona Alagia nipote di Adriano V e la
buona Costanza figliola di Manfredi, come lei pregano,
anzi pregheranno in suffragio dei loro cari, nessuna di
esse ha, come Nella, oltre l'innocenza e la bontà
largite loro dal Poeta, l'aureola del dolore e del
sacrificio che va oltre la morte". |
91 |
Tanto è a
Dio più cara e più diletta
la vedovella mia, che molto amai,
quanto in bene operare è più soletta; |
|
91 |
La mia vedovella, che io
ho intensamente amato, è tanto più cara e diletta a Dio,
quanto più è sola nel fare il bene, |
94 |
ché la
Barbagia di Sardigna assai
ne le femmine sue più è pudica
che la Barbagia dov' io la lasciai. |
|
94 |
perché la Barbagia di
Sardegna nel costume delle sue donne è assai più pudica
di Firenze, la Barbagia dove io la lasciai morendo. |
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La Barbagia era una regione montuosa della Sardegna
centrale, vicina al Gennargentu, i cui rozzi abitanti,
convertitisi al cristianesimo solo nel secolo VI, ebbero
nel Medioevo fama di barbari, donde il nome della loro
terra (in latino: Barbaria). Per colpire più duramente
le donne fiorentine Dante calca la mano sul malcostume
di quelle di Barbagia, le quali "vestite come montanare
e contadine... portavano e portano un busto o corpetto
basso davanti con sparato larghissimo, ma coprivano e
coprono il seno con la camicia chiusa sino alla gola" (Torraca). |
97 |
O dolce
frate, che vuo' tu ch'io dica?
Tempo futuro m'è già nel cospetto,
cui non sarà quest' ora molto antica, |
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97 |
O dolce
fratello, che altro vuoi ti dica di peggio? Mi è già
davanti agli occhi un tempo futuro, rispetto al quale
quest'ora presente non è molto lontana, |
100 |
nel qual
sarà in pergamo interdetto
a le sfacciate donne fiorentine
l'andar mostrando con le poppe il petto. |
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100 |
in cui dal
pulpito sarà solennemente proibito alle sfacciate donne
di Firenze di andare in giro mostrando il petto con le
mammelle scoperte. |
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Dante, in questa predizione che pone sulla bocca di
Forese, deve riferirsi non tanto alla predicazione
contro la moda sfacciata, quanto a una sperata ordinanza
vescovile o ad una legge suntuaria del comune che
comminasse pene ben determinate. Ma per Firenze, negli
anni immediatamente posteriori al 1300, non sono
documentate ordinanze o leggi in questo senso.
Con movimento in parte analogo a quello che bipartisce
il discorso di Ugo Capeto nel canto XX, Forese Donati
passa dalla rievocazione del passato (per lui fonte di
dolcezza e di indugi malinconici) alla visione profetica
del futuro. Dopo un'interrogazione smarrita (verso 97),
nella quale vibra ancora un'umanità dimessa e calda di
affetti (o dolce frate...), Forese rivela in sé le
qualità sovrannaturali che definiscono il veggente.
L'oggetto della sua visione è infatti la più concreta,
ma altresi la più impalpabile delle realtà, quella che
determina il nostro essere stesso: il tempo
(l'espressione che oggettiva il tempo davanti all'eletto
da Dio tempo futuro m'è già nel cospetto rimanda ad un
analogo proporsi del medesimo motivo nel vedere
profetico di Ugo Capeto: tempo vegg'io .. canto XX,
verso 70). |
103 |
Quai barbare
fuor mai, quai saracine,
cui bisognasse, per farle ir coperte,
o spiritali o altre discipline? |
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103 |
Quali donne barbare ci
furono mai, quali donne saracene, cui fossero necessarie
sanzioni religiose o civili per farle andare coperte? |
106 |
Ma se le
svergognate fosser certe
di quel che 'l ciel veloce loro ammanna,
già per urlare avrian le bocche aperte; |
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106 |
Ma se quelle svergognate
venissero a sapere quello che il cielo a breve scadenza
prepara per loro, avrebbero già la bocca aperta per
urlare di spavento, |
109 |
ché, se l'antiveder
qui non m'inganna,
prima fien triste che le guance impeli
colui che mo si consola con nanna. |
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109 |
perché, se qui non
m'inganna la mia preveggenza, esse saranno dolenti prima
che il bambino il quale ora si acquieta col canto della
ninna nanna, diventi adulto. |
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Forese fa una predizione oscura, e quindi più efficace,
d'un fatto terribile e doloroso, specialmente per le
donne. Tra il 1300 e il 1315 non mancarono per Firenze
eventi luttuosi, da sembrare castighi del cielo.
Ignoriamo però se Dante volesse annunciare con una
profezia generica un castigo inevitabile. senza aver in
mente alcun fatto preciso, oppure se volesse alludere
agli orrori delle lotte civili, alle stragi di Fulcieri
da Calboli (cfr. Purgatorio XIV, 58-66), alla rotta di
Montecatini (1312) o, più probabilmente, alla venuta di
Arrigo VII (1312) .
Dopo una interrogazione di sapore e struttura retorici
(ma, come ha avvertito il Fubini, il colore retorico
definisce sempre in Dante una recisa presa di posizione
etica) nei versi 103-105, l'antiveder trasforma il mite,
penitente Forese in un profeta di sciagure. Come
giustamente mette in luce lo Spoerri, si manifesta nei
versi a questi successivi (106-108; 109-111) una sorta
di apocalittica "gioia per la distruzione" in rapporto
alla punizione divina, la quale non mancherà di colpire
i corrotti costumi della città al tempo stesso fatta dal
Poeta oggetto del suo amore più geloso e del suo odio
meno disposto a compromessi.
Le fiorentine ignorano, nella loro sfacciata leggerezza,
che l'atteggiamento il quale risulterebbe loro più
consono, già nel tempo presente, prima ancora che la
punizione di Dio si abbatta su loro, è quello del grido
d'orrore. II Poeta riesce a fermare tale atteggiamento
come in una spaventosa istantanea, convertendo questi
esseri, nei quali un sangue troppo impetuoso e ribelle
pulsa ancora inconsapevole, in statue immobili per
l'eternità nel gesto di deprecazione e spavento di
fronte all'irrimediabile. |
112 |
Deh, frate,
or fa che più non mi ti celi!
vedi che non pur io, ma questa gente
tutta rimira là dove 'l sol veli». |
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112 |
Deh, fratello, cerca ora
di non celarmi oltre ciò che ti ho chiesto! vedi come
non solo io, ma tutta questa gente guarda con stupore il
luogo dove con la tua ombra veli il sole». |
115 |
Per ch'io a
lui: «Se tu riduci a mente
qual fosti meco, e qual io teco fui,
ancor fia grave il memorar presente. |
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115 |
Perciò io mi rivolsi a lui
dicendo: «Se richiami alla memoria la vita che
conducesti con me, ed io con te, il ricordarla ora (il
memorar presente) sarà ancora spiacevole. |
118 |
Di quella
vita mi volse costui
che mi va innanzi, l'altr' ier, quando tonda
vi si mostrò la suora di colui», |
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118 |
Mi distolse da quella vita
viziosa solo pochi giorni fa costui che mi guida, quando
si mostrava a voi piena la luna, la sorella di quello», |
121 |
e 'l sol
mostrai; «costui per la profonda
notte menato m'ha d'i veri morti
con questa vera carne che 'l seconda. |
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121 |
e gl'indicai il sole.
«Costui m'ha condotto attraverso la notte profonda dei
veri morti (perché dannati) dell'inferno, mentre io
portavo con me questo mio corpo reale che lo segue. |
124 |
Indi m'han
tratto sù li suoi conforti,
salendo e rigirando la montagna
che drizza voi che 'l mondo fece torti. |
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124 |
Di li i suoi
incoraggiamenti mi hanno aiutato a salire e a girare
ripetutamente i balzi di questo monte, il quale
raddrizza voi che il mondo aveva storpiato. |
127 |
Tanto dice
di farmi sua compagna
che io sarò là dove fia Beatrice;
quivi convien che sanza lui rimagna. |
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127 |
Ed egli promette che mi
accompagnerà, finché non sarò giunto là dove sarà
Beatrice: colà è necessario che io resti privo di lui. |
130 |
Virgilio è
questi che così mi dice»,
e addita'lo; «e quest' altro è quell' ombra
per cuï scosse dianzi ogne pendice |
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130 |
Questi, che mi fa tali
promesse, è Virgilio» e glielo additai; «e quest'altro è
Stazio, quell'anima per la quale poco fa scosse tutte le
sue pendici |
133 |
lo vostro
regno, che da sé lo sgombra». |
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133 |
il monte del purgatorio,
che lo allontana da sé». |
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