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DIVINA
COMMEDIA: PARAFRASI
PURGATORIO
CANTO XXIV° |
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1 |
Né 'l dir l'andar, né
l'andar lui più lento
facea, ma ragionando andavam forte,
sì come nave pinta da buon vento; |
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1 |
Il parlare non rallentava il cammino, né il camminare
rendeva più lento il discorso; ma, pur conversando,
andavamo speditamente, come una nave spinta da vento
favorevole. |
4 |
e l'ombre, che parean cose
rimorte,
per le fosse de li occhi ammirazione
traean di me, di mio vivere accorte. |
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4 |
E le ombre, che sembravano
cose più che morte, (guardandomi) attraverso gli occhi
infossati si meravigliavano di me, essendosi accorte che
io ero ancora vivo. |
7 |
E io, continüando al mio
sermone,
dissi: «Ella sen va sù forse più tarda
che non farebbe, per altrui cagione. |
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7 |
E io, continuando il mio
discorso (interrotto alla fine del canto precedente),
dissi: «Quell'anima (Stazio) sale al paradiso forse più
lentamente di quanto non farebbe (se fosse sola), per
amore di Virgilio. |
10 |
Ma dimmi, se tu sai, dov' è
Piccarda;
dimmi s'io veggio da notar persona
tra questa gente che sì mi riguarda». |
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10 |
Ma se lo sai, dimmi dov'è
tua sorella Piccarda (di lei Dante parlerà nel canto IIl
del Paradiso, versi 34 sgg.) ; e dimmi se, tra questa
gente che mi osserva in questo modo, posso vedere
qualche persona degna di nota». |
13 |
«La mia sorella, che tra
bella e buona
non so qual fosse più, trïunfa lieta
ne l'alto Olimpo già di sua corona». |
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13 |
«Mia sorella, che non so se fosse più bella o più buona,
è già trionfante in paradiso, lieta della sua corona di
gloria.» |
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Domina, nell'esordio del canto, il senso di pietà, non
di crudele indagine, che scaturisce dall'accostamento
lievissimo, appena sfiorato nel discreto parean, del
termine ombre a quello, trascurato e non ulteriormente
definito, di cose, cui I'attributo rimorte, denso di
riferimenti alla sorte delle anime dopo la cessazione
della vita in terra conferisce una cadenza di stanca,
rassegnata abdicazione del volere individuale a quello
della giustizia divina che impone di espiare. I versi
5-6 acquistano un ulteriore rilievo per la
contrapposizione della vita destinata a manifestarsi nei
penitenti di questa cornice in una condizione dura ed
ingrata (per le tosse delli occhi riprende il motivo
delle anella sanza gemme, ribadito poi nell'apertura
dell'episodio di Forese - ed ecco del profondo della
testa -) alla vita piena, non ancora votata al macerarsi
nell'espiazione, al dissolversi quasi caricaturale del
rivestimento corporeo.
Altri temi ancora del canto precedente riaffiorano
musicalmente in questo: la evocazione di una figura
femminile santificata nella preghiera e nella privazione
(per cui all'immagine di Nella fa qui riscontro quella
di Piccarda, veduta tuttavia quest'ultima non sullo
sfondo di angosce costituito per le anime buone dal
vivere in terra, ma nella gloria del suo trionfo
paradisiaco), la recisa condanna di un costume e di una
prassi che hanno trasformato l'ordinato agire dei
cittadini di Firenze nel disordine assurdo ove
l'arbitrio e la sete di primeggiare di ogni singolo, non
trovano più un freno che li imbrigli e li regoli
volgendoli a buon fine, per cui la condanna degli usi
delle stacciate donne fiorentine troverà in questo canto
(versi 82-87) la propria naturale continuazione e
conclusione nella profezia del destino che attende il
superbo Corso Donati. Verrà ripreso anche il tema
dell'amicizia fedele e ormai purificata da ogni scoria
terrena, che detterà a Forese l'ansiosa, addolorata
domanda del verso 75 (quando fia ch'io ti riveggia?) e
determinerà, nella risposta di Dante, gli accenti
accorati della sua sazietà di vivere. |
16 |
Sì disse prima; e poi: «Qui
non si vieta
di nominar ciascun, da ch'è sì munta
nostra sembianza via per la dïeta. |
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16 |
Cosi disse prima Forese;
poi soggiunse: «In questo girone non è proibito (anzi è
necessario) indicare ciascuno per nome, dal momento che,
per il digiuno, la nostra fisionomia è così consunta. |
19 |
Questi», e mostrò col dito,
«è Bonagiunta,
Bonagiunta da Lucca; e quella faccia
di là da lui più che l'altre trapunta |
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19 |
Costui» e lo
mostrò col dito «è Bonaggiunta, voglio dire Bonaggiunta
da Lucca; e quello dietro a lui, con la faccia cosparsa
di screpolature più di tutti gli altri, |
22 |
ebbe la Santa Chiesa in le
sue braccia:
dal Torso fu, e purga per digiuno
l'anguille di Bolsena e la vernaccia». |
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22 |
fu sposo della Santa Chiesa (ebbe la Santa Chiesa in le
sue braccia): fu di Tours, e col digiuno sconta le
anguille del lago di Bolsena e la vernaccia». |
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Bonaggiunta Orbicciani degli Overardi fu un rimatore
lucchese, vissuto nella seconda metà del secolo XIII. Le
sue creazioni, raffinate ma fredde, sono di carattere
provenzaleggiante e forse per tale motivo Dante lo ha
scelto per mettere in rilievo la positività della nuova
poesia, quella che chiamiamo dolce stil novo (versi 55
sgg.), rispetto alla precedente scuola poetica.
Colui che ebbe la Santa Chiesa in le sue braccia è
Martino IV, pontefice dal 1281 al 1285. Nacque a
Montpincé nella Brie, e fu tesoriere della cattedrale di
Tours. Il Villani (Cronaca VII, 58) lo giudica come papa
"magnanimo e di gran cuore ne' fatti della Chiesa",
mentre i cronisti del tempo (fra cui in particolare F.
Pipino nel suo Chronicon) riportano numerosi e
divertenti aneddoti sulla golosità di questo pontefice,
particolarmente ghiotto delle anguille del lago di
Bolsena, " le quali sono le migliori anguille che si
mangino... e faceale mettere e morire nella vernaccia e
poi battere e meschiare con cacio e uova e certe altre
cose". |
25 |
Molti altri mi nomò ad uno
ad uno;
e del nomar parean tutti contenti,
sì ch'io però non vidi un atto bruno. |
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25 |
Forese poi mi nominò a uno a uno molti altri; e tutti
apparivano lieti di esser indicati col loro nome, tanto
che per questo non vidi nessuno per disappunto
rabbuiarsi in volto. |
28 |
Vidi per fame a vòto usar
li denti
Ubaldin da la Pila e Bonifazio
che pasturò col rocco molte genti. |
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28 |
Vidi Ubaldino della Pila
muovere invano i denti per la fame e Bonifacio che,
insignito del bastone pastorale, fu pastore di molte
popolazioni. |
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Ubaldino degli Ubaldini, appartenente alla potente
famiglia toscana dei conti della Pila (nel Mugello), fu
padre dell'arcivescovo Ruggieri (Inferno XXXIII, 14) .
Morì intorno al 1291.
Bonifacio dei Fieschi, un ligure che fu arcivescovo di
Ravenna dal 1274 al 1295. godette fama di ecclesiastico
gaudente. |
31 |
Vidi messer Marchese,
ch'ebbe spazio
già di bere a Forlì con men secchezza,
e sì fu tal, che non si sentì sazio. |
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31 |
Vidi messer Marchese degli Argogliosi,
che già ebbe agio di bere a Forlì con minor sete di qui,
sebbene sia stato così grande bevitore da non sentirsi
mai sazio. |
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Marchese degli Argogliosi, nato a Forlì, fu eletto
podestà di Faenza nel 1296. Molti furono gli aneddoti
fioriti intorno alle sue notevoli capacità di bevitore. |
34 |
Ma come fa chi guarda e poi
s'apprezza
più d'un che d'altro, fei a quel da Lucca,
che più parea di me aver contezza. |
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34 |
Ma come fa chi guarda più
persone e poi mostra di stimare più l'una che l'altra,
così feci io verso Bonaggiunta, che sembrava più degli
altri desideroso di conoscermi. |
37 |
El mormorava; e non so che
«Gentucca»
sentiv' io là, ov' el sentia la piaga
de la giustizia che sì li pilucca. |
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37 |
Egli parlava sottovoce: e
io potevo percepire qualcosa come "Gentucca" dalla sua
bocca dove egli sentiva più viva la tortura della fame e
della sete che in tal modo li consuma. |
40 |
«O anima», diss' io, «che
par sì vaga
di parlar meco, fa sì ch'io t'intenda,
e te e me col tuo parlare appaga». |
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40 |
Io dissi: «O anima che
sembri così desiderosa di parlare con me, parla in modo
che io ti capisca, e parlandomi appaga il tuo e il mio
desiderio». |
43 |
«Femmina è nata, e non
porta ancor benda»,
cominciò el, «che ti farà piacere
la mia città, come ch'om la riprenda. |
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43 |
Egli cominciò a dire: «È
già nata una donna, che non porta ancora il velo
maritale, la quale ti farà piacere la mia città,
nonostante di essa si dica tanto male (come ch'uom la
riprenda). |
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I commentatori più antichi, fra cui il Boccaccio,
consideravano Gentucca non un nome proprio, ma un
termine significante all'incirca "gente biasimevole'",
"da poco", basandosi sul giudizio negativo da Dante
sempre espresso nei confronti dei Lucchesi (cfr. Inferno
XXI, 41-42) . Solo in un secondo tempo, sulla base di un
suggerimento del Buti, si pensò ad un nome di donna e si
affermò che Dante si sarebbe innamorato di Gentucca
durante un soggiorno a Lucca. Esiste infatti un
documento lucchese del 1317 che parla di Gentucca Morla,
la quale sposò un certo Bonaccorso Fondora. Tuttavia i
versi 43-45 non permettono in alcun modo di pensare ad
un vero e proprio amore, bensì ad un sentimento di
gratitudine che in questo momento il Poeta esprime per
la cortesia e l'amicizia con cui questa donna lo avrebbe
accolto durante il suo soggiorno a Lucca, avvenuto
probabilmente intorno al 1306 mentre il Poeta era ospite
di Moroello Malaspina, o alcuni anni più tardi. |
46 |
Tu te n'andrai con questo
antivedere:
se nel mio mormorar prendesti errore,
dichiareranti ancor le cose vere. |
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46 |
Tu te ne andrai di qui con
questa profezia: se per le parole che io mormoro è sorto
in te qualche dubbio, i fatti ti illumineranno più delle
mie parole. |
49 |
Ma dì s'i' veggio qui colui
che fore
trasse le nove rime, cominciando
'Donne ch'avete intelletto d'amore'». |
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49 |
Ma dimmi se qui vedo in te
colui che diede l'avvio ad una nuova maniera di poetare,
offrendone il primo esempio con (la canzone) «Donne
ch'avete intelletto d'amore». |
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Ad un poeta come Bonaggiunta, ancora legato ai modi
della lirica provenzale (nata spesso priva d'ispirazione
e costruita su modelli ormai diventati canonici secondo
uno stile oscuro e complesso, anche se elegante), non
poteva non interessare l'incontro con chi invece da quei
moduli si era staccato per creare un nuovo mondo poetico
e un nuovo stile: ciò avveniva attraverso la
composizione della Vita Nova e in modo particolare con
la creazione di quel gruppo di rime amorose in lode di
Beatrice, delle quali la prima è appunto "Donne ch'avete
intelletto d'amore". Il Poeta così afferma a proposito
di questa canzone: "la mia lingua parlò quasi come per
se stessa mossa, e disse: "Donne ch'avete intelletto
d'amore" (Vita Nova XIX, 2). |
52 |
E io a lui: «I' mi son un
che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch'e' ditta dentro vo significando». |
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52 |
E io gli risposi: «Io sono
semplicemente uno (fra gli altri) che, quando avverto
che l'amore mi parla, attentamente prendo nota, e cerco
di esprimere fedelmente con le parole (vo significando)
quello che esso detta dentro di me». |
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Dopo che il primo verso della canzone "Donne ch'avete
intelletto d'amore" ha precisato l'argomento della nuova
poesia - quello dell'amore (in un significato che
trascende quello solamente erotico della poesia passata,
per svolgersi su un piano morale-religioso) . Dante
vuole sottolineare il carattere dell'ispirazione, che
deve nascere solo dall'anima (e non dalle regole
accettate da una scuola poetica, come spesso avveniva
nella lirica provenzale), avendo come unica guida, anzi
dittator (verso 59), l'amore: in tal modo viene
impegnata tutta l'esperienza intima di un poeta, nonché
la sua capacità di ricercare una forma espressiva
adeguata alla profondità della materia. |
55 |
«O frate, issa vegg' io»,
diss' elli, «il nodo
che 'l Notaro e Guittone e me ritenne
di qua dal dolce stil novo ch'i' odo! |
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55 |
Egli disse: «O fratello, ora finalmente
conosco l'impedimento che tenne il notaio Giacomo da
Lentini e Guittone d'Arezzo e me al di fuori del dolce
stiI novo, che ora mi spiego. |
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Giacomo da Lentini lavorò nella curia di Federico II,
morendo intorno al 1250. Il suo nome viene ricordato in
questo momento per indicare i rimatori della scuola
siciliana, che si formò intorno alla metà del '200 alla
corte di Federico II, prendendo a modello la lirica
provenzale.
Guittone d'Arezzo, morto a Firenze nel 1294, viene
considerato, nella storiografia letteraria, come poeta
di transizione (di animo vigoroso, ma di stile
elaborato) fra la scuola siciliana e quella del dolce
stil novo, sviluppatasi in Toscana. Benché Dante ne sia
stato influenzato nella sua giovinezza, lo giudica
severamente, insieme con Bonaggiunta e altri rimatori
toscani, in un passo del De Vulgari Eloquentia (I, 131
sgg.) e del Purgatorio (XXVI, 124-126). È chiaro che
Dante vuole mettere in rilievo la differenza fra la
vecchia poesia (quella provenzale, siciliana, di
transizione) e la nuova (che ha tra i suoi esponenti,
oltre all'Alighieri, Guido Guinizelli, Guido Cavalcanti,
Cino da Pistoia, Lapo Gianni), differenza di contenuto
(quando Amor mi spira, noto) e di ispirazione (a quel
modo ch'é ditta dentro vo significando). Il verso su cui
la critica, soprattutto in sede storiografica, si è
soffermata, è il 57, nel quale l'espressione dolce stil
novo è stata poi scelta come nome indicativo di tutta la
nuova corrente poetica (dopo che alcuni critici avevano
avanzato l'ipotesi che stil novo fosse proprio di Dante
e degli altri poeti e dolce stil novo fosse da riferirsi
solo a Dante). Stil indica la poesia, novo la
caratteristica della materia, dove l'amore diventa una
forza di raffinamento e di ascesi spirituale verso Dio,
dolce la musicalità dell'espressione, oltre che la
delicatezza del contenuto che tratta d"amore. |
58 |
Io veggio ben come le
vostre penne
di retro al dittator sen vanno strette,
che de le nostre certo non avvenne; |
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58 |
Ora vedo bene come le
vostre penne seguono con stretta fedeltà l'amore che
detta, il che non accadde certamente alle nostre; |
61 |
e qual più a gradire oltre
si mette,
non vede più da l'uno a l'altro stilo»;
e, quasi contentato, si tacette. |
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61 |
e chiunque si metta a
considerare ancor più attentamente, tra l'uno e l'altro
stile (il nostro e il vostro) non vede altra differenza
oltre quella che abbiamo detto (quella cioè relativa
all'argomento d'amore e alla sincerità
dell'ispirazione)»; e tacque, come appagato. |
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L'episodio di Bonaggiunta Orbicciani da Lucca è stato
fatto oggetto di esegesi accurata e ricca di svolgimenti
da parte dei critici. Occorre tuttavia premettere che
esso - ed in particolare la terzina 52 - è mantenuto in
un clima di voluta imprecisione, in un'atmosfera la
quale, mentre da un lato ne sfuma i contorni
nell'indeterminato della profezia, insiste dall'altro
nel sottolineare unicamente la qualità interiore del
comporre poetico, lo spirito religioso di cui l'atto
creativo deve informarsi. Osserva in proposito il
Pellegrini che ognuno dei termini della terzina in esame
presenta una notevole indeterminatezza lessicale.
Nell'ambito di quest'ultima il "dittare" di Amore può
essere con pari diritto inteso nel suo senso più comune
ed immediato - al quale farebbe riscontro, da parte
dello scrittore inteso come semplice scrivano, un mero
registrare - quanto in un senso che fu proprio del
Medioevo e che poi si è perduto (quello di un'attività
più specificamente ristretta all'ambito della
letteratura, per cui il "dittare", in questa accezione
limitata, sarebbe proprio soltanto di coloro che sanno
servirsi degli strumenti espressivi i quali sono stati
fissati da una lunga tradizione retorica) ed
equivarrebbe quindi ad "ornare con colori retorici". II
termine noto d'altro canto potrebbe voler dire "tanto «
scrivo » (in abbreviatura o no), ovvero « registro »,
«osservo», quanto «metto in musica» o « canto su note
musicali »"; analoghe "alternative semantiche"
presenterebbero all'analisi spira e significando,
laddove l'intera sintassi dell'espressione e a quel modo
ch'é ditta dentro vo significando sarebbe suscettibile
di due divergenti letture, a seconda del valore
transitivo o intransitivo attribuito al gerundio
significando; l'esegesi corrente interpreta significando
intransitivamente, ma niente vieterebbe, secondo il
Pellegrini, d'intendere: "e a quel modo [cioè notando]
vo significando ciò ch'egli ditta dentro". Le
conclusioni cui questo critico perviene sono pertanto
quanto mai caute, per non dire scettiche, circa la
possibilità di interpretare in maniera univoca i versi
52-54 e, di riflesso, l'intero episodio di Bonaggiunta.
Lo studio del Pellegrini tuttavia, se costituisce
un'introduzione efficace e quasi indispensabile
all'analisi deil'episodio di Bonaggiunta, rischia - per
eccesso di scrupolo e di cautela nella lettura di esso -
di riuscire paralizzante per determinare il tono che la
parola di Dante assume in questo passo, tono che ad una
lettura, non ostacolata da remore critiche, risulta
quanto mai evidente. Occorre a tale proposito osservare
che tutte le interpretazioni miranti a trasformare il
dialogo tra il protagonista e Bonaggiunta in uno scambio
di battute più o meno velatamente polemiche finiscono
con l'astrarre l'episodio di Bonaggiunta da quella che è
la atmosfera mai smentita - se non nell'accensione dello
sdegno politico, e quindi per motivi di ben altro peso
che non quelli dai quali può scaturire una disputa fra
poeti, una disquisizione intorno al rapporto fra
ispirazione e resa stilistica nell'opera d'arte -
dell'intera seconda cantica, laddove la tonalità che
appare propria di questo passo rientra nel quadro di
quella caratterizzante il Purgatorio. Costanti di questa
tonalità sono, per quel che riguarda l'incontro fra
Dante e le anime, un reciproco abdicare all'orgoglio ed
agli accenti recisi, un festoso, perché spontaneo,
manifestarsi della carità e della gentilezza.
Un retto avvio alla definizione in sede critica del
significato di questa pagina può invece essere fornito
da uno studio del De Negri, il quale mostra come il
dialogo fra Dante e Bonaggiunta vada inserito in una
serie di episodi del Purgatorio, nei quali, a proposito
delle sue qualità di artefice della parola, Dante viene
via via mettendo a sempre più severa prova se stesso
l'uomo nuovo che in lui faticosamente, di cornice in
cornice, matura la sua umiltà - di fronte al
compiacimento che gli deriva dalla consapevolezza della
propria eccellenza nel campo poetico. Gli elogi
palesatigli da Casella nel canto II, non meno che alcune
parole a lui rivolte da Oderisi da Gubbio nell'XI
rappresentano per il protagonista della Commedia una
pericolosa insidia, una vera e propria tentazione. Nel
canto XXVI Dante, tessendo a sua volta gli elogi di
Guido Guinizelli, abbandonerà d'altro lato ogni pretesa
di superiorità sugli altri rimatori. In questo contesto
tematico si inserisce naturalmente l'episodio di
Bonaggiunta. In particolare, per quel che- riguarda i
versi 52-54, il De Negri sostiene, in modo quanto mai
convincente, che in essi Dante "esprime un intento
deprecatorio (come di chi vuole sottrarsi ad una lode
eccessiva ed immeritata)... Comincia con una formula (i'
mi son un), mediante la quale declina ogni suo merito
personale e toglie alla sua esperienza (che non è sua
soltanto, ma di altri) ogni carattere di singolarità: e
prosegue illustrandola con un'altra formula" la quale
attribuirebbe al poetare dell'autore null'altro che "un
compito subalterno di fedele e diligente registrazione".
La medesima posizione del De Negri era stata in
precedenza sostenuta nella monografia di uno studioso
americano, lo Shaw, e nel commento del Sapegno. Quella
dello Shaw risulta un'indagine assai accurata, condotta
sul duplice binario di una caratterizzazione psicologica
dei due dialoganti e di una interpretazione semantica
delle loro parole, la quale mette in discussione più di
un punto che sembrava ormai pacificamente acquisito
all'esegesi tradizionale del passo. Tra l'altro, per
quanto concerne l'issa con cui inizia il riconoscimento
da parte di Bonaggiunta dei propri limiti nell'arte del
comporre rime, il critico americano gli attribuisce non
un valore esprimente l'immediato accorgersi (vegg io) di
Bonaggiunta dei limiti della sua opera letteraria dopo
la affermazione di Dante circa il "dittare" di Amore
nell'animo, ma un'accezione assai più estesa, per nulla
legata all'occasionale incontro tra i due poeti. Per lo
Shaw infatti issa abbraccerebbe l'intero tempo trascorso
da Bonaggiunta sulle balze del sacro monte, ribadendo in
tal modo in lui quella qualità di veggente, quella
lucidità di giudizio che caratterizza tutte le anime del
purgatorio. In tono con l'esegesi dello Shaw si colloca
quella, misurata ed attenta, del Sapegno, il quale,
sempre in rapporto al controverso issa del verso 55,
scrive: "Meglio che non: « adesso, dopo avervi udito »,
sarà da intendere: « adesso, che sono qui, nel
purgatorio, libero da orgogli e polemiche terrestri, e
meglio atto a giudicare secondo il vero ». Il carattere
della poetica nuova si rivela a Bonaggiunta come una
verità religiosa, in quanto egli è salito a una nuova
vita spirituale; e si rende conto ora dell'importanza di
quella poesia che celebra un amore inteso come
rinnovamento interiore e fondamento di moralità". |
64 |
Come li augei che vernan
lungo 'l Nilo,
alcuna volta in aere fanno schiera,
poi volan più a fretta e vanno in filo, |
|
64 |
Come gli uccelli (le gru)
che svernano lungo il Nilo, talvolta formano in aria una
schiera, poi volando più in fretta si dispongono in
fila, |
67 |
così tutta la gente che lì
era,
volgendo 'l viso, raffrettò suo passo,
e per magrezza e per voler leggera. |
|
67 |
così tutta la gente che
era lì attorno a noi, volgendo gli occhi in direzione
del cammino, affrettò il suo passo, resa agile dalla
magrezza e dal desiderio di espiare. |
70 |
E come l'uom che di
trottare è lasso,
lascia andar li compagni, e sì passeggia
fin che si sfoghi l'affollar del casso, |
|
70 |
E come chi, stanco di
correre, lascia andare i compagni, e così riprende il
passo normale finché si calmi l'ansimare del petto, |
73 |
sì lasciò trapassar la
santa greggia
Forese, e dietro meco sen veniva,
dicendo: «Quando fia ch'io ti riveggia?». |
|
73 |
così Forese lasciò andar
oltre quella santa schiera, e procedeva dietro con me,
dicendo: «Quando avverrà che ti riveda?» |
76 |
«Non so», rispuos' io lui,
«quant' io mi viva;
ma già non fïa il tornar mio tantosto,
ch'io non sia col voler prima a la riva; |
|
76 |
Gli risposi: «Non so per
quanto tempo vivrò ancora; ma certo il mio ritorno qui
non sarà così prossimo, che io non anticipi prima col
desiderio la mia venuta alla riva del purgatorio, |
79 |
però che 'l loco u' fui a
viver posto,
di giorno in giorno più di ben si spolpa,
e a trista ruina par disposto». |
|
79 |
perché il luogo (Firenze)
dove fui posto a vivere, ogni giorno più s'impoverisce
d'ogni virtù, e appare avviato verso una miseranda
rovina». |
82 |
«Or va», diss' el; «che
quei che più n'ha colpa,
vegg' ïo a coda d'una bestia tratto
inver' la valle ove mai non si scolpa. |
|
82 |
«Orsù, fatti animo» egli
disse, «perché io vedo il maggior colpevole trascinato
dalla coda d'un cavallo verso la valle (l'inferno) dove
le colpe non vengono mai rimesse. |
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Forese allude alla morte del fratello Corso, del quale
non pronuncia il nome per un senso di pudore e orrore.
Corso, uomo violento ed ambizioso, podestà a Bologna e
altrove, fu tra i capi di parte nera a Firenze. Cacciato
quando Dante era priore (1300) , tornò in Firenze alla
venuta di Carlo di Valois e capeggiò i Neri nelle
vendette contro i Bianchi. Aspirando alla signoria
assoluta, si mise in contrasto con il suo partito e nel
1308 dovette fuggire dalla città, condannato come
traditore: ma fu preso e, mentre veniva ricondotto a
Firenze, presso San Salvi cadde da cavallo, e fu ucciso
dai mercenari catalani della Signoria (cfr. Villani -
Cronaca VIII, 96; Compagni - Cronaca III, 21) . L'accesa
fantasia di Dante trasforma il fatto di cronaca,
proiettandolo in un torbido alone di leggenda, dove
Corso Donati viene trascinato all'inferno, come un
traditore della patria, da un cavallo-demonio. |
85 |
La bestia ad ogne passo va
più ratto,
crescendo sempre, fin ch'ella il percuote,
e lascia il corpo vilmente disfatto. |
|
85 |
La bestia che lo trascina
accelera la corsa ad ogni passo, e la sua velocità
cresce sempre, finché lo percuote, e lascia il cadavere
ignominiosamente sfigurato. |
88 |
Non hanno molto a volger
quelle ruote»,
e drizzò li occhi al ciel, «che ti fia chiaro
ciò che 'l mio dir più dichiarar non puote. |
|
88 |
Non dovranno girare a
lungo quelle sfere (cioè: non passeranno molti anni)», e
alzò gli occhi al cielo, «prima che ti sarà manifesto
quello che le mie parole non possono dire più
chiaramente. |
91 |
Tu ti rimani omai; ché 'l
tempo è caro
in questo regno, sì ch'io perdo troppo
venendo teco sì a paro a paro». |
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91 |
Ormai resta pure indietro;
perché il tempo è prezioso in questo regno, e io ne
perdo troppo procedendo così al passo con te». |
94 |
Qual esce alcuna volta di
gualoppo
lo cavalier di schiera che cavalchi,
e va per farsi onor del primo intoppo, |
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94 |
Come talvolta da una
schiera di soldati a cavallo esce al galoppo un
cavaliere, e corre per avere l'onore del primo scontro
col nemico, |
97 |
tal si partì da noi con
maggior valchi;
e io rimasi in via con esso i due
che fuor del mondo sì gran marescalchi. |
|
97 |
allo stesso
modo si allontanò da noi Forese con passi più lunghi dei
nostri; e io restai per via insieme con i due poeti, che
furono così grandi maestri dell'umanità. |
100 |
E quando innanzi a noi
intrato fue,
che li occhi miei si fero a lui seguaci,
come la mente a le parole sue, |
|
100 |
E quando
Forese si fu allontanato davanti a noi, tanto che i miei
occhi lo seguirono a stento, così come a stento la mia
mente aveva seguito le sue oscure parole profetiche, |
103 |
parvermi i rami gravidi e
vivaci
d'un altro pomo, e non molto lontani
per esser pur allora vòlto in laci. |
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103 |
mi apparvero carichi di
frutti e verdi di fogliame i rami d'un altro albero, e
non molto lontani da me, essendomi io solo allora
voltato verso quella parte. |
106 |
Vidi gente sott' esso alzar
le mani
e gridar non so che verso le fronde,
quasi bramosi fantolini e vani |
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106 |
Sotto l'albero vidi della
gente alzare le mani, e gridare non so che cosa verso le
fronde, quasi fossero bambinetti golosi e ingenui, |
109 |
che pregano, e 'l pregato
non risponde,
ma, per fare esser ben la voglia acuta,
tien alto lor disio e nol nasconde. |
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109 |
che pregano mentre colui
che è pregato non risponde, ma tiene alto l'oggetto da
essi desiderato e non lo nasconde, per rendere sempre
più viva la loro brama. |
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Questa immagine così concreta, e tuttavia così percorsa
da una trepida delicatezza, degnamente conclude
l'incontro con le anime dei golosi, incontro sempre
dominato dalla presenza di Forese. Infatti tutti i
motivi che hanno definito, nel canto precedente, lo
svolgersi della prima parte dell'episodio di Forese
Donati vengono ripresi, in una non diversa disposizione
tonale, nella sua seconda parte in questo canto. Così
avviene ad esempio per il motivo che costituisce lo
sfondo, non già indifferenziato ed amorfo, non già
riconducibile, secondo un modulo crociano, a mere
esigenze della cosiddetta "struttura", di questa pagina:
la descrizione, dalla quale i temi dell'incontro tra i
due amici naturalmente scaturiscono, della magrezza
inimmaginabile in terra delle ombre dei golosi, Tale
descrizione risulta nel canto XXIV meno evidenziata,
meno analiticamente svolta che in quello precedente, per
motivi inerenti alla disposizione fondamentale del Poeta
di fronte alla materia trattata. La poetica di Dante è,
infatti, una poetica dell'azione e dell'ascesi, non
dell'indugio e della contemplazione ribadita ed
ossessiva e disperante di questo o quel l'aspetto del
reale. Dante non torna mai su un medesimo argomento
senza che la riproposizione di quest'ultimo non sia
motivata dalla necessità della narrazione, prima che da
esigenze di musicalità e di armonia delle parti, prima
cioè che da esigenze di stile Ecco perché nel canto XXIV
il tema della magrezza dei golosi, spietatamente
delineato in quello precedente (cfr. versi 22-33),
appare soltanto accennato in balenanti scorci, come
quello che compare in principio del canto (versi 4-5) -
e che costituisce la conclusione del singolare esordio
di questo, concepito, secondo quanto rileva il Gallardo,
"come un inciso di carattere descrittivo tra le ultime
parole dette da Dante alla fine del canto XXIII e la
continuazione, che non presuppone alcuna interruzione,
dei versi seguenti" - e quello, indiretto, ma
altrettanto evidente che mostra per l'ultima volta le
ombre del sesto girone (versi 106-111). |
112 |
Poi si partì sì come
ricreduta;
e noi venimmo al grande arbore adesso,
che tanti prieghi e lagrime rifiuta. |
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112 |
Poi quella gente si
allontanò come disingannata; e noi ci avvicinammo subito
al grande albero, che rifiuta di esaudire tante
preghiere e lagrime. |
115 |
«Trapassate oltre sanza
farvi presso:
legno è più sù che fu morso da Eva,
e questa pianta si levò da esso». |
|
115 |
«Passate oltre senza
avvicinarvi: più in alto (nel paradiso terrestre) vi è
un altro albero il cui frutto fu gustato da Eva, e
quest'albero derivò da quello.» |
118 |
Sì tra le frasche non so
chi diceva;
per che Virgilio e Stazio e io, ristretti,
oltre andavam dal lato che si leva. |
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118 |
Così parlava una voce
nascosta tra le fronde; per questo Virgilio, Stazio ed
io, tenendoci stretti, procedevamo lungo la parete del
monte. |
121 |
«Ricordivi», dicea, «d'i
maladetti
nei nuvoli formati, che, satolli,
Tesëo combatter co' doppi petti; |
|
121 |
Diceva: «Ricordatevi dei
maledetti Centauri, figli della nuvola, che, ebbri,
combatterono contro Teseo con i loro petti umani ed
equini; |
|
I Centauri, figli di Issione e di Nefele (la nuvola cui
Giove aveva dato le sembianze di Giunone), di natura
equina nella parte inferiore del corpo, di natura umana
in quella superiore (cfr. Inferno XII, 56 sgg.), sono
qui ricordati per l'intemperanza dimostrata durante il
banchetto per le nozze di Piritoo, re dei Lapiti, con
Ippodamia: in preda ai fumi del vino, tentarono di
rapire la sposa e le altre donne; ma furono vinti e in
gran parte uccisi dai Lapiti guidati da Teseo (cfr.
Ovidio - Metamorfosi XIII, 210-535). |
124 |
e de li Ebrei ch'al ber si
mostrar molli,
per che no i volle Gedeon compagni,
quando inver' Madïan discese i colli». |
|
124 |
e degli Ebrei che si mostrarono ingordi
nel bere, e per questo Gedeone non li volle come
compagni, quando discese dai monti contro i Madianiti». |
|
Il secondo esempio di gola punita ricorda un episodio
biblico avvenuto durante la guerra degli Ebrei contro i
Madianiti: Gedeone, il condottiero ebraico, per ordine
di Dio scelse a combattere solo trecento soldati che,
alla fonte di Arad, erano stati temperanti nel bere
portando l'acqua alla bocca con la mano, ed escluse gli
altri che si mostrar molli inginocchiandosi e tuffando
le labbra nell'acqua per bere abbondantemente (cfr.
Giudici VI, ll; VII, 25). |
127 |
Sì accostati a l'un d'i due
vivagni
passammo, udendo colpe de la gola
seguite già da miseri guadagni. |
|
127 |
Cosi accostati a uno dei
due orli della cornice passammo oltre, udendo ricordare
esempi di golosità, seguiti sempre da tristi castighi. |
130 |
Poi, rallargati per la
strada sola,
ben mille passi e più ci portar oltre,
contemplando ciascun sanza parola. |
|
130 |
Poi, distanziati un po'
l'uno daIl'altro nella strada deserta, procedemmo oltre
di ben mille passi e più, ciascuno meditando in
silenzio. |
133 |
«Che andate pensando sì voi
sol tre?».
sùbita voce disse; ond' io mi scossi
come fan bestie spaventate e poltre. |
|
133 |
Una voce improvvisa ci
disse: «Che cosa state pensando voi tre così solitari?»;
perciò io mi scossi come fanno le bestie giovani quando
vengono spaventate. |
136 |
Drizzai la testa per veder
chi fossi;
e già mai non si videro in fornace
vetri o metalli sì lucenti e rossi, |
|
136 |
Alzai il capo per veder
chi fosse (colui che aveva parlato); e mai furono visti
in una fornace vetri o metalli cosi fulgenti e
incandescenti, |
139 |
com' io vidi un che dicea:
«S'a voi piace
montare in sù, qui si convien dar volta;
quinci si va chi vuole andar per pace». |
|
139 |
com'era l'angelo che io
vidi mentre diceva: «Se gradite salire, è necessario
svoltare qui; da questa parte va chi vuole andare verso
la pace del cielo». |
142 |
L'aspetto suo m'avea la
vista tolta;
per ch'io mi volsi dietro a' miei dottori,
com' om che va secondo ch'elli ascolta. |
|
142 |
Il suo aspetto mi aveva
abbagliato la vista; e per questo io voltai (a sinistra)
dietro ai miei due maestri, come un cieco che cammina
seguendo la voce che ode. |
145 |
E quale, annunziatrice de
li albori,
l'aura di maggio movesi e olezza,
tutta impregnata da l'erba e da' fiori; |
|
145 |
E quale il venticello di
maggio, che annuncia il prossimo albeggiare, si leva ed
è olezzante, perché tutto impregnato del profumo
dell'erba e dei fiori, |
148 |
tal mi senti' un vento dar
per mezza
la fronte, e ben senti' mover la piuma,
che fé sentir d'ambrosïa l'orezza. |
|
148 |
tale fu il vento che
sentii colpirmi in mezzo alla fronte, e sentii
distintamente muoversi l'ala, la quale fece sì che
l'aria odorasse d'ambrosia. |
151 |
E senti' dir: «Beati cui
alluma
tanto di grazia, che l'amor del gusto
nel petto lor troppo disir non fuma, |
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151 |
E udii dire: «Beati quelli
ai quali splende tanta grazia, che il piacere della gola
non eccita nel loro petto un desiderio eccessivo, |
154 |
esurïendo sempre quanto è
giusto!». |
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154 |
provando sempre fame
soltanto della giustizia!» |
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L'angelo della temperanza parafrasa e adatta ai golosi
una parte della quarta beatitudine: "Beati qui esurtunt...
iustitiam": "Beati quelli che hanno fame... di
giustizia" (Matteo V, 6), già applicata agli avari (cfr.
Purgatorio XXII, 4-6). |
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