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DIVINA
COMMEDIA: PARAFRASI
PURGATORIO
CANTO XXVII° |
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1 |
Sì come
quando i primi raggi vibra
là dove il suo fattor lo sangue sparse,
cadendo Ibero sotto l'alta Libra, |
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1 |
In quella posizione nella quale manda i suoi primi raggi
sulla città (là: a Gerusalemme) nella quale il suo
Creatore sparse il sangue (per la salvezza degli
uomini), mentre l'Ebro si trova (cadendo) sotto la
costellazione della Libra alta nel cielo, |
4 |
e l'onde in
Gange da nona rïarse,
sì stava il sole; onde 'l giorno sen giva,
come l'angel di Dio lieto ci apparse. |
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4 |
e le acque del Gange sono
riarse dal calore del mezzogiorno, in questa posizione
si trovava il sole nel purgatorio; per la qual cosa il
giorno tramontava, allorché ci apparve l'angelo di Dio
splendente di gioia. |
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Dante, attraverso questa complessa similitudine, vuole
spiegare che nel purgatorio è l'ora del tramonto, mentre
agli antipodi, a Gerusalemme, è l'alba. Nei due punti
estremi del mondo suona la mezzanotte in Spagna - dove
il fiume Ebro è a 90° di longitudine ovest da
Gerusalemme, e si trova in questo momento sotto la
costellazione della Libra - e il mezzogiorno sul fiume
Gange, in India, posta a 90° di longitudine est da
Gerusalemme. Anche se l'ora nona corrispondeva alle 3
pomeridiane, l'espressione nona veniva usata comunemente
per indicare il mezzogiorno.
Come quelli dei canti II, IX, XV, XIX, XXV, anche questo
esordio determina l'ora del sacro monte attraverso una
serie di riferimenti alla posizione degli astri in
rapporto alla terra. L'astronomia è elemento non
trascurabile nella poesia della Commedia, non solo, come
rileva il Momigliano, perché "questi sguardi rivolti
alle rivoluzioni degli astri accrescono la solennità
dell'ascesa di Dante e ne approfondiscono il significato
spirituale", ma anche in quanto risulta "parte
essenziale della concezione totale di un mondo fisico,
morale e poetico, ed ha anche una funzione squisitamente
artistica per le immagini peregrine che richiama e
persino per la possibilità che offre di arricchimento
del linguaggio e delle immagini, con l'introduzione di
vocaboli suggestivi, di luoghi, di astri, di vocaboli
anche tecnici, il cui valore nella poesia Dante artista
ben sapeva valutare" (Gallardo). Naturalmente occorre
sempre tener presente che in Dante l'immagine peregrina
o il dato tecnico non sono mai assunti gratuitamente,
per la capacità che è in essi di stupire, ma si
giustificano pienamente nello stile alto o «tragico»,
che acquista rilievo sempre più evidente a mano a mano
che la narrazione porta il pellegrino ad allontanarsi
dalle regioni del « comico »: la terra abitata e
l'inferno che di essa rappresenta una contraffazione in
chiave sarcastica e caricaturale.
Le due terzine iniziali di questo canto sono
caratterizzate, nei primi quattro versi, da un'estrema
concentrazione espressiva; quest'ultima si scioglie
nelle cadenze più riposate con cui, nei versi 5 e 6, ha
inizio la narrazione.
La capacità di sintesi del Poeta si riflette nella
compagine sintattica retta dalla comparativa sì come...
(in particolare nelle forme echeggianti l'ablativo
assoluto latino, dei versi 3 e 4) non meno che nel
robusto impasto lessicale. Quest'ultimo conferisce
intensa vitalità ad aspetti del mondo che siamo
solitamente portati a considerare, se non in termini di
stasi, in termini di moto lentissimo: il sole,
attraverso una mediazione di origine classica (nella
mitologia il dio solare era munito di faretra e di
frecce), aggredisce con violenza il mondo nel momento in
cui sorge (i primi raggi vibra), mentre la posizione
dell'Ebro rispetto al cielo delle stelle fisse è
suggerita in termini di un moto energico e quasi
disperato - come un inabissarsi nel buio (cadendo libero
sotto l'alta Libra) - e quella del Gange propone
nuovamente, in riarse, il motivo della luce diurna
considerata come una forza irresistibile ed insaziata.
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7 |
Fuor de la
fiamma stava in su la riva,
e cantava 'Beati mundo corde!'
in voce assai più che la nostra viva. |
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7 |
Stava sull'orlo della
cornice al di fuori del fuoco, e cantava «Beati i puri
di cuore! (la sesta beatitudine evangelica: cfr. Matteo
V, 8)» con una voce assai più chiara di quella umana. |
10 |
Poscia «Più
non si va, se pria non morde,
anime sante, il foco: intrate in esso,
e al cantar di là non siate sorde», |
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10 |
Poi «Non si può procedere
oltre, anime sante, se prima il fuoco non fa sentire il
suo morso: entrate in esso, e ascoltate il canto che si
ode al di là delle fiamme», |
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È chiaro che, l'osservazione dell'angelo non è limitata
ai tre poeti, ma si estende a tutte le anime del
purgatorio che, compiuta la loro purificazione, sono
finalmente ritenute degne del paradiso. Le fiamme del
settimo girone adempiono così ad un duplice compito:
esse costituiscono la pena per i lussuriosi e
concludono, attraverso un'ultima sofferenza, tutto il
ciclo di espiazione dell'anima redenta (con il fuoco,
del resto, Dante ha sintetizzato i tormenti del
purgatorio: cfr. Interno I, versi 118-120); il passaggio
attraverso il fuoco simboleggerebbe cosi "il ritorno
dell'uomo allo stato di innocenza primitiva" (Nardi)
prima dell'ingresso nel paradiso. Occorre inoltre
ricordare che, secondo una tradizione patristica e
medievale, la spada fiammeggiante impugnata dai
Cherubini posti da Dio a guardia del paradiso terrestre
dopo la cacciata di Adamo ed Eva (Genesi III, 24), deve
essere interpretata come un muro di fuoco che chiuse
l'Eden dopo il peccato originale. |
13 |
ci disse
come noi li fummo presso;
per ch'io divenni tal, quando lo 'ntesi,
qual è colui che ne la fossa è messo. |
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13 |
ci disse non appena gli fummo vicino: per la qual cosa
io, quando intesi le sue parole, divenni pallido e
gelido come un cadavere (qual è colui che nella fossa è
messo). |
16 |
In su le man
commesse mi protesi,
guardando il foco e imaginando forte
umani corpi già veduti accesi. |
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16 |
Tenendo con le mani giunte
il mio corpo piegato indietro mi protesi in avanti (con
lo sguardo), scrutando il fuoco e immaginando con
estrema lucidità corpi umani già veduti bruciare sul
rogo. |
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Corpi... accesi; la condanna al rogo era frequente nel
medioevo. Dante stesso vi era stato condannato in
contumacia a Firenze il 10 marzo 1302. |
19 |
Volsersi
verso me le buone scorte;
e Virgilio mi disse: «Figliuol mio,
qui può esser tormento, ma non morte. |
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19 |
Le mie
valenti guide si volsero verso di me: e Virgilio mi
disse: «Figlio mio, nel purgatorio può esserci tormento,
ma non morte. |
22 |
Ricorditi,
ricorditi! E se io
sovresso Gerïon ti guidai salvo,
che farò ora presso più a Dio? |
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22 |
Ricordati, ricordati! E se io ti ho guidato in salvo
persino sul dorso di Gerione, che cosa non farò ora che
sono più vicino al mondo della Grazia? |
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Virgilio, per rincuorare Dante ed esortarlo ad avere la
massima fiducia nel suo maestro, gli ricorda l'episodio
più significativo fra i tanti, nel quale il suo
intervento ha aiutato il discepolo a superare il
pericolo e la paura: allorché lo portò sul dorso di
Gerione (Inferno XVII, 1 sgg.), il simbolo stesso della
frode. |
25 |
Credi per
certo che se dentro a l'alvo
di questa fiamma stessi ben mille anni,
non ti potrebbe far d'un capel calvo. |
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25 |
Sappi per certo che se anche tu rimanessi ben mille anni
in mezzo a questo fuoco, esso non potrebbe privarti
neppure di un capello. |
28 |
E se tu
forse credi ch'io t'inganni,
fatti ver' lei, e fatti far credenza
con le tue mani al lembo d'i tuoi panni. |
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28 |
E se tu forse credi che io
ti inganni, avvicinati alla fiamma, e fatti dare una
prova (della verità delle mie parole) dal lembo della
tua veste (accostandolo al fuoco) con le tue mani. |
31 |
Pon giù
omai, pon giù ogne temenza;
volgiti in qua e vieni: entra sicuro!».
E io pur fermo e contra coscïenza. |
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31 |
Deponi ormai, deponi ogni
timore: volgiti da questa parte: vieni ed entra sicuro!»
Ed io ostinatamente fermo e ciò contro la voce della
coscienza (che mi comandava di ubbidire a Virgilio). |
34 |
Quando mi
vide star pur fermo e duro,
turbato un poco disse: «Or vedi, figlio:
tra Bëatrice e te è questo muro». |
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34 |
Quando mi vide continuare
a stare fermo e duro, un poco turbato, disse: «Pensa
ora, figlio: solo questo ostacolo ti divide da
Beatrice». |
37 |
Come al nome
di Tisbe aperse il ciglio
Piramo in su la morte, e riguardolla,
allor che 'l gelso diventò vermiglio; |
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37 |
Come Piramo morente aperse
gli occhi davanti a Tisbe che gli gridava il proprio
nome, e la guardò, nel momento in cui il gelso divenne
vermiglio, |
40 |
così, la mia
durezza fatta solla,
mi volsi al savio duca, udendo il nome
che ne la mente sempre mi rampolla. |
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40 |
(rianimandomi) allo stesso
modo, mentre la mia ostinazione cedeva, mi volsi verso
la mia saggia guida, udendo il nome di Beatrice che mi
risorge sempre nella mente. |
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La leggenda di Piramo e Tisbe è narrata da Ovidio nelle
sue Metamorfosi (IV, 55-166). I due giovani babilonesi,
il cui amore era ostacolato dalle rispettive famiglie,
si diedero convegno sotto un gelso. Tisbe, arrivata per
prima, fu costretta a fuggire dalla comparsa improvvisa
di una leonessa, abbandonando sul luogo un velo, che la
belva poi macchiò di sangue. Quando Piramo sopraggiunse,
credendo che Tisbe fosse stata divorata, si gettò sulla
propria spada, e così lo trovò la fanciulla nel
frattempo ritornata; il giovane aprì per l'ultima volta
gli occhi di fronte a Tisbe che gli diceva il proprio
nome, mentre il suo sangue impregnava le radici del
gelso, che da quel momento mutò i suoi frutti da bianchi
in vermigli.
Il riferimento al mito trattato da Ovidio - colto
nell'attimo del suo tragico epilogo, in quello che ne è
il tratto più significativo - introduce ad un momento di
viva commozione, che ha le sue radici in un fondo
autobiografico (versi 40-42). Questo è il momento in cui
la poesia si afferma con maggiore evidenza nella scena
simbolica che vede Dante opporsi alle ultime esortazioni
del suo maestro. Vanamente i critici hanno tentato di
ridurre ad un comune denominatore tonale - ad una
formula che lo legittimasse sul piano di una
considerazione dei valori artistici - questo episodio.
"Dov'è l'unità artistica in questa scena - si domanda il
Leo - che con i suoi momenti stilistici idilliaci, anzi
talvolta addirittura scherzosi, affiancati d'altra parte
anche a momenti stilistici sublimi, sulle prime non può
apparire che come qualcosa di cangiante?" In realtà la
scena non riesce ad avere una sua unità formale, perché
il Poeta non l'ha concepita come qualcosa di unitario,
ma ha tenuto presenti ora le esigenze di una forte
accentuazione simbolica, ora quelle di una concretezza
che, nei modi in cui è affermata (ad esempio nei
riferimenti dei versi 14-18), appare chiusa ad ogni
allusività, ad ogni mistero. Pertanto l'ingegnosa
soluzione proposta dal Leo all'interrogativo sopra
citato appare scarsamente persuasiva. Per il Leo il
fondamento estetico di questa scena starebbe "nella
segreta intenzione del Poeta di porre un anticipato
interrogativo di fronte al verso: libero, dritto e sano
è tuo arbitrio". Per questo studioso "la dichiarazione
di maggiorità da parte di Virgilio (versi 127 sgg.) e la
fiducia propria del viandante nella sua raggiunta «
maturità », sono una «umanistica illusione» dei due, «
che il Poeta ha già riconosciuto come tale»... Virgilio
nella sua idilliaca illusione dirà (verso 136) mentre
che vegnan lieti gli occhi belli... ma i veri occhi di
Beatrice non verranno lieti, bensì sprizzanti ira e
disprezzo, di fronte ad un tribunale del quale né
Virgilio né il suo allievo, sotto l'influsso del loro
intelletto naturale, potevano nulla prevedere. Ma il
Poeta lo sa: ed il lettore già nel nostro canto deve
presentirlo, in passi come quello, (verso 33) quasi
comicamente disperato: ed io pur fermo e contra
coscienza". La conclusione del Leo - che una lettura
attenta di questa pagina non consente di accettare per
valida - è che "ciò che sembrava essere un non organico
miscuglio stilistico, si dimostra invece come una
unitaria espressione di uno stato d'animo tra
l'illusione e la realtà... lo stato d'animo di colui che
è stato dichiarato maggiorenne, ma che in segreto si è
accorto di non esserlo ancora". |
43 |
Ond' ei
crollò la fronte e disse: «Come!
volenci star di qua?»; indi sorrise
come al fanciul si fa ch'è vinto al pome. |
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43 |
Per questo egli scosse il
capo e disse: «Come! ce ne vogliamo ancora star di
qua?»; poi sorrise come si sorride al bambino che si
lascia convincere con la promessa di un frutto. |
46 |
Poi dentro
al foco innanzi mi si mise,
pregando Stazio che venisse retro,
che pria per lunga strada ci divise. |
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46 |
Poi entrò nel fuoco
davanti a me, pregando Stazio di venire dietro, mentre
prima ci aveva diviso per un lungo tratto di cammino
(procedendo in mezzo a noi). |
49 |
Sì com' fui
dentro, in un bogliente vetro
gittato mi sarei per rinfrescarmi,
tant' era ivi lo 'ncendio sanza metro. |
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49 |
Non appena mi trovai in
mezzo alle fiamme, mi sarei gettato in un vetro
incandescente per rinfrescarmi, tanto smisurato era il
calore lì dentro. |
52 |
Lo dolce
padre mio, per confortarmi,
pur di Beatrice ragionando andava,
dicendo: «Li occhi suoi già veder parmi». |
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52 |
Il dolce padre, per
confortarmi, continuava a parlare sempre di Beatrice,
dicendo: «Mi sembra già di vedere i suoi occhi». |
55 |
Guidavaci
una voce che cantava
di là; e noi, attenti pur a lei,
venimmo fuor là ove si montava. |
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55 |
Ci guidava una voce che
cantava dall'altra parte del fuoco; e noi, prestando
attenzione solo a lei, giungemmo fuori della fiamma nel
punto in cui si riprendeva a salire. |
58 |
'Venite,
benedicti Patris mei',
sonò dentro a un lume che lì era,
tal che mi vinse e guardar nol potei. |
|
58 |
«Venite, o benedetti del
Padre mio (le parole che Cristo rivolgerà agli eletti:
cfr. Matteo XXV, 34)», risuonò dentro una luce lì
apparsa, così abbagliante, che sopraffece la mia vista e
non la potei guardare. |
61 |
«Lo sol sen
va», soggiunse, «e vien la sera;
non v'arrestate, ma studiate il passo,
mentre che l'occidente non si annera». |
|
61 |
«Il sole tramonta»
soggiunse, «e scende la sera: non vi fermate, ma
affrettate il passo, finché la parte occidentale del
cielo non diventi completamente buia.» |
64 |
Dritta salia
la via per entro 'l sasso
verso tal parte ch'io toglieva i raggi
dinanzi a me del sol ch'era già basso. |
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64 |
La scala scavata nella
roccia saliva diritta verso levante cosicché io
interrompevo davanti a me (con la mia ombra) i raggi del
sole ormai basso all'orizzonte. |
67 |
E di pochi
scaglion levammo i saggi,
che 'l sol corcar, per l'ombra che si spense,
sentimmo dietro e io e li miei saggi. |
|
67 |
E avemmo il tempo di
sperimentare pochi gradini di quella scala, che io e le
mie guide ci accorgemmo che il sole era tramontato
dietro alle nostre spalle, per il fatto che l'ombra
(proiettata dal mio corpo) era scomparsa (con lo
scomparire del sole). |
70 |
E pria che
'n tutte le sue parti immense
fosse orizzonte fatto d'uno aspetto,
e notte avesse tutte sue dispense, |
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70 |
E prima che l'orizzonte
avesse assunto in tutta la sua estensione, un medesimo
colore (diventando scuro), e la notte avesse occupato
(con le sue tenebre) tutte le zone a lei assegnate, |
73 |
ciascun di
noi d'un grado fece letto;
ché la natura del monte ci affranse
la possa del salir più e 'l diletto. |
|
73 |
ciascuno di noi si coricò
su un gradino; poiché la legge particolare del monte (in
base alla quale è vietato salire dopo il tramonto del
sole: cfr. canto VII, 43-57) ci tolse la possibilità e
la gioia di salire oltre. |
76 |
Quali si
stanno ruminando manse
le capre, state rapide e proterve
sovra le cime avante che sien pranse, |
|
76 |
Quali rimangono tranquille
a ruminare le capre, che sono apparse scattanti e ardite
sulle balze del monte prima di essersi satollate, |
79 |
tacite a
l'ombra, mentre che 'l sol ferve,
guardate dal pastor, che 'n su la verga
poggiato s'è e lor di posa serve; |
|
79 |
sorvegliate dal pastore
mentre se ne stanno silenziose all'ombra, intanto che il
sole arde (ferve: intorno al mezzogiorno), e il pastore
si è appoggiato sul suo bastone e, anche stando così
appoggiato, continua a fare loro la guardia; |
82 |
e quale il
mandrïan che fori alberga,
lungo il pecuglio suo queto pernotta,
guardando perché fiera non lo sperga; |
|
82 |
e quale il custode della
mandria che rimane lontano dall'abitato, passa la notte
accanto al suo gregge addormentato, vigilando perché
qualche animale predatore non lo disperda, |
85 |
tali eravamo
tutti e tre allotta,
io come capra, ed ei come pastori,
fasciati quinci e quindi d'alta grotta. |
|
85 |
allo stesso modo ce ne
stavamo allora tutti e tre, io (prossimo al sonno e
tranquillo) come una capra, ed essi (pronti a vigilare)
come i pastori, chiusi e protetti da una parte e
dall'altra dall'alta parete della roccia. |
88 |
Poco parer
potea lì del di fori;
ma, per quel poco, vedea io le stelle
di lor solere e più chiare e maggiori. |
|
88 |
Da lì si poteva scorgere
solo una piccola parte di cielo; ma, per quel poco (che
era possibile osservare), io vedevo le stelle più
luminose (per la trasparenza e la finezza dell'aria a
quell'altezza) e più grandi (per il fatto che sono
guardate dalla cima dell'alto monte del purgatorio) del
solito. |
91 |
Sì ruminando
e sì mirando in quelle,
mi prese il sonno; il sonno che sovente,
anzi che 'l fatto sia, sa le novelle. |
|
91 |
Così pensando e fissando
lo sguardo sulle stelle, fui preso dal sonno; quel sonno
che spesso preannuncia gli eventi futuri, prima che essi
effettivamente accadano. |
|
Ancora una volta Dante ricorda il valore profetico dei
sogni, soprattutto quando essi avvengono all'alba: cfr.
Inferno XXVI, 7; Purgatorio IX, 16-18.
È stato osservato dalla critica più consapevole che le
immagini, in apparenza bucoliche, che suggeriscono la
subordinazione di Dante nei confronti delle due guide
che vigilano sul suo sonno, durante l'ultima notte da
lui trascorsa in purgatorio, non hanno nulla di
estrinseco rispetto alla trama decisamente simbolica del
canto, riuscendo anzi ad inserirsi in essa con una
grandiosità insospettata di accenti. Il tramonto non è
descritto, nei versi 70-72, come puro spettacolo, né,
come altrove, dà luogo a sviluppi elegiaci. Lo sguardo
del Poeta lo abbraccia nel suo insieme, nel suo
significato più essenziale ed arcano: ogni differenza
che la luce istituisce fra gli aspetti del visibile si
dilegua - quasi fosse mera apparenza - al sopravvenire
delle tenebre (fosse orizzonte fatto d'uno aspetto). AI
particolareggiato articolarsi di forme e colori che i
nostri occhi percepiscono durante il giorno si
sostituisce una vastità di spazi uniformi, tali da
suggerire l'idea di un cosmo compatto, indifferenziato.
Il mondo, in questa disposizione dell'animo, è colto
come totalità illimitata: 'n tutte le sue parti
immense... tutte sue dispense. Il sentimento che
ingenera in Dante questa contemplazione non è tuttavia,
come accadrà per più di uno scrittore di epoche a noi
più prossime, di angosciato terrore, ma di fiducia. Egli
non si sente un estraneo in una natura che non lo
comprende o che gli riesce incomprensibile, ma partecipa
di questa natura, si sente in accordo con essa. Il
significato di questa notte è in lui: è una notte di
preparazione e di attesa, il preludio di un giorno che
non conoscerà interruzioni di tenebre. Su di lui
vigilano due ordini di pensiero, due forme di sapienza -
Virgilio, la sapienza pagana, Stazio, la medesima
sapienza pagana rischiarata dalla Rivelazione - che si
sono mostrate guide sicure e hanno sciolto efficace.
mente i suoi dubbi: per questo il suo sonno può essere
tranquillo. Dante è qui l'anima non ancora pervenuta a
piena consapevolezza di sé: il suo meditare è visto in
termini di accentuata umiltà, assimilato com'è al
mansueto ruminare delle capre (verso 91). |
94 |
Ne l'ora,
credo, che de l'orïente
prima raggiò nel monte Citerea,
che di foco d'amor par sempre ardente, |
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94 |
Nell'ora (che precede
l'alba), credo, durante la quale dall'oriente cominciò a
splendere sul monte del purgatorio il pianeta Venere
(Citerea), che pare sempre ardere del fuoco d'amore, |
97 |
giovane e
bella in sogno mi parea
donna vedere andar per una landa
cogliendo fiori; e cantando dicea: |
|
97 |
in sogno mi
pareva di vedere una donna giovane e bella, che andava
cogliendo fiori in una distesa erbosa, e che cantando
diceva: |
|
Il sogno di Dante, essendosi rivelato veritiero, deve
essere avvenuto nelle prime ore dell'alba, perché,
secondo la nota credenza medievale, i fatti sognati
durante questo periodo corrispondono sempre alla realtà.
Per questo il Poeta precisa che il pianeta Venere (qui
chiamato Citerea, perché la dea era considerata regina
di Citera, un'isola del mar Ionio, presso la quale era
nata e dove riceveva un culto particolare) sta spuntando
all'orizzonte del purgatorio e precede di poco il
sorgere del sole (cfr. Purgatorio I, versi 19-21).
Lia fu la figlia maggiore di Labano e prima moglie di
Giacobbe: non bella ma feconda, è considerata, nella
lunga tradizione dell'esegesi biblica, il simbolo della
vita attiva. Sua sorella Rachele (versi 104 sgg.),
seconda moglie di Giacobbe, fu invece bella ma sterile,
e rappresenta la vita contemplativa.
Dante, seguendo San Tommaso, afferma che "l'uso del
nostro animo è doppio, cioè pratico e speculativo...
Quello del pratico si è operare per noi virtuosamente,
cioè onestamente, con prudenza, con temperanza, con
fortezza e con giustizia; quello de lo speculativo si è
non operare per noi, ma considerare l'opere di Dio e de
la natura" (Convivio IV, XXII, 10-11). La vita attiva
realizza la perfezione e la felicità temporale
attraverso l'esplicazione delle virtù: Lia, infatti, va
cogliendo fiori e movendo intorno le belle mani a tarmi
una ghirlanda, per simboleggiare l'attività volta al
bene. La vita contemplativa ha come suo fine il
raggiungimento della beatitudine eterna, attraverso la
conoscenza della verità. Per questo Rachele è de' suoi
belli occhi veder vaga: la "filosofia, ché è... amoroso
uso di sapienza. se medesima riguarda", poiché "l'anima
filosofante non solamente contempla essa veritade, ma
ancora contempla lo suo contemplare medesimo e la
bellezza di quello, rivolgendosi sovra se stessa e di se
stessa innamorando" (Convivio IV, II, 18). II fatto che
Lia e Rachele sono sorelle sottolinea che la vita attiva
e quella contemplativa, pur essendo distinte, non
possono essere separate: il momento contemplativo
racchiude un valore più grande, ma sottintende il
compimento di quello attivo (cfr.;. Convivio II, IV,
10-11, IV, XVII; 9-12; Monarchia I, III, 9). Lia e
Rachele prefigurano le due donne che appariranno a Dante
nel paradiso terrestre: Matelda, forse simbolo della
felicità terrena, e Beatrice, che prepara alla felicità
suprema in Dio. Il Mattalia osserva che "l'arrivo al
purgatorio conclude la fase pratica o attiva, percorsa
sotto la guida di Virgilio (Ragione - Etica razionale -
Autorità imperiale); la seconda fase si svolge sotto la
guida di Beatrice (Rivelazione - Teologia - Magistero
religioso e dottrinale della Chiesa)". |
100 |
«Sappia
qualunque il mio nome dimanda
ch'i' mi son Lia, e vo movendo intorno
le belle mani a farmi una ghirlanda. |
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100 |
«Chiunque
domanda il mio nome sappia che io sono Lia, e vado
muovendo intorno a me le mie belle mani per farmi una
ghirlanda. |
103 |
Per piacermi
a lo specchio, qui m'addorno;
ma mia suora Rachel mai non si smaga
dal suo miraglio, e siede tutto giorno. |
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103 |
Qui io mi adorno (di
fiori) per potermi compiacere guardandomi allo specchio;
ma mia sorella Rachele non distoglie mai l'occhio dal
suo specchio, e sempre siede davanti ad esso. |
106 |
Ell' è d'i
suoi belli occhi veder vaga
com' io de l'addornarmi con le mani;
lei lo vedere, e me l'ovrare appaga». |
|
106 |
Ella è tanto, desiderosa
di contemplare i suoi begli occhi, come io di adornarmi
con le mie mani; lei trova il suo appagamento nel
contemplare, ed io nell'operare». |
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I tre sogni che Dante ha nel purgatorio (canto IX, versi
13-33; canto XIX, versi 1-33; canto XXVII, versi 94-108)
sono introdotti dalla medesima espressione (nell'ora...
), cui fa seguito una determinazione cronologica svolta
in modo indiretto, attraverso una forma perifrastica.
Tale determinazione vincola quanto in un sogno può
esserci di irreale è sfuggente alle leggi inalterabili
che governano l'universo, portando in tal modo la
vicenda occorsa al pellegrino sullo stesso piano di
necessità di queste ultime, in quanto sia le prime che
la seconda emanano dalla volontà di Dio.
In questo terzo sogno di Dante sono stati riscontrati
echi di un comporre decisamente stilnovistico. Le figure
di Lia e di Rachele possono infatti ricordare, per
l'indeterminatezza e la leggiadria dei loro tratti,
figure analoghe della Vita Nova o di altri componimenti
giovanili di Dante. "La bellezza, tra musicale e
fiabesca, della rappresentazione delle due sorelle deve
essere intesa nei limiti di una perfetta stilizzazione,
che prende rilievo dalla studiata simmetria delle
immagini e dei simboli ad esse inerenti: la ghirlanda e
il miraglio, le mani e gli occhi, l'ovrare e il vedere."
(Sapegno) La struttura sintattica è tuttavia qui assai
più elaborata e complessa che nei componimenti del
periodo dello stìl novo, onde la parentesi di questo
sogno felice non turba la continuità dell'impegno
stilistico - espressione diretta di un corrispondente
impegno morale - che caratterizza il canto nel suo
insieme. In particolare, per quel che riguarda la
presentazione della figura dì Lia, il Contini trova
nella terzina 97 non un "agevole melodismo", ma una
vigorosa ripresa di forme sintattiche latine. Queste
ultime conferiscono al passo una solidità di struttura
che non è dato riscontrare nelle rime dello stil novo. |
109 |
E già per li
splendori antelucani,
che tanto a' pellegrin surgon più grati,
quanto, tornando, albergan men lontani, |
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109 |
E già per il chiarore
dell'alba, il quale sorge tanto più gradito ai
pellegrini, quanto più, nel ritorno, hanno pernottato
vicino al luogo natio, |
112 |
le tenebre
fuggian da tutti lati,
e 'l sonno mio con esse; ond' io leva'mi,
veggendo i gran maestri già levati. |
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112 |
le tenebre fuggivano da
tutte le parti (lati), e con esse scompariva il mio
sonno; per cui io, vedendo i due grandi maestri già in
piedi, mi alzai. |
115 |
«Quel dolce
pome che per tanti rami
cercando va la cura de' mortali,
oggi porrà in pace le tue fami». |
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115 |
«Quel dolce frutto della
felicità che per tante vie gli uomini vanno cercando
affannosamente, oggi
placherà tutti i tuoi desideri.» |
118 |
Virgilio
inverso me queste cotali
parole usò; e mai non furo strenne
che fosser di piacere a queste iguali. |
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118 |
Virgilio disse queste
solenni parole rivolto a me; e non ci furono mai buone
novelle che mi procurassero un piacere uguale a quello
che allora provai. |
121 |
Tanto voler
sopra voler mi venne
de l'esser sù, ch'ad ogne passo poi
al volo mi sentia crescer le penne. |
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121 |
Un così grande desiderio
mi si aggiunse al precedente desiderio di pervenire
sulla cima, che poi ad ogni passo mi sentivo crescere lo
slancio per la salita. |
124 |
Come la
scala tutta sotto noi
fu corsa e fummo in su 'l grado superno,
in me ficcò Virgilio li occhi suoi, |
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124 |
Dopo aver compiuto di
corsa tutta la scala sotto di noi ed essere giunti sul
gradino più alto, Virgilio fissò intensamente i suoi
occhi su di me, |
127 |
e disse: «Il
temporal foco e l'etterno
veduto hai, figlio; e se' venuto in parte
dov' io per me più oltre non discerno. |
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127 |
e disse: «Figlio, hai
visto le pene temporanee (del purgatorio) e quelle
eterne (dell'inferno); e sei giunto in un luogo dove io
con le mie sole forze non distinguo più oltre (il
cammino). |
130 |
Tratto t'ho
qui con ingegno e con arte;
lo tuo piacere omai prendi per duce;
fuor se' de l'erte vie, fuor se' de l'arte. |
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130 |
Ti ho condotto fin qui con
l'intelligenza e con l'applicazione pratica di essa;
prendi ormai per guida la tua naturale inclinazione (che
ti porterà verso il bene): sei fuori dalle vie ripide,
sei fuori dalle vie strette (cioè: ogni difficoltà è
stata superata). |
133 |
Vedi lo sol
che 'n fronte ti riluce;
vedi l'erbette, i fiori e li arbuscelli
che qui la terra sol da sé produce. |
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133 |
Vedi il sole che ti
illumina la fronte; vedi l'erbetta, i fiori e gli
arboscelli, che qui la terra produce spontaneamente. |
136 |
Mentre che
vegnan lieti li occhi belli
che, lagrimando, a te venir mi fenno,
seder ti puoi e puoi andar tra elli. |
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136 |
Finché non ti appariranno
per farti gioiosa accoglienza i begli occhi di Beatrice,
i quali, con le loro lagrime, mi mossero a venire in tuo
aiuto, ti puoi sedere e andare tra gli alberi e i fiori. |
139 |
Non aspettar
mio dir più né mio cenno;
libero, dritto e sano è tuo arbitrio,
e fallo fora non fare a suo senno: |
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139 |
Non attendere più le mie
parole né i miei gesti: il tuo volere è ormai libero
dalle passioni rettamente volto verso il bene e guarito
dai suoi mali, e sarebbe errore non assecondarlo: |
142 |
per ch'io te
sovra te corono e mitrio». |
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142 |
perciò io ti costituisco
signore e guida di te stesso». |
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