1 |
«O tu che
se' di là dal fiume sacro»,
volgendo suo parlare a me per punta,
che pur per taglio m'era paruto acro, |
|
1 |
«O tu che sei al di là del sacro fiume (il Letè)»,
rivolgendo direttamente a me le sue parole, che mi erano
sembrate tanto dure pur parlandomi solo indirettamente (cfr.
canto XXX, versi 103-145), |
4 |
ricominciò,
seguendo sanza cunta,
«dì, dì se questo è vero; a tanta accusa
tua confession conviene esser congiunta». |
|
4 |
riprese Beatrice,
aggiungendo senza indugio «di', di' se questo (di cui ti
rimprovero) è vero: un'accusa tanto grave sia seguita
dalla tua confessione». |
7 |
Era la mia
virtù tanto confusa,
che la voce si mosse, e pria si spense
che da li organi suoi fosse dischiusa. |
|
7 |
Le mie facoltà erano tanto
sconvolte, che la voce si formò, ma si spense prima che
fosse emessa dalla gola e dalla bocca. |
10 |
Poco
sofferse; poi disse: «Che pense?
Rispondi a me; ché le memorie triste
in te non sono ancor da l'acqua offense». |
|
10 |
(Beatrice) per un poco
pazientò; poi disse: «A che cosa pensi? Rispondimi;
poiché in te i tristi ricordi del peccato non sono
ancora stati cancellati dall'acqua del Letè». |
13 |
Confusione e
paura insieme miste
mi pinsero un tal «sì» fuor de la bocca,
al quale intender fuor mestier le viste. |
|
13 |
Vergogna e paura mescolate insieme mi fecero uscire
dalla bocca un "sì" talmente fioco, per intendere il
quale furono necessari gli occhi (per indovinarlo dal
moto delle labbra), |
16 |
Come
balestro frange, quando scocca
da troppa tesa, la sua corda e l'arco,
e con men foga l'asta il segno tocca, |
|
16 |
Come si spezza la
balestra, quando la sua corda e l'arco scoccano con
troppa tensione, e la freccia colpisce il bersaglio con
minore impeto, |
19 |
sì scoppia'
io sottesso grave carco,
fuori sgorgando lagrime e sospiri,
e la voce allentò per lo suo varco. |
|
19 |
così scoppiai
io sotto il grave peso (della vergogna e della paura),
dando libero sfogo alle lagrime e ai sospiri, e la mia
voce si affievolì uscendo attraverso la bocca. |
22 |
Ond' ella a
me: «Per entro i mie' disiri,
che ti menavano ad amar lo bene
di là dal qual non è a che s'aspiri, |
|
22 |
Perciò Beatrice mi disse: «In mezzo ai desideri da me
ispirati, che ti conducevano ad amare Dio, il bene oltre
il quale non c'è cosa a cui si possa aspirare, |
25 |
quai fossi
attraversati o quai catene
trovasti, per che del passare innanzi
dovessiti così spogliar la spene? |
|
25 |
quali ostacoli posti di traverso sulla via o quali
catene di sbarramento hai trovato, per cui tu dovessi in
tal modo abbandonare la speranza di progredire (nel
cammino verso Dio)? |
28 |
E quali
agevolezze o quali avanzi
ne la fronte de li altri si mostraro,
per che dovessi lor passeggiare anzi?». |
|
28 |
E quali godimenti o quali
guadagni ti si mostrarono nel l'aspetto degli altri
beni, perché tu fossi indotto a desiderarli?» |
|
L'espressione passeggiare anzi significa letteralmente
«corteggiare». «passeggiare davanti» alla finestra della
donna amata. |
31 |
Dopo la
tratta d'un sospiro amaro,
a pena ebbi la voce che rispuose,
e le labbra a fatica la formaro. |
|
31 |
Dopo aver amaramente
sospirato, a stento trovai la voce per rispondere e con
fatica le labbra riuscirono a tradurla in parole. |
34 |
Piangendo
dissi: «Le presenti cose
col falso lor piacer volser miei passi,
tosto che 'l vostro viso si nascose». |
|
34 |
Piangendo dissi: «I beni
terreni con i loro falsi allettamenti indirizzarono i
miei passi (sulla via del male), non appena scomparve il
vostro volto (cioè: dopo la vostra morte)». |
|
La pausa forte - la fine del canto precedente - e il
nuovo avvio del discorso - o tu che se' di là dal lume
sacro - distinguono i due tempi della requisitoria di
Beatrice e della confessione di Dante, legati fra loro e
disposti in ordine progrediente. Il primo momento della
complessa drammaturgia che occupa i canti XXX e XXXI
aveva voluto, per il confronto fra il peccatore e il suo
giudice, lo sfondo grandioso e solenne del dialogo con i
cento... ministri e messaggier di vita etterna, il quale
se da un lato mostrava la nuova dimensione
sovrannaturale di Beatrice, in confronto diretto con le
potenze celesti, dall'altro riduceva la figura del Poeta
ad un ruolo di semplice comparsa, attenuando gli effetti
drammatici che il lettore può attendere, giunto, con la
confessione di Dante e la sua purificazione da ogni
peccato, al "nucleo vero del Purgatorio, anzi il nucleo
ed il centro di tutta la Commedia", dove "si incontrano,
come in punto focale, inferno, purgatorio e paradiso" (Spoerri).
Ora invece i due sono fronte a fronte, approfondendo
l'una le sue accuse e l'altro il suo pentimento, in
versi perentori di una costruzione solidissima, capaci
di toccare un vertice di concretezza (come balestro
frange... sì scoppia' io sott'esso grave carco; quai
fossi attraversati o quai catene trovasti... ma quando
scoppia della propria gota l'accusa del peccato...
rivolge sé contra 'l taglio la rota) e un limite di
astrazione (per entro i mie disiri, che ti menavano ad
amar lo bene di là dal qual non è a che s'aspiri...
udendo le serene...) senza alcuna frattura o
incongruente cambio di registro, raccogliendo e
sviluppando di slancio, nell'esordio, impulsi non
esauriti nel canto precedente e accumulando una nuova
carica emotiva da consegnare intatta alla parte finale
del canto e a quelli seguenti. Infatti per Dante autore,
la vicenda presentata nei versi 1-90 non si esaurisce
nei contorni limitati di una prospettiva individuale né
si sviluppa su un metro esclusivo e monocorde che
esamini rigidamente un'esperienza solitaria, ma illumina
tutto il dramma dell'umanità - dal peccato alla
redenzione - nei suoi infiniti aspetti ed accenti,
essendo la morale dantesca mai chiusa su di sé, con
poche note che ritornano uguali, bensì volta ad
espandersi in una visione elaborata del reale. Occorre
perciò - esaminando la prima parte del canto - rilevare
il valore di exemplum che essa riveste, al fine di
salvare la parte finale di esso e gli ultimi due canti
del Purgatorio dall'accusa di pagine nelle quali
"spiegato il simbolo, la poesia muore" (Momigliano). Il
Poeta non poteva eliminare dalla storia generale
dell'uomo l'intervento attivo delle virtù cardinali, nel
mondo greco-romano, e di quelle teologali, con l'avvento
del Cristianesimo, né, tanto meno; i momenti della
politica e della religione presentati - nel canto XXXII
- dalle vicende particolari della Chiesa e dell'Impero.
Tuttavia, consapevole egli stesso della difficoltà
dell'argomento mistico e dottrinale, lo avviva con la
essenzialità e l'efficacia delle immagini (si vedano, ad
esempio, per la parte finale del canto XXXI, i versi
118-120, 121-123, 127-132, 144-145), conferendo ad esso
un preciso valore evocativo dell'atmosfera
lirico-didattica che domina queste pagine. |
37 |
Ed ella: «Se
tacessi o se negassi
ciò che confessi, non fora men nota
la colpa tua: da tal giudice sassi! |
|
37 |
Ed ella: «Se tu avessi
taciuto, o avessi negato i tuoi peccati, la tua colpa
non sarebbe meno palese: da un tale giudice è conosciuta
(cioè da Dio, a cui nulla sfugge). |
40 |
Ma quando
scoppia de la propria gota
l'accusa del peccato, in nostra corte
rivolge sé contra 'l taglio la rota. |
|
40 |
Ma quando la confessione
del peccato prorompe dalla bocca stessa del peccatore,
nel tribunale del cielo la giustizia divina attenua la
sua severità (rivolge sé contra 'I taglio la rota: la
mola, che prima ha affilato la lama, gira in direzione
contraria al taglio, cosicché invece di affilarla, la
smussa). |
43 |
Tuttavia,
perché mo vergogna porte
del tuo errore, e perché altra volta,
udendo le serene, sie più forte, |
|
43 |
Tuttavia, perché tu ora
senta vergogna dei tuoi errori, e perché un'altra volta,
vedendo l'allettamento dei beni terreni (udendo le
serene; cfr. la nota alla terzina 19 del canto XIX), tu
possa mostrarti più forte, |
46 |
pon giù il
seme del piangere e ascolta:
sì udirai come in contraria parte
mover dovieti mia carne sepolta. |
|
46 |
deponi le cause del tuo
pianto (cioè la confusione e la paura: cfr. versi 13-21)
ed ascolta: così potrai udire come la mia morte avrebbe,
dovuto rivolgerti in direzione opposta a quella da te
seguita (cioè verso la via del bene). |
49 |
Mai non t'appresentò
natura o arte
piacer, quanto le belle membra in ch'io
rinchiusa fui, e che so' 'n terra sparte; |
|
49 |
Mai la natura o l'arte ti
offrirono una bellezza simile a quella delle membra in
cui io fui rinchiusa (nel mondo), e che ora si
disgregano sotto terra; |
52 |
e se 'l
sommo piacer sì ti fallio
per la mia morte, qual cosa mortale
dovea poi trarre te nel suo disio? |
|
52 |
e se la bellezza più
grande (cioè il mio corpo, che si rivelò anch'esso
caduco e destinato a scomparire) venne così a mancarti a
causa della mia morte, quale cosa mortale doveva poi
attirarti a desiderarla? |
55 |
Ben ti
dovevi, per lo primo strale
de le cose fallaci, levar suso
di retro a me che non era più tale. |
|
55 |
In seguito al primo colpo
ricevuto dalle realtà ingannevoli del mondo (e questo
colpo, con la mia morte, ti indicò tutta la caducità
terrena), avresti piuttosto dovuto sollevarti verso
l'alto, seguendo me che (essendo ora solo anima) non ero
più una cosa ingannevole. |
58 |
Non ti dovea
gravar le penne in giuso,
ad aspettar più colpo, o pargoletta
o altra novità con sì breve uso. |
|
58 |
Non avrebbero dovuto farti
battere in basso le ali, ad aspettare altri colpi (di
nuovi disinganni), né pargoletta né altre cose vane che
si possono godere così brevemente. |
|
Molteplici furono le discussioni intorno al significato
di pargoletta, perché alcuni interpreti vollero vedere
in questa espressione un'allusione alla pargoletta
cantata nelle Rime, o a qualche altra donna amata da
Dante dopo la morte di Beatrice (si pensò anche alla
lucchese Gentucca, dal Poeta ricordata nel canto XXIV
del Purgatorio, versi 37 sgg.). In realtà, il termine è
qui sinonimo di « giovane donna » e può contenere anche
un riferimento generico alla bellezza femminile. |
61 |
Novo
augelletto due o tre aspetta;
ma dinanzi da li occhi d'i pennuti
rete si spiega indarno o si saetta». |
|
61 |
L'uccellino nato da poco aspetta due o
tre colpi (cioè due o tre insidie prima di acquistare
esperienza); ma invano si tendono reti o si lanciano
frecce agli uccelli adulti e quindi già esperti. |
|
Dimostrato il valore esemplare del confronto fra Dante -
il peccatore pentito- e Beatrice - la giustizia divina -
si presenta indispensabile un rilievo: immesso in una
solenne cornice liturgica, ricca di canti rituali (canto
XXX, versi 11-12, 19-21, 83-84: canto XXXI, verso 98) ,
chiuso fra la prima apparizione del corteo e la sua
seconda comparsa sul vasto scenario del paradiso
terrestre (canto XXXII, versi 16-18), il colloquio non
perde quel tono fitto, intimo e accorato che si crea fra
due persone le quali, legate da un amore profondo, si
incontrano dopo innumerevoli difficoltà e dopo che il
loro sentimento si è trasferito su un piano di accesa
spiritualità. "I versi 47-54 sono ancora una
dichiarazione d'amore, e superano in ardore la Vita
Nova: eppure quest'ardore è come stemperato in un sereno
senso della vanità delle apparenze terrene; e la
malinconica frattura del verso 51 prelude già alla
fisionomia delle rime in morte di Laura. Questo inno
alla bellezza terrena di Beatrice è messo in bocca di
Beatrice stessa, senz'ombra di iattanza, perché quella
bellezza è veduta oramai dall'altra riva, come cosa che
più non la tocca: di qui la fermezza, la lucida
precisione di queste parole, che in bocca di Dante
suonerebbero altrimenti e turberebbero la pura,
oltremondana linea della scena." (Momigliano)
Nella Vita Nova la virtù salvatrice che emanava dalla
figura di Beatrice non dipendeva da una sua personale
volontà, ma da una forza fisico-metafisica che la
trascendeva e che Dante percepiva perché « voleva » -
con lo sforzo sovrumano di tutto il suo essere -
percepirla. "Con la Commedia tutto cambia: la virtù di
Beatrice... è virtù sovrannaturale, Grazia di Dio... Ma
tale Grazia, d'ordine sovrannaturale, non è una astratta
entità: bensì un'entità incarnata. La Grazia, per
raggiungere di propria iniziativa Dante, si è incarnata
in Beatrice: e questa dunque non è quasi una impersonale
distributrice di salvezza, ma una persona viva che porta
a Dante salvezza per un preciso, personale, sofferto
atto della propria volontà. Che cosa c'è stato in mezzo
tra le due Beatrici? Tra la prima situata in un piano
retorico-poetico, e tanto più astratta, e la seconda
situata in una severa cornice teologica eppure tanto più
concreta? C'è stato sopra tutto un impegno di totale
concretezza; un impegno di aderenza alla realtà totale;
per cui se per la Beatrice della Vita Nova Dante si
accontentava di una validità poetica, per quella della
Commedia Dante esige una realtà totale... Il tramite per
cui Dante ha scoperta la Beatrice viva e personale della
Commedia è il tramite filosofico-teologico che non gli
permette più di immaginare scene di un astratto paradiso
terrestre e celeste di valore retorico, ma lo impegna a
sentire la concretezza di Beatrice donna, proprio perché
lo impegna a sentire una realtà non più
poetico-fantastica, bensì impegnativa e totale: una
realtà che accetti i fatti quotidiani nel loro peso
corporeo per elevarsi, al di sopra di essi, a una
beatitudine non più ideale e poetica, ma reale,
effettiva...(Montanari) |
64 |
Quali
fanciulli, vergognando, muti
con li occhi a terra stannosi, ascoltando
e sé riconoscendo e ripentuti, |
|
64 |
Come i bambini, per
vergogna, se ne stanno muti con gli occhi a terra,
ascoltando (il rimprovero) e riconoscendosi colpevoli e
profondamente pentiti, |
67 |
tal mi stav'
io; ed ella disse: «Quando
per udir se' dolente, alza la barba,
e prenderai più doglia riguardando». |
|
67 |
nello stesso atteggiamento
me ne stavo io; ed ella disse: «Dal momento che ti
affliggi per quello che ascolti, solleva il viso, e
guardandomi la tua sofferenza diventerà più profonda». |
70 |
Con men di
resistenza si dibarba
robusto cerro, o vero al nostral vento
o vero a quel de la terra di Iarba, |
|
70 |
Un robusto cerro si svelle
dalle sue radici, sia ai colpi del vento di tramontana
sia a quelli del vento australe, opponendo minore
resistenza |
73 |
ch'io non
levai al suo comando il mento;
e quando per la barba il viso chiese,
ben conobbi il velen de l'argomento. |
|
73 |
di quella che io dovetti
vincere per sollevare il mento al suo comando; e quando
indicò il viso per mezzo della barba, compresi
chiaramente l'amarezza contenuta in quella espressione
(il velen dell'argomento: Beatrice, infatti, ha voluto
ricordargli, con il termine barba, che egli è ormai un
uomo e come tale deve comportarsi). |
|
La confusione e la paura oppongono a Dante, che tenta di
sollevare il suo volto all'invito di Beatrice, una
resistenza più dura di quella di un cerro sotto i colpi
del vento che spira dalle regioni nordiche o da quelle
africane.
Iarba fu il famoso re di Libia, del cui amore, non
corrisposto, per Didone parla Virgilio (Eneide IV, versi
195 sgg.). |
76 |
E come la
mia faccia si distese,
posarsi quelle prime creature
da loro aspersïon l'occhio comprese; |
|
76 |
E non appena il mio volto
riprese la sua posizione eretta, il mio sguardo vide che
gli angeli (quelle prime creature: perché creati per
primi con i cieli) avevano smesso di spargere fiori; |
79 |
e le mie
luci, ancor poco sicure,
vider Beatrice volta in su la fiera
ch'è sola una persona in due nature. |
|
79 |
e i miei occhi, ancora
incerti, scorsero Beatrice rivolta verso il grifone che
è una sola persona in due nature. |
82 |
Sotto 'l suo
velo e oltre la rivera
vincer pariemi più sé stessa antica,
vincer che l'altre qui, quand' ella c'era. |
|
82 |
Pur essendo velata e pur
restando al di là del fiume mi sembrava superasse in
bellezza quella che era un tempo in terra, più di
quanto, mentre era ancora in vita, non superasse nel
mondo tutte le altre donne. |
85 |
Di penter sì
mi punse ivi l'ortica,
che di tutte altre cose qual mi torse
più nel suo amor, più mi si fé nemica. |
|
85 |
In quel momento e in quel
luogo la tormentosa puntura del pentimento mi trafisse
così profondamente, che quella che fra tutte le altre
cose più mi aveva attirato nel suo piacere, più mi
divenne odiosa. |
88 |
Tanta
riconoscenza il cor mi morse,
ch'io caddi vinto; e quale allora femmi,
salsi colei che la cagion mi porse. |
|
88 |
Il mio cuore fu a tal
punto colpito da una così piena consapevolezza delle mie
colpe, che persi conoscenza sopraffatto dal rimorso; e
quale allora divenni, lo sa colei che (con i suoi duri
rimproveri e la sua celestiale bellezza) fu la causa
(del mio smarrimento). |
|
Nella sacra rappresentazione del paradiso terrestre, il
dramma di Dante acquista una potenza plastica non
dimenticabile, sbalzato in primo piano con una veemenza
che ne accerta, al di là dei risultati poetici
particolari, l'assoluta spontaneità. I fremiti e le
indignazioni di Beatrice e di Dante poeta davanti al
male commesso da Dante individuo si acuiscono,
manifestandosi e condensandosi in drammatiche e
brucianti epigrafi (alza la barba; di pentèr... mi
punse... l'ortica; tanta riconoscenza il cor mi morse;
salsi colei che la cagion mi porse).
Nei versi 67-90 il « crescendo» di questa cronaca
personale e di questa vicenda universale raggiunge il
suo tono più alto e teso, in un confluire di piani
attentamente studiato: Dante, cioè l'umanità pentita,
percepisce la bellezza e la purezza della fede
(superiori a quello che egli poteva ìmmaginare: cfr.
versi 82-84), ma la possibilità della loro recezione è,
nell'uomo, ancora limitata. Il « cader vinto » del
peccatore pentito non è un vago ricordo di analoghe
espressioni della Vita Nova e della poesia stilnovistica,
ma il sofferto, e nello stesso tempo liberatore,
riconoscimento della propria debolezza. L'accenno alla
poesia dell'ineffabile, propria del Paradiso, che il
Gallardo rileva in alcuni passi di questo canto, è
sommamente evidente in questo momento, nel quale l'uomo,
di fronte al sovrannaturale palesemente scoperto (le mie
luci... vider Beatrice volta in su la fera), abdica ad
ogni possibilità di resistenza. |
91 |
Poi, quando
il cor virtù di fuor rendemmi,
la donna ch'io avea trovata sola
sopra me vidi, e dicea: «Tiemmi, tiemmi!». |
|
91 |
Poi, quando il cuore
rimise in attività le mie forze vitali, vidi china su di
me la donna (Matelda) che avevo incontrato tutta sola, e
diceva: «Tieniti stretto a me, tieniti stretto a me!» |
94 |
Tratto m'avea
nel fiume infin la gola,
e tirandosi me dietro sen giva
sovresso l'acqua lieve come scola. |
|
94 |
Mi aveva immerso nel fiume
fino al collo, e trascinandomi dietro camminava sulla
superficie dell'acqua leggiera come una navicella. |
|
Il termine scola ebbe nel volgare del '200 il
significato di « piccola barca », « gondola », ma
nell'uso toscano fu adoperato - e lo è tuttora - per
indicare la spola o navicella che il tessitore fa
scorrere sull'ordito: Dante, avrebbe potuto anche
pensare a quest'ultimo significato per indicare il
leggiero procedere di Matelda sull'acqua. |
97 |
Quando fui
presso a la beata riva,
'Asperges me' sì dolcemente udissi,
che nol so rimembrar, non ch'io lo scriva. |
|
97 |
Quando giunsi vicino all'altra riva del
Letè, si udì cantare «Aspergimi» con tale dolcezza, che
non lo so ricordare, e tanto meno esprimerlo a parole. |
|
Mentre Dante è privo di conoscenza, Matelda lo immerge
nell'acqua del Letè per compiere l'ultimo rito - quello
che dona l'oblio dei peccati commessi - dopo il quale il
pellegrino, completata ormai la sua purificazione,
diventa degno di entrare nel regno della beatitudine, al
di là della beata riva.
II versetto 9 del Salmo LI è cantato "nella chiesa
quando la spargono d'acqua consacrata, la quale ha
possanza di cacciare gli spiriti immondi; e per ché el
fiume Leté, induce oblivione dei peccati e cacciagli,
però induce che gli angeli lo cantassino" (Landino). |
100 |
La bella
donna ne le braccia aprissi;
abbracciommi la testa e mi sommerse
ove convenne ch'io l'acqua inghiottissi. |
|
100 |
La bella
donna aprì le braccia; mi tenne stretta la testa e mi
immerse nel fiume finché fui costretto ad inghiottire
dell'acqua. |
103 |
Indi mi
tolse, e bagnato m'offerse
dentro a la danza de le quattro belle;
e ciascuna del braccio mi coperse. |
|
103 |
Mi tolse di lì, e ancora
bagnato mi condusse nel cerchio formato dalle quattro
virtù cardinali che danzavano; e ciascuna mi coperse (il
capo) sollevando il braccio. |
106 |
«Noi siam
qui ninfe e nel ciel siamo stelle;
pria che Beatrice discendesse al mondo,
fummo ordinate a lei per sue ancelle. |
|
106 |
«Qui nel paradiso
terrestre ci presentiamo come ninfe e nel cielo come
stelle: prima che Beatrice apparisse nel mondo, fummo
destinate da Dio ad essere le sue ancelle. |
|
Le quattro virtù cardinali possono apparire, nella dolce
atmosfera della divina foresta, come ninfe, abitatrici
di boschi, ma questo non diminuisce la grandezza della
loro realtà: esse sono le quattro stelle non viste mai
fuor ch'alla prima gente (Purgatorio I, 23-24), le
quattro luci sante che splendono sul volto di Catone
(Purgatorio I, 37-38). Le virtù cardinali che,
preesistenti al Cristianesimo, illuminarono con il loro
magistero morale il mondo pagano, possono essere
considerate le ancelle di Beatrice sotto un duplice
punto di vista: Beatrice come donna è "regina de le
virtudi" (Vita Nova X, 2) e come simbolo è la scienza
della verità rivelata, la quale, lungi dal rifiutare la
sapienza pagana, ne assimilò le parti migliori.
Ma il compito delle quattro virtù cardinali è limitato
al raggiungimento di una perfezione morale che
appartiene ancora alla terra, mentre il cammino
dell'uomo cristiano si protende verso l'Assoluto. Per
questo le vere mediatrici fra Dante - la creatura ormai
purificata dal peccato - e Beatrice - la scienza divina
- saranno le tre virtù teologali, per mezzo delle quali
si perviene alla beatitudine della vita eterna. |
109 |
Merrenti a
li occhi suoi; ma nel giocondo
lume ch'è dentro aguzzeranno i tuoi
le tre di là, che miran più profondo». |
|
109 |
Ti condurremo davanti al
suo sguardo; ma renderanno i tuoi occhi capaci di
penetrare nella luce beatifica che vi splende dentro, le
tre virtù teologali che si trovano sul fianco destro del
carro, le quali vedono più a fondo.» |
112 |
Così
cantando cominciaro; e poi
al petto del grifon seco menarmi,
ove Beatrice stava volta a noi. |
|
112 |
Cosi incominciarono
cantando; e poi mi guidarono davanti al petto del
grifone, dove Beatrice si trovava rivolta verso di noi, |
115 |
Disser: «Fa
che le viste non risparmi;
posto t'avem dinanzi a li smeraldi
ond' Amor già ti trasse le sue armi». |
|
115 |
e dissero: «Guarda più
attentamente che puoi (fa che le viste non risparmi): ti
abbiamo posto, davanti agli occhi splendenti dai quali
un tempo Amore. lanciò i suoi dardi contro di te». |
118 |
Mille disiri
più che fiamma caldi
strinsermi li occhi a li occhi rilucenti,
che pur sopra 'l grifone stavan saldi. |
|
118 |
Mille desideri più ardenti
di una fiamma costrinsero i miei occhi a fissare quelli
luminosi di Beatrice. che continuavano ad essere rivolti
solo al grifone. |
121 |
Come in lo
specchio il sol, non altrimenti
la doppia fiera dentro vi raggiava,
or con altri, or con altri reggimenti. |
|
121 |
Come il sole (si riflette)
in uno specchio, allo stesso modo il grifone dalle due
nature si rifletteva negli occhi di Beatrice, ora con
gli atti caratteristici dell'aquila, ora con quelli del
leone. |
124 |
Pensa,
lettor, s'io mi maravigliava,
quando vedea la cosa in sé star queta,
e ne l'idolo suo si trasmutava. |
|
124 |
Pensa, o lettore, se io
non mi meravigliavo, alla vista del grifone (la cosa)
che (se guardato direttamente) restava sempre identico a
se stesso, mentre nell'immagine riflessa negli occhi di
Beatrice si trasformava (ora nell'uno ora nell'altro dei
suoi due aspetti). |
|
Beatrice era apparsa in su la sponda del carro sinistra
(canto XXX, verso 61) e in un secondo momento si era
volta verso il grifone (canto XXXI, verso 80), mostrando
il fianco a Dante, il quale ora viene condotto al petto
del grifon (verso 113) e perciò può vedere Beatrice di
fronte (stava volta a noi). Quest'ultimo fatto permette
di capire il verso 126: il Poeta osserva l'immagine
della doppia fiera riflessa negli occhi di Beatrice che
pur sopra 'l grifone stavan saldi.
L'unione delle due nature in Cristo è indicata
dall'alternarsi nella figura del grifone dei due
aspetti, aquilino e leonino (verso 123), mentre i versi
124-126 vogliono rilevare come nel Cristo la duplice
natura è sempre uguale a se stessa, laddove la creatura,
per via razionale, non potrà mai esaurire la sua
conoscenza del mistero dell'Uomo-Dio, e in Lui vedrà
sempre, distinte e parallele, le due nature. |
127 |
Mentre che
piena di stupore e lieta
l'anima mia gustava di quel cibo
che, saziando di sé, di sé asseta, |
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127 |
Mentre il mio animo pieno
di stupore e di gioia gustava il cibo delle verità
sovrannaturali che, mentre sazia, suscita nuovo
desiderio di sé, |
130 |
sé
dimostrando di più alto tribo
ne li atti, l'altre tre si fero avanti,
danzando al loro angelico caribo. |
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130 |
le tre virtù teologali,
dimostrando nei loro atti di appartenere (rispetto a
quelle cardinali) ad un ordine gerarchico più elevato,
avanzarono danzando al ritmo del loro angelico canto. |
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Tribo deriva dal latino tribus: tribù, e quindi
«ordine», «classe».
Il termine caribo nella lingua del tempo indicava la
«canzone a ballo», un canto che, insieme alla musica,
accompagnava e regolava la danza. |
133 |
«Volgi,
Beatrice, volgi li occhi santi»,
era la sua canzone, «al tuo fedele
che, per vederti, ha mossi passi tanti! |
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133 |
«Volgi, Beatrice, volgi i
tuoi santi occhi» dicevano le parole dei loro canto « al
tuo fedele che, per vederti, ha compiuto un così lungo
viaggio (ha mossi passi tanti)! |
136 |
Per grazia
fa noi grazia che disvele
a lui la bocca tua, sì che discerna
la seconda bellezza che tu cele». |
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136 |
Per tua graziosa
concessione facci la grazia di liberare dal velo davanti
a lui il tuo volto, in modo che egli possa vedere
chiaramente la bellezza celestiale (seconda rispetto a
quella terrena e materiale) che nascondi.» |
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Alcuni critici offrono della terzina 136 una diversa
interpretazione: la seconda bellezza di Beatrice
consisterebbe nella bocca, che Dante, guidato dalle
virtù teologali, può ora contemplare, dopo aver visto,
ad opera delle virtù cardinali, la prima bellezza
costituita dagli occhi (verso 116).
Il Sapegno, che accetta questa seconda interpretazione,
ritiene che gli occhi e la bocca di Beatrice abbiano in
questo momento un sìgnìficato allegorico, per spiegare
il quale ricorda un passo del Convivio (III, XV, 2): "li
occhi de la Sapienza sono le sue demonstrazioni, con le
quali si vede la veritade certissimamente; e lo suo riso
sono le sue persuasioni, ne le quali si dimostra la luce
interiore de la Sapíenza sotto alcuno velamento". |
139 |
O isplendor
di viva luce etterna,
chi palido si fece sotto l'ombra
sì di Parnaso, o bevve in sua cisterna, |
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139 |
O tu che rifletti la viva
luce eterna di Dio, quale poeta, anche se si è consumato
con tenacia nello studio della poesia (sotto l'ombra...
di Parnaso: era il monte sacro ad Apollo e alle muse), o
ha bevuto alla fonte Castalia (in sua cisterna: si trova
sul Parnaso ed è simbolo dell'ispirazione poetica), |
142 |
che non
paresse aver la mente ingombra,
tentando a render te qual tu paresti
là dove armonizzando il ciel t'adombra, |
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142 |
non sembrerebbe avere la
mente impedita, se tentasse di rappresentare te, o
Beatrice, quale apparisti là (nel paradiso terrestre),
dove solo il cielo con la sua armonia riesce a dare una
immagine adeguata della tua bellezza, |
145 |
quando ne
l'aere aperto ti solvesti? |
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145 |
quando ti mostrasti libera
da ogni velo nell'aria limpida?. |