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DIVINA
COMMEDIA: PARAFRASI
PURGATORIO
CANTO V° |
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1 |
Io era già
da quell' ombre partito,
e seguitava l'orme del mio duca,
quando di retro a me, drizzando 'l dito, |
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1 |
Io mi ero ormai allontanato da quelle ombre (le anime
dei negligenti), e seguivo le orme della mia guida,
quando alle mie spalle, indicandomi, |
4 |
una gridò: «Ve'
che non par che luca
lo raggio da sinistra a quel di sotto,
e come vivo par che si conduca!». |
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4 |
una di esse gridò:
«Osserva che il raggio del sole non si vede rilucere
alla sinistra (Dante e Virgilio, mentre salgono, volgono
le spalle a levante e il Sole, perciò, li colpisce a
destra) di quello che sta sotto (Dante infatti segue
Virgilio), e come sembra si comporti come un vivente!» |
7 |
Li occhi
rivolsi al suon di questo motto,
e vidile guardar per maraviglia
pur me, pur me, e 'l lume ch'era rotto. |
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7 |
Quando udii queste parole
volsi lo sguardo, e vidi le anime guardare con stupore
me, solo me, e i raggi dei sole che erano interrotti
(dal mio corpo). |
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Quella che ad una prima lettura può apparire come una
zona poetica di passaggio o tutt'al più come un motivo
preparatorio dell'intervento didascalico di Virgilio
(versi 10-18), si arricchisce di risonanze profonde se
consideriamo che nota caratteristica (poeticamente
validissima) della seconda cantica è l'attenzione
precisa con la quale il Poeta dispone già all'inizio la
tonalità dominante del canto. Deciso è il movimento di
Dante (e il già posto nel primo verso segna uno stacco
quasi violento dal gruppo dei negligenti), ma
altrettanto scattanti sono quel dito e quella voce che
grida, colpita dalla vita presente nell'atteggiamento di
Dante (e come vivo par che si conduca!), sul quale si
ripercuote questa agitazione (li occhi rivolsi): è una
breve rappresentazione drammatica che - ampliata
dall'intervento di Virgilio e dalla corsa delle due
anime (versi 28-29) che si trasforma in una corsa
collettiva di tutte le altre (verso 42) - fa da prologo
a quella ben più vasta e grave della seconda parte del
canto. |
10 |
«Perché
l'animo tuo tanto s'impiglia»,
disse 'l maestro, «che l'andare allenti?
che ti fa ciò che quivi si pispiglia? |
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10 |
«Perché, il tuo animo si
lascia distrarre a tal punto» disse il maestro, «che
rallenti i tuoi passi? che importanza può avere per te
ciò che queste anime mormorano? |
13 |
Vien dietro
a me, e lascia dir le genti:
sta come torre ferma, che non crolla
già mai la cima per soffiar di venti; |
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13 |
Vieni dietro a me, e lascia parlare la gente: comportati
come una torre solida, la cui cima non si muove mai per
quanto i venti possano soffiare; |
16 |
ché sempre
l'omo in cui pensier rampolla
sovra pensier, da sé dilunga il segno,
perché la foga l'un de l'altro insolla». |
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16 |
poiché accade sempre che
l'uomo nel quale continuamente un pensiero germoglia
dall'altro, allontana da sé il raggiungimento della
meta, in quanto l'impeto del nuovo pensiero indebolisce
l'altro.» |
19 |
Che potea io
ridir, se non «Io vegno»?
Dissilo, alquanto del color consperso
che fa l'uom di perdon talvolta degno. |
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19 |
Che cosa
potevo rispondere, se non «Io vengo»? Così infatti
risposi, un poco soffuso di quel rossore che talvolta
(quando la vergogna non induce all'ira per essere stato
colto in errore e quando la colpa non è troppo grave)
rende l'uomo degno di essere perdonato. |
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Il rimprovero di Virgilio è apparso, ad alcuni critici,
eccessivo ("ramanzina" alla quale Dante reagisce con il
rossore di chi si accorge di essere bersaglio di un
biasimo eccessivo, secondo il Mattalia, "rimprovero...
sproporzionato a così lieve colpa", secondo il
Momigliano), troppo pedagogico, laddove il richiamo
morale (che si congiunge in una stessa significazione
con quello di Catone nel canto II e con, quello di
Virgilio stesso nel canto III) è il motivo lirico nel
quale si trasforma il concetto teologico della fragilità
dell'anima e della necessità che la ragione (in questo
caso Virgilio) sostenga la paziente attesa della Grazia.
L'intensità con la quale Dante avverte questa verità è
rivelata dalla potenza dell'immagine della torre, la cui
cima sa opporsi anche ai venti più violenti, immagine di
urto e di resistenza, mentre la espressione lascia dir
le genti pare suggerire la fierezza dell'esule di fronte
a quanto il mondo pispiglia. |
22 |
E 'ntanto
per la costa di traverso
venivan genti innanzi a noi un poco,
cantando 'Miserere' a verso a verso. |
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22 |
Frattanto lungo la costa (del monte) in direzione
trasversale (rispetto ai due poeti) avanzava un gruppo
di anime che ci precedevano di poco, cantando il salmo
«Miserere» a versetti alternati. |
25 |
Quando s'accorser
ch'i' non dava loco
per lo mio corpo al trapassar d'i raggi,
mutar lor canto in un «oh!» lungo e roco; |
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25 |
Quando si accorsero che non lasciavo passare attraverso
il mio corpo i raggi del sole, il loro canto si
trasformò in un «Oh!» lungo e fioco; |
28 |
e due di
loro, in forma di messaggi,
corsero incontr' a noi e dimandarne:
«Di vostra condizion fatene saggi». |
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28 |
e due di loro, in qualità
di messaggeri, corsero incontro a noi e ci chiesero:
«Informateci della vostra condizione». |
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Quelle che avanzano cantando il Salmo L, uno dei sette
salmi penitenziali, sono le anime di coloro che perirono
di morte violenta e che, pentitisi solo in punto di
morte, devono restare nell'antipurgatorio probabilmente
(Dante infatti non lo specifica) tanto tempo quanto
vissero. La processione avanza lentissima, quasi i passi
fossero scanditi dai tristi versetti del salmo, che
sembrano ritmare anche lo stato d'animo di questi
penitenti, quella cupa malinconia che dalle parole del
canto si prolunga nell' « Oh! » lungo e roco. Dopo
essersi ripercossa nella magica lentezza della terzina
22, troverà la tensione più acuta e nello stesso tempo
più sconsolata nell'espressione noi . fummo tutti già
per forza morti, con la quale le anime iniziano a
rievocare la loro drammatica vicenda terrena. La stasi
che sembrava stringere queste anime di perseguitati al
monte, creando una raffigurazione da bassorilievo vicina
a quella delle anime degli scomunicati (canto III, versi
70-72 e 91-93), è subito spezzata dall'ansiosa corsa di
due di loro verso quel corpo che non dava loco... al
trapassar de' raggi, e che pareva riportare in mezzo a
loro la terra lontana e proprio attraverso quella
realtà, il corpo, che in essi era stata colpita e
umiliata. |
31 |
E 'l mio
maestro: «Voi potete andarne
e ritrarre a color che vi mandaro
che 'l corpo di costui è vera carne. |
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31 |
E il mio maestro: «Voi
potete ritornare e riferire a coloro che vi hanno
mandato che il corpo di costui è ancora vivo. |
34 |
Se per veder
la sua ombra restaro,
com' io avviso, assai è lor risposto:
fàccianli onore, ed esser può lor caro». |
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34 |
Se essi si sono fermati
perché hanno visto la sua ombra, come penso, hanno avuto
una sufficiente spiegazione: lo accolgano con
gentilezza, perché potrà essere prezioso per loro
(chiedendo preghiere ai vivi, dopo essere ritornato nel
mondo)». |
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Lo Hatzfeld, commentando attentamente questo canto,
trova che "la risposta di Virgilio in « stile sublime »
è un capolavoro di solennità e di accorta disposizione.
Vi è solennità perché Virgilio imita le parole che
Cristo rivolge ai messaggeri di San Giovanni in un caso
analogo (Matteo XI, 4: "Andate e riferite a Giovanni"),
usa il verbo elevato ritrarre per « riferire », termine
che all'epoca di Dante era riservato alle ambascerie,
usa espressioni comuni nelle discussioni eucaristiche
degli Scolastici (verso 33) ... L'accorta disposizione
consiste nel rimandare fino all'ultimo dei sei versi ciò
che è il fatto più importante per i messi, l'annunzio
che Dante può aiutare i pellegrini, e ciò a sua volta
viene comunicato con una velata circonlocuzione: esser
può lor caro". |
37 |
Vapori
accesi non vid' io sì tosto
di prima notte mai fender sereno,
né, sol calando, nuvole d'agosto, |
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37 |
Non vidi mai stelle cadenti fendere il
cielo sereno all'inizio della notte, né, al tramonto del
sole, (vidi mai) lampi fendere le nuvole d'agosto tanto
rapidamente, |
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Vapori accesi:
poiché la scienza medievale riteneva che le stelle
cadenti e i lampi avessero origine da una stessa causa,
l'accensione dei vapori, essa li indicava con uno stesso
termine. |
40 |
che color
non tornasser suso in meno;
e, giunti là, con li altri a noi dier volta,
come schiera che scorre sanza freno. |
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40 |
che quelli non tornassero
in minor tempo alla loro schiera; e, dopo esservi
giunti, tornarono indietro con gli altri verso di noi
come una schiera che si lancia in una corsa sfrenata. |
43 |
«Questa
gente che preme a noi è molta,
e vegnonti a pregar», disse 'l poeta:
«però pur va, e in andando ascolta». |
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43 |
«Queste anime che si
accalcano intorno a noi sono numerose, e vengono per
pregarti» disse Virgilio: «tuttavia tu continua a
procedere e mentre cammini ascolta.» |
46 |
«O anima che
vai per esser lieta
con quelle membra con le quai nascesti»,
venian gridando, «un poco il passo queta. |
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46 |
«O anima che compi questo
viaggio per purificarti con quel corpo al quale fosti
legata fin dalla nascita» gridavano, «arresta un poco i
tuoi passi. |
49 |
Guarda
s'alcun di noi unqua vedesti,
sì che di lui di là novella porti:
deh, perché vai? deh, perché non t'arresti? |
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49 |
Guarda se mai hai visto
qualcuno di noi, in modo da riportare notizie di lui
sulla terra: perché cammini? perché non ti fermi? |
52 |
Noi fummo
tutti già per forza morti,
e peccatori infino a l'ultima ora;
quivi lume del ciel ne fece accorti, |
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52 |
Noi un tempo fummo tutti
uccisi con la violenza, e fummo peccatori fino all'ultirno
istante della notra vìta: in punto di morte la grazia
divina ci rese consapevoli dei nostri peccati, |
55 |
sì che,
pentendo e perdonando, fora
di vita uscimmo a Dio pacificati,
che del disio di sé veder n'accora». |
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55 |
in modo che, pentendoci
(dei nostri peccati) e perdonando (i nostri nemici),
morimmo riconciliati con Dio, che ci consuma col grande
desiderio di vederLo.» |
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Il guizzare dei vapori accesi aveva evocato la pura
visione di una notte stellata e di un sole al tramonto,
ma lungi dall'allontanare, l'attenzione del lettore
dalla scena, ve la immerge totalmente, perché essa non
può non seguire quella schiera tumultuosa e disordinata
- dove prima c'era la compattezza e l'ordine di una
processione che si accalca intorno a Dante (anche per
lui non c'è respiro ìn questo canto: deve continuare
quasi ansioso, quasi affannato di fronte a quell'ammonitore
pur va del suo maestro). "L'ansia delle anime che si
esprime con tanta vivacità nei loro movimenti
nell'intonazione della loro supplica, la quale è «
gridata » (venian gridandi), non detta, e ha un ritmo
inesistente e affannoso (deh, perché vai? deh, perché
non t'arresti?), nasce naturalmente dal desiderio di
essere ricordate nel mondo e aiutate con le preghiere ad
affrettare l'espiazione, sicché più presto possano
soddisfare a quella sete dì veder Dìo che le consuma
(versi 56-57: Dio... che del disio di sé veder
n'accora)." (Puppo) Tuttavia l'ispirazione profonda di
questo canto, è da cercarsi nel tema poetìco del « corpo
» che, introdotto nei versi 25-26 e ripreso da Virgilio
(verso 33), è svolto dalle anime nei versi 46-47, dove
affiora la nostalgia del corpo dal quale furono staccate
con la violenza. Il dramma della separazione violenta
dell'anima dal corpo, già svolto da Dante neIl'Inferno
nel canto dei suicidi, dove si :trasformava
nell'angoscia eterna degli uomini divenuti sterpi,
percorre, naturalmente con una diversa tonalità, anche
questo canto nel "sentimento vivo del destino del «
corpo », del corpo involontariamente .abbandonato in una
solitudine indifesa, esposto alle forze avverse della
natura e del demonio" (Puppo). Questo motivo, che
sembrerebbe legare in modo quasi carnale i penitenti al
mondo (il Sapegno osserva che la tragedia di sangue, che
concluse la loro esistenza agitata e peccaminosa e
coincise con l'istante della loro conversione, crea, fra
essi e il mondo, dei vivi un rapporto più stretto e
doloroso", concorrendovi anche I'immagine di un dramma
sempre presente alla memoria e il sentimento di non aver
lasciato dietro di sé nessuno che li ami e preghi per
loro"), è anche quello che li libera e li purifica: la
loro vita, che fu peccaminosa, si riduce all'istante
supremo della morte quando l'orrore del sangue - un
orrore così straziante da ricordarlo ancora - portò con
sé il desiderio struggente della pace e la forza del
perdono. L'emblematica triade peccato-violenza-sangue,
secondo la definizione del Mattalia, ci riporta al canto
V dell'Inferno, ad altre anime che affermano: noi che
tignemmo il mondo di sanguigno, ma "la tragica serie
consequenziale peccato-morte-dannazione, nell'attimo
stesso di affondare nella tenebra infernale s'incurva,
improvvisamente, prodigiosamente, verso l'alto:
peccato-morte-salvazione. |
58 |
E io:
«Perché ne' vostri visi guati,
non riconosco alcun; ma s'a voi piace
cosa ch'io possa, spiriti ben nati, |
|
58 |
Ed io «Per quanto vi
osservi attentamente, non riconosco alcuno di voi; ma se
voi desiderate qualcosa che io possa fare, o spiriti
destinati alla salvezza, |
61 |
voi dite, e
io farò per quella pace
che, dietro a' piedi di sì fatta guida,
di mondo in mondo cercar mi si face». |
|
61 |
ditemelo, ed io lo farò in
nome di quella pace che debbo cercare attraverso i regni
dell'oltretomba seguendo questa guida». |
64 |
E uno
incominciò: «Ciascun si fida
del beneficio tuo sanza giurarlo,
pur che 'l voler nonpossa non ricida. |
|
64 |
Ed uno di quegli spiriti
cominciò a parlare: «Ciascuno di noi si fida del tuo
servigio senza bisogno di giuramenti, a meno, che una
impossibilità indipendente impedisca dì realizzare il
tuo proposito. |
67 |
Ond' io, che
solo innanzi a li altri parlo,
ti priego, se mai vedi quel paese
che siede tra Romagna e quel di Carlo, |
|
67 |
Perciò io, che parlo da
solo davanti agli altri, ti prego, se mai tu possa
vedere la Marca Anconetana (quel paese che siede tra
Romagna e quel di Carlo: posto a sud della Romagna e a
nord del regno di Napoli, governato nel 1300 da Carlo Il
d'Angìò), |
70 |
che tu mi
sie di tuoi prieghi cortese
in Fano, sì che ben per me s'adori
pur ch'i' possa purgar le gravi offese. |
|
70 |
di essere generoso nelle
tue richieste per me nella città, di Fano, cosicché per
me si preghi da persone in grazia di Dio affinché possa
espiare le mie gravi colpe. |
|
Il penitente è Jacopo di Uguccione del Cassero, che
nacque a Fano da nobile famiglia. Partecipò nelle truppe
guelfe alla battaglia dì Campaldino (1289); fu podestà
di Bologna nel 1296-1297 e difese energicamente il
Comune di fronte ai tentativi di Azzo VIII d'Este,
signore di Ferrara. Nel 1298 fu nominato podestà di
Milano e, per evitare il territorio estense, raggiunse
per mare Venezia, e attraverso il territorio di Padova
si diresse verso Milano, ma fu raggiunto dai sicari di
Azzo VIII nei pressi del castello, di Oriago sul Brenta
e ucciso. |
73 |
Quindi fu'
io; ma li profondi fóri
ond' uscì 'l sangue in sul quale io sedea,
fatti mi fuoro in grembo a li Antenori, |
|
73 |
Nacqui in questa città, ma
le ferite mortali dalle quali sgorgò il sangue nel quale
risiedeva la mia anima (in sul quale io sedea: era
pensiero comune, ai tempi di Dante, che il sangue fosse
la sede dell'anima), mi furono prodotte nel territorio
di Padova (in grembo alli Antenori: Antenore fu il
troiano fondatore di Padova, secondo Virgilio - Eneide
I, versi 247 sgg.). |
76 |
là dov' io
più sicuro esser credea:
quel da Esti il fé far, che m'avea in ira
assai più là che dritto non volea. |
|
76 |
là dove, io ritenevo di
essere più sicuro (essendo fuori del territorio
estense): fui ucciso per volere di Azzo VIII, che mi
aveva in odio assai più di quello che fosse giusto. |
79 |
Ma s'io
fosse fuggito inver' la Mira,
quando fu' sovragiunto ad Orïaco,
ancor sarei di là dove si spira. |
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79 |
Ma se io fossi fuggito
verso Mira (borgo tra Padova e Oriago), quando fui
raggiunto (dai sicari) nelle vicinanze di Oriago, sarei
ancora nel mondo dei vivi. |
82 |
Corsi al
palude, e le cannucce e 'l braco
m'impigliar sì ch'i' caddi; e lì vid' io
de le mie vene farsi in terra laco». |
|
82 |
Invece corsi verso una
palude, e le canne palustri e il fango mi avvilupparono
a tal punto, che caddi; e in quel luogo vidi il mio
sangue formare in terra un lago», |
|
Il dramma della morte violenta si precisa in un trittico
che assume man mano sfumature diverse e nel quale le
"anime stesse, quanto più pure e sole, si allontanano da
quel gorgo di sangue"(Apollonio). Jacopo è ancora preso
dai ricordi terreni, la sua dignità di un tempo è ancora
presente (io, che solo innanzi alli altri parlo), il suo
linguaggio elaborato è quello del dignitario, tuttavia
la sua terra è già sfumata in lontananza: basta un
semplice aggettivo quel, per allontanare visivamente e
sentimentalmente il paese che siede tra Romagna e quel
di Carlo, laddove in Francesca l'espressione siede la
terra dove nata fui (Inferno canto V, verso 97)
costituisce come intensamente presente una lontananza di
spazio e di tempo. La fisionomia del personaggio si
precisa meglio a partire dal verso 73, perché in lui,
come in Bonconte e in Pia, il punto vitale è "il modo
della morte o il sentimento con cui essi la ripensano" (Momigliano).
A un'impressione fortemente fisica quella che Jacopo
ancora avverte, lo strazio della carne (li profondi
fori), la corsa fino alla palude, l'urto contro le
canne, il peso del fango che pare voglia attirarlo a sé,
la caduta, infine il rosso del sangue intorno, e
tuttavia non c'è nessun accento d'odio verso il suo
assassino (verso 77). La pace conquistata in punto di
morte, che ha prima esaltato insieme con le altre anime,
fa sì che contempli quel lago di sangue come "qualche
cosa di estraneo, di staccato, quasi di materiale, che
si adegua alla terra, mentre prima proprio in esso
risiedeva quell'io che ora lo contempla distinto da
sé".(Puppo) |
85 |
Poi disse un
altro: «Deh, se quel disio
si compia che ti tragge a l'alto monte,
con buona pïetate aiuta il mio! |
|
85 |
Poi parlò un altro
spirito: «Possa realizzarsi quel desiderio (il
ricongiungimento a Dio) che ti porta verso l'alto monte
del purgatorio, (in nome di questo augurio) cerca di
aiutare il mio (che è identico al tuo) con preghiere
efficaci! |
88 |
Io fui di
Montefeltro, io son Bonconte;
Giovanna o altri non ha di me cura;
per ch'io vo tra costor con bassa fronte». |
|
88 |
Appartenni alla casata dei
Montefeltro, sono Bonconte: Giovanna (vedova di Bonconte)
o altri miei parenti non si preoccupano di me; per
questo cammino fra costoro a fronte bassa». |
|
Bonconte da Montefeltro fu figlio di Guido, da Dante
posto nell'inferno fra i consiglieri fraudolenti (canto
XXVII, versi 19 sgg.), e come il padre fu acceso
ghibellino. Ebbe molta parte nella cacciata dei Guelfi
da Arezzo (1287) e nella sconfitta che gli Aretini
inflissero ai Senesi alla Pieve del Toppo (1288).
Comandò i Ghibellini di Arezzo nella guerra contro
Firenze, che culminò nella battaglia di Campaldino
(1289), nella quale Bonconte morì; il suo corpo non fu
più ritrovato. |
91 |
E io a lui:
«Qual forza o qual ventura
ti travïò sì fuor di Campaldino,
che non si seppe mai tua sepultura?». |
|
91 |
E io gli risposi: «Quale forza (umana o
divina) o quale caso fortuito ti trascinò così lontano
da Campaldino, che non si conobbe mai la tua sepoltura?» |
|
Dante combatté nella battaglia di Campaldino fra i "feditori"
a cavallo, ma nella parte guelfa. Di fronte al nemico di
un tempo, una sola è la sua preoccupazione: sapere come
Bonconte morì e quale fu la sua sepoltura. Mentre ci
riportano al tema fondamentale del canto, quello della
morte, le sue parole sono la logica conseguenza di
quelle con cui il suo nemico si è presentato (io fui da
Montefeltro, io son Bonconte), scandendo "il distacco
dal mondo terreno con le sue effimere determinazioni di
luoghi, di titoli, di potenza"(Grabher), perché "ora gli
resta solo quel che veramente non muore e cioè la sua
interiore persona legata ancora al suo nome: io son
Bonconte"; anche gli affetti terreni sono persi, ed egli
si isola dagli altri in una solitudine che non è quella
orgogliosa di un Farinata, ma quella dolente di chi
medita intorno alla brevità dei beni mondani.
Commentando questo incontro, il Puppo rileva che "al
livello del purgatorio, dove entrambi si trovano nel
faticoso cammino della perfezione, le antitesi politiche
hanno perduto qualsiasi significato, come l'hanno
perduto tutte le dignità e le distinzioni terrene... Fra
Dante e Farinata poteva accendersi il duello delle
affilate parole; non fra Dante e Bonconte". |
94 |
«Oh!»,
rispuos' elli, «a piè del Casentino
traversa un'acqua c'ha nome l'Archiano,
che sovra l'Ermo nasce in Apennino. |
|
94 |
«Oh!» rispose, «ai piedi
dei monti del Casentino scorre nella valle un torrente
chiamato Archiano, che nasce sull'Appennino sopra
l'eremo di Camaldoli. |
97 |
Là 've 'l
vocabol suo diventa vano,
arriva' io forato ne la gola,
fuggendo a piede e sanguinando il piano. |
|
97 |
Arrivai,
ferito alla gola, nel punto in cui esso perde il suo
nome ('l vocabol suo diventa vano: perché si getta
nell'Arno), fuggendo a piedi e insanguinando la terra. |
100 |
Quivi perdei
la vista e la parola;
nel nome di Maria fini', e quivi
caddi, e rimase la mia carne sola. |
|
100 |
Qui i miei
occhi si velarono, e la mia voce si spense pronunciando
il nome di Maria, e qui caddi e il mio corpo rimase
inanimato. |
|
La grandiosità della figura di Bonconte nasce non dallo
scontro delle potenze infernali con quelle angeliche per
il possesso della sua anima, ma dallo sfondo paesistico
sul quale si distende non più la piccola palude di
Jacopo, ma la lunga catena dei monti del Casentino,
mentre lontano domina, nella sua superba solitudine,
quasi simbolo ammonitore di una pace ottenuta solo nel
distacco dal mondo, l'eremo di Camaldoli. La corsa
affannosa di Bonconte, nel vano tentativo di salvarsi
dall'odio dei nemici, non è nascosta subito dal fango,
ma campeggia in tutto il piano, diventando qualcosa di
epico: il suo sangue è "una striscia che riga la pianura
con straziante evidenza" (Puppo), in contrapposto al
lento allargarsi della pozza di sangue di Jacopo. Il
paesaggio, prima così nitido e preciso, osservato quasi
con gli occhi di un capo militare, ancora padrone di sé,
si vela improvvisamente davanti a lui, mentre appare il
lume del ciel, finché anche per lui "il cadere e il
morire è tutt'uno. Non rimane che il peso inerte della
carne; sola perché senz'anima; sola anche materialmente,
un piccolo mucchio nella vasta campagna. I due versi
precedenti costituiscono un'unità ritmica che si arresta
sul caddi: poi, il rimanente del verso terzo ha suono
martellato e solenne" (Bosco), segnando in tal modo "tre
gradi della morte: il velarsi della vista, lo spegnersi
sulle labbra della parola, il cadere". |
103 |
Io dirò
vero, e tu 'l ridì tra ' vivi:
l'angel di Dio mi prese, e quel d'inferno
gridava: "O tu del ciel, perché mi privi? |
|
103 |
Ti racconterò cose vere e
tu le riferirai nel mondo dei vivi: l'angelo di Dio
prese la mia anima, mentre il diavolo gridava: "Perché
mi privi di quest'anima peccatrice, tu che sei un angelo
del cielo? |
106 |
Tu te ne
porti di costui l'etterno
per una lagrimetta che 'l mi toglie;
ma io farò de l'altro altro governo!". |
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106 |
Porti via con te l'anima
di costui per una lagrimuccia che me la sottrae; ma
userò per il corpo (dell'altro) un trattamento ben
diverso!" |
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L'episodio di Bonconte s'inoltra nella parte più
propriamente fantastica, dove il Poeta risolve in
termini inventivi quella che era l'ipotesi comune
intorno alla scomparsa di Bonconte, e di molti altri,
dopo la battaglia di Campaldino: che i loro corpi
fossero stati travolti dalle acque dell'Arno in piena.
La critica, concordemente accosta questo contrasto fra
l'angelo e il diavolo (uno dei tanti "contrasti" della
tradizione letteraria e figurativa del Medioevo) a
quello fra San Francesco e il diavolo per l'anima del
padre di Bonconte, Guido, nel canto XXVII dell'Inferno.
Poiché la ricerca di simmetria ha un suo profondo valore
in Dante, nella convergenza o divergenza di significati,
occorre rilevare - d'accordo col Sapegno - che mentre
quel primo contrasto voleva indicare l'inutilità di un
lungo periodo di penitenza, se esso è interrotto da un
peccato senza pentimento, questo sottolinea come un solo
attimo di penitenza basta a salvare un'anima, essendo il
giudizio di Dio indipendente dalla opinione umana. |
109 |
Ben sai come
ne l'aere si raccoglie
quell' umido vapor che in acqua riede,
tosto che sale dove 'l freddo il coglie. |
|
109 |
Tu sai con chiarezza come
nell'aria si raccoglie il vapore acqueo che si trasforma
di nuovo in acqua, non appena sale nella regione fredda
del cielo. |
112 |
Giunse quel
mal voler che pur mal chiede
con lo 'ntelletto, e mosse il fummo e 'l vento
per la virtù che sua natura diede. |
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112 |
Sopraggiunse il diavolo
che desidera soltanto il male con il suo intelletto, e
provocò il vapore acqueo e il vento con quel potere che
gli proviene dalla sua natura. |
115 |
Indi la
valle, come 'l dì fu spento,
da Pratomagno al gran giogo coperse
di nebbia; e 'l ciel di sopra fece intento, |
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115 |
Poi, non appena giunse la
notte, coperse di nebbia la valle (di Campaldino) dal
monte Pratomagno alla Giogaia di Camaldoli; e provocò
nel cielo un così grande ammasso di vapori, |
118 |
sì che 'l
pregno aere in acqua si converse;
la pioggia cadde, e a' fossati venne
di lei ciò che la terra non sofferse; |
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118 |
che l'aria satura di nubi
si convertì in acqua: cadde la pioggia e quella parte di
essa che la terra non riuscì ad assorbire si raccolse
nei fossi; |
121 |
e come ai
rivi grandi si convenne,
ver' lo fiume real tanto veloce
si ruinò, che nulla la ritenne. |
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121 |
e quando raggiunse i
torrenti, si convogliò verso l'Arno (fiume real: secondo
l'espressione usata nel Medioevo per indicare i fiumi
che sfociano in mare) con tanta velocità, che nessun
ostacolo potè trattenerla. |
124 |
Lo corpo mio
gelato in su la foce
trovò l'Archian rubesto; e quel sospinse
ne l'Arno, e sciolse al mio petto la croce |
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124 |
L'Archiano in piena trovò
il mio cadavere alla sua foce, e lo spinse nell'Arno, e
sciolse dal mio petto la croce |
127 |
ch'i' fe' di
me quando 'l dolor mi vinse;
voltòmmi per le ripe e per lo fondo,
poi di sua preda mi coperse e cinse». |
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127 |
che avevo fatto delle mie
braccia quando mi aveva sopraffatto il dolore del
pentimento: mi voltò lungo le rive e sul fondo; poi mi
coperse e mi nascose con i suoi detriti.» |
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Poiché é la voce di Bonconte che racconta, la lunga
inserzione scientifica, se pare diminuire
momentaneamente il grado di tensione, testimonia il
distacco con cui il penitente osserva l'ultimo giorno
della sua. vita. La salma diventa ara "il punto,
prospettico di convergenza del fantastico e grandioso
quadro della bufera ..." (Mattalia); contro di essa si
getterà il movimento che, iniziato con ritmo. dapprima
lento, (mosse il fummo e 'l vento), assumerà man mano,
nelle diverse fasi, un impeto travolgente (si converse..
cadde... venne... si convenne si, ruinò ... ), finché
troverà la sua preda. C'è un accanimento al quale hanno
concorso le forze naturali e quelle savrannaturali,
laddove contro Manfredi (al cui episodio ci riporta la
scena della tempesta e dell'oltraggio fatto al corpo)
era soprattutto il cieco odio di una povera umanità che
ignorava la misericordia divina. Dapprima l'anima
distingue separato da sé il suo corpo gelato, chiuso
nella maestà della morte, ma, quando l'acqua lo
ghermisce trascinandolo con sé, "improvvisamente essa si
identifica con questo, dice voltommi; dice mi coperse e
cinse. Torna dunque alla fine esplicito l'accoramento di
Bonconte per fl misero corpo: accoramento per la cieca
crudeltà degli uomini".(Bosco) |
130 |
«Deh, quando
tu sarai tornato al mondo
e riposato de la lunga via»,
seguitò 'l terzo spirito al secondo, |
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130 |
«Quando sarai tornato nel
mondo, e ti sarai riposato del lungo cammino», disse un
altro spirito dopo il secondo, |
133 |
«ricorditi
di me, che son la Pia;
Siena mi fé, disfecemi Maremma:
salsi colui che 'nnanellata pria |
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133 |
«ricordati di Pia: Siena
mi diede i natali; la Maremma mi diede la morte; (come
morii) lo sa colui che prima mi aveva dato l'anello
nuziale |
136 |
disposando
m'avea con la sua gemma». |
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136 |
prendendomi in moglie.» |
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Nei versi 135-136 Dante allude a una sola cerimonia: la
promessa dì prendere in moglie e la consegna
dell'anello, mentre le nozze vere e proprie erano
celebrate più tardi in casa dello sposo. Parla Pia, una
senese appartenente forse alla famiglia dei Tolomei.
Sposò Nello d'Inghiramo dei Pannocchíeschi, signore del
castello della Pietra in Maremma. Secondo alcuni antichi
commentatori sarebbe stata uccisa dal marito che voleva
sposarsi con Margherita Aldobrandeschi, secondo altri
sarebbe stata uccisa per una sua infedeltà, secondo
altri ancora per sospetto di infedeltà.
Se tuttavia la critica romantica ha creato il mito dì
una Pia vittima innocente, contrapposta alla peccatrice
Francesca, non è inutile ricordare che Dante la pone fra
coloro che furono peccatori infino all'ultima ora.
L'apparizione di questa figura, nella quale la preghiera
sicura di sé di Jacopo e quella più incerta e sofferente
di Bonconte, si purifica nella dolce preoccupazione per
Dante (quando tu sarai... riposato della lunga via),
avviene dopo che il crescendo ritmico della bufera si
era placato in uno di quei versi (verso 129) che il
Bosco definisce "definitivi" e che "così
caratteristicamente suggellano in Dante un motivo
drammatico", segnando nella "sinfonia lo stacco tra il
terzo tempo, così mosso e drammatico, e il quarto, un
pianissimo elegiaco". Ma anche se, sempre secondo
l'analisi del Bosco, la poesia dei due episodi
precedenti è « fatto », perché è soprattutto costituita
dal paesaggio, dal gesto, dal colore, è "un visibile
parlare e soffrire", non si possono dissolvere le parole
di Pia in una semplice suggestione musicale, come tende
a fare anche il Momigliano. Il verso 134 ha una sua
forza interiore che ripropone ancora una volta il tema
del distacco (disfecemi) innaturale dell'anima dal
corpo, anche se il movimento drammatico dei due episodi
precedenti "si contrae e si smorza nell'ultimo, che da
questa smorzatura musicale acquista il suo fascino
poetico" (Puppo), anche se Pia, più ancora che Jacopo e
Bonconte, vela la sua vita e la sua morte, e,
nell'accenno a colui che fu causa della sua fine,
accanto al perdono, fa vibrare pur sempre un sentimento
di amore. |
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