|
DIVINA
COMMEDIA: PARAFRASI
PURGATORIO
CANTO VI° |
 |
 |
 |
 |
1 |
Quando si
parte il gioco de la zara,
colui che perde si riman dolente,
repetendo le volte, e tristo impara; |
|
1 |
Quando si divide e si scioglie il gruppo dei giocatori
nel gioco dei dadi, il perdente resta solo e addolorato,
tentando e ritentando nuove gettate, e malinconico cerca
di imparare (a far meglio per il futuro) |
4 |
con l'altro
se ne va tutta la gente;
qual va dinanzi, e qual di dietro il prende,
e qual dallato li si reca a mente; |
|
4 |
mentre tutti g li
spettatori se ne vanno col vincitore; c'è chi gli va
innanzi, e chi lo sollecita tirandogli l'abito alle
spalle, e chi gli si raccomanda standogli di fianco: |
7 |
el non
s'arresta, e questo e quello intende;
a cui porge la man, più non fa pressa;
e così da la calca si difende. |
|
7 |
ma il vincitore non si
ferma, e porge orecchio ora a questo ora a quello; colui
al quale tende la mano (dandogli qualche cosa), non
insiste più; e in tal modo egli si difende dalla ressa. |
|
Il Poeta allude a un gioco di dadi diffusissimo. benché
vietato dagli statuti comunali, nel secolo XIV in tutta
Italia (e in molte parti d'Europa), consistente
nell'indovinare in anticipo i numeri che risultavano
dalla combinazione di tre dadì gettati su un tavoliere,
mentre intorno ai giocatori si affollavano i curiosi:
una scena alla quale Dante avrà tante volfe assistito
sulla piazza del Mercato Vecchio di Firenze. Questa
osservazione dal vero spiega il realismo dal ritmo
vivace e incalzante di questa similitudine, staccando
decisamente l'esordio del canto VI dal tono mestamente
elegiaco con il quale terminava il canto precedente, La
differenza tonale ha fatto osservare al Gentile che "la
tragedia scende fino alla farsa", e al Momigliano che "I'immagine
è lavorata come un pezzo a sé, con una scarsa aderenza
al contesto". Tuttavia se la mescolanza di stili (tante
volte osservata nell'Inferno) si giustifica con la
libertà di cui il Poeta deve disporre per realizzare di
volta in volta la sua ispirazione, la sua presenza anche
nel Purgatorio non può essere motivo di stupore, anche
perché "in Dante la preoccupazione della sintonia che
diremo interna, qualitativa, delle comparazioni non è
costante né preminente" (Mattalia). Inoltre,
considerando l'importanza che il Poeta conferisce sempre.agli
esordi dei canti, non si può non vedere nella
similitudine della zara il contrappunto alla solennità
dell'episodio di Sordello e nello stesso tempo il
richiamo al tema fondamentale della seconda cantica, la
richiesta di preghiere: richiamo tanto più importante in
quanto proviene da coloro che furono vittime della
malvagità del mondo e che ora sono uniti al mondo solo
dal sacro legame della preghiera. |
10 |
Tal era io
in quella turba spessa,
volgendo a loro, e qua e là, la faccia,
e promettendo mi sciogliea da essa. |
|
10 |
Così mi trovavo io in
mezzo a quella fitta schiera, guardando verso di loro
ora a destra, ora a sinistra, e promettendo (di fare
quanto ciascuno mi chiedeva) me ne liberavo. |
13 |
Quiv' era l'Aretin
che da le braccia
fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte,
e l'altro ch'annegò correndo in caccia. |
|
13 |
Tra quelle anime c'era l'Aretino che fu ucciso
ferocemente da Ghino di Tacco, e l'altro (Guccio dei
Tarlati) che annegò mentre inseguiva i nemici. |
|
Dante inizia la rassegna delle anime dei morti
violentemente con la figura di Benincasa da Laterina
(nel territorio di Arezzo), famoso giureconsulto del
XIII secolo. Mentre era vicario del podestà di Siena,
condannò a morte uno zio e un fratello di Ghino di
Tacco, un senese divenuto famoso "per la sua fierezza e
per le sue ruberie" (Boccaccio - Decamerone X, II, 5),
il quale si vendicò uccidendo Benincasa in una sala dei
tribunale a Roma.
L'attro ch'annegò correndo in caccia è Guccio dei
Tarlati da Pietramala, appartenente a una famiglia
ghibellina di Arezzo, vissuto nella seconda metà dei
'200; mori annegando nell'Arno, mentre combatteva contro
i fuorusciti guelfi della famiglia dei Bostoli. |
16 |
Quivi
pregava con le mani sporte
Federigo Novello, e quel da Pisa
che fé parer lo buon Marzucco forte. |
|
16 |
Qui pregava con le mani tese Federigo
Novello, e qui c'era Gano, il quale dette al padre, il
virtuoso Marzucco, l'occasione di mostrare la sua forza
d'anímo. |
|
Federigo Novello dei conti Guidi fu ucciso nel 1289 o
nel 1291 presso Bibbiena da uno dei Bostoli.
Quel da Pisa fu, secondo gli antichi commentatori,
Farinata, figlio di Marzucco degli Scornigiani, e venne
assassinato da un pisano suo concittadino; secondo gli
ultimi studi si tratterebbe invece di Gano, un altro
figlio di Marzucco, che fu fatto uccidere dal conte
Ugolino nel 1287. Marzucco era entrato l'anno prima
nell'ordine francescano, e dimostrò la sua forza d'animo
sia nell'accettazione serena di quel dolore, sia nella
decisione con la quale si oppose ad ogni tentativo di
vendetta da parte dei suoi consorti: "e così ordinò poi
che si fece la pace, ed elli volse baciare quella mano
che avea morto lo suo figliuolo".(Buti) |
19 |
Vidi conte
Orso e l'anima divisa
dal corpo suo per astio e per inveggia,
com' e' dicea, non per colpa commisa; |
|
19 |
Vidi il conte
Orso e vidi pure colui che ebbe l'anima divisa dal suo
corpo per odio e per invidia, com'egli diceva, e non per
colpa commessa; |
22 |
Pier da la
Broccia dico; e qui proveggia,
mentr' è di qua, la donna di Brabante,
sì che però non sia di peggior greggia. |
|
22 |
voglio dire Pierre de la Brosse (Pier dalla Broccia); e
riguardo a ciò, mentre è ancora in vita, la regina di
Brabante provveda (in tempo a purificarsi del male
commesso), onde per questo non vada a far parte di una
moltitudine peggiore (di quella di cui fa parte Pierre
de la Brosse, cioè fra i falsi accusatori della decima
bolgia). |
|
Orso degli Alberti, figlio del conte Napoleone, fu
ucciso nel 1286 dal cugino Alberto, figlio del conte
Alessandro. Continuava in tal modo la catena di odi e di
vendette sanguinose che era iniziata con i padri di Orso
e Alberto, che Dante ha posto nella Caina (Inferno XXXII
, 41 sgg.).
Pierre de la Brosse, nato da umile famiglia, divenne
medico alla corte di Francia al tempo di Luigi IX e di
Filippo III l'Ardito, dal quale fu nominato gran
ciambellano. Allorché nel 1276 morì misteriosamente il
primogenito di Filippo, Luigi, egli accusò Maria di
Brabante, seconda moglie del re, di esserne responsabile
per potere, in tal modo, assicurare il trono al proprio
figlio Filippo il Bello. Attiratosi l'odio della regina,
due anni dopo, durante la guerra tra la Francia e
Alfonso X di Castiglia, fu accusato di tradimento e
condannato a morte. Secondo alcuni antichi commentatori,
invece, la regìna lo avrebbe accusato di avere tentato
di sedurla. Dante lo considera innocente e vittima, come
Pier delle Vigne, dell'invidia, morte comune, delle
corti vizio (Inferno XIII, 60). |
25 |
Come libero
fui da tutte quante
quell' ombre che pregar pur ch'altri prieghi,
sì che s'avacci lor divenir sante, |
|
25 |
Quando fui libero da tutte quelle anime che mi pregavano
soltanto perché inducessi altri a pregare per loro, in
modo da affrettare la loro purificazione, |
28 |
io
cominciai: «El par che tu mi nieghi,
o luce mia, espresso in alcun testo
che decreto del cielo orazion pieghi; |
|
28 |
io dissi a Virgilio:
«Sembra, o maestro, che in un passo del tuo poema tu
neghi esplicitamente, che la preghiera possa mutare un
decreto divino; |
31 |
e questa
gente prega pur di questo:
sarebbe dunque loro speme vana,
o non m'è 'l detto tuo ben manifesto?». |
|
31 |
e queste anime soltanto
per questo pregano: la loro speranza sarebbe dunque
vana, oppure non mi è ben chiaro il tuo testo?». |
34 |
Ed elli a
me: «La mia scrittura è piana;
e la speranza di costor non falla,
se ben si guarda con la mente sana; |
|
34 |
Ed egli mi rispose, «La
mia espressione è chiara; e la speranza di costoro non è
fallace, se si medita bene con la mente sgombra da
erronee opinioni; |
37 |
ché cima di
giudicio non s'avvalla
perché foco d'amor compia in un punto
ciò che de' sodisfar chi qui s'astalla; |
|
37 |
poiché la sublime altezza
del giudizio divino non s'abbassa per il fatto che
l'ardore di carità (di chi prega per costoro) porti a
perfezione in un momento solo quell'espiazione a Dio
dovuta da chi ha in questo luogo la sua dimora; |
40 |
e là dov' io
fermai cotesto punto,
non s'ammendava, per pregar, difetto,
perché 'l priego da Dio era disgiunto. |
|
40 |
e in quel passo dove feci
questa affermazione, la mancanza dell'espiazione non
poteva essere corretta con la preghiera, perché essa era
da Dio (essendo fatta da pagani). |
|
Dante ricorda la risposta che la Sibilla diede a
Palinuro, il quale la pregava di essere traghettato
oltre l'Acheronte pur non avendone diritto, in quanto
era insepolto: "cessa di sperare che i decreti divini
possano essere piegati con la preghiera" (Eneide canto
VI, verso 376). Questa affermazione gli pare in
contrasto con l'atteggiamento delle anime invocanti
preghiere che possano modificare la legge divina, mentre
Virgilio chiarisce il dubbio: la preghiera nel mondo
pagano non era indirizzata al vero Dio, perciò essa non
poteva offrire alcun aiuto, né sopperire ad alcuna
mancanza (nel caso di Palinuro la mancanza di
sepoltura), mentre la preghiera cristiana soddisfa
quanto richiede la sentenza divina, la quale resta
immutabile, ma permette, con la sua misericordia, che
venga completato, attraverso questo foco d'amor, il
riscatto che è dovuto dall'anima del peccatore.
Digressione oziosa secondo alcuni critici (Momigliano),
secondo altri invece (Mattalia), è un interessante
documento storico-culturale: esso infatti testimonia la
lettura in chiave allegorica che veniva fatta delle
opere classiche nel Medioevo, allorché gli interpreti,
con squisite sottigliezze, cercavano "il punto
d'incontro e di sutura tra la « favola » e la lettera
del testo interpretato, e le verità «cristiane» che
dall'una e dall'altro s'intendeva ricavare". Tuttavia
questi versi costituiscono un'opaca pausa meditativa
condotta secondo uno stanco modulo didascalico (el par
che tu mi nieghi... la mia scrittura è piana) che il
Poeta tenta faticosamente di risollevare con la
preziosità espressiva del verso 37, nella ricercata
contrapposizione di cima a s'avvalla, riuscendo forse
meglio a determinare il suo pensiero nell'improvviso
lampeggiare di quel foco damor che dalla terra sembra
innalzarsi per muovere chi qui si stalla. |
43 |
Veramente a
così alto sospetto
non ti fermar, se quella nol ti dice
che lume fia tra 'l vero e lo 'ntelletto. |
|
43 |
Tuttavia non devi fermare
il travaglio della tua mente di fronte a un dubbio così
arduo, se non te lo dirà colei che farà da tramite tra
la verità (sovrannaturale) e il tuo intelletto: |
46 |
Non so se 'ntendi:
io dico di Beatrice;
tu la vedrai di sopra, in su la vetta
di questo monte, ridere e felice». |
|
46 |
non so se mi comprendi; io
intendo parlare di Beatrice: tu la vedrai in alto, sulla
vetta di questo monte, sorridente e felice». |
49 |
E io: «Segnore,
andiamo a maggior fretta,
ché già non m'affatico come dianzi,
e vedi omai che 'l poggio l'ombra getta». |
|
49 |
E io gli dissi: «Sìgnore,
camminiamo più in fretta, perché ora non sento più la
fatica come prima, e vedi ormai che il monte (essendo le
prime ore del pomeriggio) proietta la sua ombra». |
52 |
«Noi anderem
con questo giorno innanzi»,
rispuose, «quanto più potremo omai;
ma 'l fatto è d'altra forma che non stanzi. |
|
52 |
Egli rispose:
«Continueremo ormai a salire finché dura il giorno,
quanto più potremo; ma la realtà è diversa da quello che
tu giudichi. |
|
Virgilio, che aveva terminato la sua spiegazione
esortando il discepolo a completare la chiarificazione
offertagli dalla ragione con quella che farà Beatrice,
quale simbolo della teologia, anticipa quasi una visione
paradisiaca (versi 47-48), davanti alla quale Dante
assume un atteggiamento "così schietto e ingenuo che ha
qualche cosa dell'infantile", compiendo "lui le parti
che di solito fa Virgilio, stimolando alla fretta...
affermando anche di non sentir più la fatica di prima,
il che non è vero o è un effetto tutto psicologico
dell'idea di veder Beatrice" (Porena). Con questo tratto
umanissimo il Poeta dissipa la durezza narrativa dei
versi precedenti, incentrando nella sua figura quello
slancio d'ascesa che si manifesterà come desiderio di
ordine morale e come forza di missione profetica
nell'episodio di Sordello. Questa particolare
prospettiva giustifica la dimensione strutturale e
poetica della rassegna delle anime (versi 13-24), che,
ben lontana dal voler "glorificare talune illustri
casate toscane", come invece ritiene il Novati,
profilava "a poco a poco l'immagine di una società
profondamente corrotta, in cui è venuto meno ogni senso
di ordine e di giustizia: prepotenza di tiranni e di
briganti, guerre di comuni e di partiti, smania di
dominio e di ricchezza che acquisce fino al delitto le
rivalità familiari, invidie e calunnie cortigiane" (Sapegno),
spingendo il Poeta "a riprendere in esame le cause
profonde di questa ingiustizia e di questo disordine
sociale". |
55 |
Prima che
sie là sù, tornar vedrai
colui che già si cuopre de la costa,
sì che ' suoi raggi tu romper non fai. |
|
55 |
Prima che tu giunga sulla
vetta, vedrai sorgere più volte, il sole, che ora già si
nasconde dietro la costa del monte, cosicché tu non
interrompi più i suoi raggi (proiettando la tua ombra). |
58 |
Ma vedi là
un'anima che, posta
sola soletta, inverso noi riguarda:
quella ne 'nsegnerà la via più tosta». |
|
58 |
Ma vedi là quell'anima che
sta tutta sola e che guarda insistentemente verso di
noi: essa ci mostrerà la via più breve». |
|
Quella che appare è l'anima di Sordello da Goito (nel
Mantovano), nato da una famiglia di nobìltà campagnola
all'inizio del '200. Fu il più famoso fra i trovatori
italiani e Dante nel De Vulgari Eloquentia (I, XV, 2)
loda grandemente la sua poesia. Dapprima visse alla
corte di Riccardo di San Bonifacio, signore di Verona,
la cui moglie, Cunizza da Romano, celebrò nei suoi
versi. Tra il 1224-1226 rapì o favorì la fuga di Cunizza
dalla casa del marito, e fu costretto a riparare nella
Marca Trivigiana; ma dovette ben presto, in seguito, ad
altre non chiare vicende, rifugiarsi alla corte di
Raimondo Berlinghieri, in Provenza. Passò poi al
servizio di Carlo d'Angiò, seguendolo nella spedizione
in Italia contro Manfredi e ricevendo in feudo alcune
località dell'Abruzzo. Morì intorno al 1270.
Uno dei motivi principali per cui Dante lo ha scelto
come protagonista dell'episodio che si apre, è da
vedersi in due componimenti poetici di Sordello, il
Compianto per la morte di ser Blacatz, in cui sottopone
a severo e spregiudicato giudizio i re e i principi del
suo tempo, e il poemetto Ensenhamen d'onor, nel quale
rimprovera quei ricchi e quei potenti che si sono
allontanati dalle leggi di cortesia e di virtù proprie
del mondo cavalleresco. A buon diritto perciò, isolata
dalle altre anime della "valletta fiorita", la sua
figura in questo canto può offrire l'occasione di
criticare il disordine politico del mondo e nel canto
successivo la sua voce può indicare e giudicare i
potenti della terra. |
61 |
Venimmo a
lei: o anima lombarda,
come ti stavi altera e disdegnosa
e nel mover de li occhi onesta e tarda! |
|
61 |
Ci avviammo verso di lei:
o anima lombarda, come te ne stavi altera e sdegnosa e
com'eri dignitosa e grave nel muovere i tuoi occhi! |
64 |
Ella non ci
dicëa alcuna cosa,
ma lasciavane gir, solo sguardando
a guisa di leon quando si posa. |
|
64 |
Essa non ci diceva nulla,
ma ci lasciava avanzare, seguendoci solo con lo sguardo
attento come un leone quando si riposa. |
67 |
Pur Virgilio
si trasse a lei, pregando
che ne mostrasse la miglior salita;
e quella non rispuose al suo dimando, |
|
67 |
Soltanto Virgilio le si
avvicinò, pregandola che ci indicasse la strada migliore
per salire; ed essa non rispose alla sua domanda, |
70 |
ma di nostro
paese e de la vita
ci 'nchiese; e 'l dolce duca incominciava
«Mantüa...», e l'ombra, tutta in sé romita, |
|
70 |
ma chiese notizie sulla
nostra patria e sulla nostra condizione; e mentre la mia
dolce guida cominciava a dire: «Mantova ...», quell'ombra,
tutta solitaria e raccolta in se stessa, |
73 |
surse ver'
lui del loco ove pria stava,
dicendo: «O Mantoano, io son Sordello
de la tua terra!»; e l'un l'altro abbracciava. |
|
73 |
si levò dal luogo dove
stava prima protendendosi verso di lui, dicendo: «O
mantovano, io sono Sordello, della tua stessa terra!»; e
si abbracciavano l'un l'altro. |
|
Tutta la critica romantica ha visto in Sordello la
figura stessa dell'Alighieri, ardente di amor di patria,
cercando nell'atteggiamento e nel gesto del trovatore
mantovano l'atteggiamento e il gesto del Poeta
fiorentino. Ma se grande fu la simpatia "che Dante,
poeta ed esule, errabondo di corte in corte, dovette
sentire per questo poeta, protagonista di una fortunosa
vicenda biografica, uomo di corte e pur ardito giudice
di re e principi" (Mattalia), evidenziare i punti di
contatto non significa dimenticare la sapientissima
costruzione poetica della sua figura. La solitudine e il
silenzio del paesaggio al tramonto - secondo
l'osservazione del Momigliano - si legano con la
solitudine e il silenzio di Sordello, accrescendone la
solennità, avvertendo che la vita del personaggio
procede tutta da una concentrazione spirituale, da una
tensione (o anima lombarda, come ti stavi altera e
disdegnosa), la quale, chiude nell'intimo questa
immagine statuaria "più sbozzata forse che accuratamente
scolpita" (Novati) e che rivelerà la sua violenza nel
gesto improvviso, animando esteriormente il suo dramma.
Il Croce ha definito Sordello il Farinata del
Purgatorio, puntualizzando la stessa imponenza fisica e
la stessa grandezza morale e politica, ma "in Farinata
non c'è raccoglimento bensì un imporsi per mezzo di
sentimenti umani violenti, e un proceder per spigoli del
discorso e un intervallar frequente di pause... qui è
una solennità pacata che irradia una luce la quale ha in
sé una forza nascosta d'attrazione; la poesia di
Sordello si scioglie in un impeto di calore affettivo,
il quale è il termine di quella sua chiusa interiorità
che l'ha fatta maestosa. Per questo il moto espressivo
ha una caratteristica apertura, ed entro questo tono il
canto si sviluppa nell'invettiva all'Italia, che è
oratoria retta da sostenutezza sentimentale ed
espressiva".(Malagoli) |
76 |
Ahi serva
Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di province, ma bordello! |
|
76 |
Ahi, schiava Italia,
albergo di dolori, nave senza pilota nel mezzo d'una
immane tempesta, non più signora di popoli, ma luogo di
turpitudine! |
79 |
Quell' anima
gentil fu così presta,
sol per lo dolce suon de la sua terra,
di fare al cittadin suo quivi festa; |
|
79 |
Quell'anima nobile lì, nel
purgatorio, fu così pronta a far festa al suo
concittadino, solo al sentire il dolce suono del nome
della sua terra; |
82 |
e ora in te
non stanno sanza guerra
li vivi tuoi, e l'un l'altro si rode
di quei ch'un muro e una fossa serra. |
|
82 |
mentre ora dentro i tuoi
confini non sanno stare senza guerra i tuoi abitanti, e
quelli che sono chiusi entro le mura e il fossato (d'una
stessa città) si dilaniano l'un l'altro. |
85 |
Cerca,
misera, intorno da le prode
le tue marine, e poi ti guarda in seno,
s'alcuna parte in te di pace gode. |
|
85 |
Guardati, infelice,
intorno cominciando dalle coste del mare che ti
circonda, e osserva poi il tuo territorio interno, e
vedi se ti riesce di trovare una regione sola che goda
pace. |
|
Termini pregnanti di significato politico o giuridico e
metafore di larga analogia, espressioni di pacata
dolcezza e immagini di aspra violenza contraddistinguono
la prima parte dell'invettiva, che secondo il Gentile si
svolge in quattro motivi: "apostrofe all'Italia lacerata
dalle fazioni, dimentica delle sacre leggi pacificatrici
dell'Impero (versi 76-96); apostrofe all'imperatore
tedesco distratto, immemore, negligente del suo divino
mandato (versi 97-117); invocazione di Dio, che solo
conosce le ragioni e i fini del disordine politico e
sociale che permette (versi 118-126); invettiva
ferocemente sarcastica contro Firenze: la grande inferma
(versi 127-151)".
L'aggettivo serva richiama molteplici passi della
Monarchia, dove il concetto di servitù, nel campo
morale, è legato al peccato, nel campo politico, alla
mancanza di leggi, essendo veramente libero solo chi
vive secondo la legge morale e politica. Già nel
Convivio (IV, IV, 5) la nave è figura della comunità,
dello Stato, in cui un potere supremo unifica le
funzioni e le suddivisioni dei singoli, mentre in una
glossa del Corpus luris Civilis (la famosa raccolta di
leggi fatta fare da Giustiniano) l'Italia viene chiamata
"non provincia sed dornina provinciarum, non semplice
provincia, ma prima fra tutte le province. Dopo il primo
furore biblico, lo sguardo del Poeta ritorna al gruppo
di Virgilio e di Sordello, uniti dal vincolo dell'amor
di patria anche nell'oltretomba, mentre in Italia ogni
comunità civile si è sfaldata, effetto ultimo e più
grave del disordine politico che dilaga nella penisola.
Balza evidente da questa requisitoria "la idea e il
sentimento di patria, come elemento primo e assoluto di
fusione o di conciliazione o di caldi incontri, al di
sopra di ogni distinzione e considerazione. A Farinata
Dante, per il convegno di Empoli, ha perdonato in parte
Montaperti, pesando sulla giusta bilancia il bene e il
male, ma non ha forse dimenticato di esserne stato
accolto col moto sopraccillare di nobilesco disdegno
proprio di chi ama segnare, socialmente e politicamente,
le distanze. Si può osservare che l'esempio offerto da
Virgilio e Sordello è di amor patrio regionale o
municipale, non nazionale, come amarono vedere gli
interpreti dell'Ottocento: la requisitoria di Dante, in
effetti, che per questo riprende e inquadra in una
prospettiva più ampia il motivo politico del VI canto
dell'Inferno, (dramma di Firenze), corre sul
binario-motivo del disordine generale dovuto alla
carenza dell'autorità imperiale, estesosi fino ad
alterare e dissociare le fibre delle collettività
comunali, E dall'indicazione delle cause generali
(carenza dell'autorità imperiale degradazione,
apportatrice di confusione, del magistero spirituale
della Chiesa) la spietata e dura diagnosi procede,
esemplificando, fino a concludersi con l'amaro-sardonico
elogio dì Firenze, esempio quintessenziale di feroce
lacerazione e di instabilità politica. Altro e diretto
punto di raccordo col VI dell'Inferno".(Mattalia) |
88 |
Che val
perché ti racconciasse il freno
Iustinïano, se la sella è vòta?
Sanz' esso fora la vergogna meno. |
|
88 |
A che è servito che
Giustiniano ti abbia aggiustato il freno del vivere
civile (con le leggi) se ora non hai in sella
l'imperatore (che fa osservare le leggi)? Senza questo
freno oggi la tua vergogna sarebbe minore (perché un
popolo senza leggi non è colpevole della sua anarchia). |
91 |
Ahi gente
che dovresti esser devota,
e lasciar seder Cesare in la sella,
se bene intendi ciò che Dio ti nota, |
|
91 |
Ahi, gente di Chiesa, che
dovresti dedicarti solo a opere di pietà, e lasciar
sedere l'imperatore sulla sella (a esercitare l'autorità
civile), se comprendi rettamente quello che Dio ti ha
prescritto, |
94 |
guarda come
esta fiera è fatta fella
per non esser corretta da li sproni,
poi che ponesti mano a la predella. |
|
94 |
osserva come questa
cavalla è diventata ribelle per il fatto che non è
guidata e domata dagli speroni dell'imperatore, da
quando hai preso in mano la sua briglia. |
|
La missione che Dante si è proposto è una missione di
salvezza spirituale e insieme di salvezza terrena,
essendo la prima, nel suo pensiero, legata alla seconda,
cioè alla efficiente ricostituzione dell'impero, che,
solo, può garantire all'umanità la pace e la giustizia
di cui essa ha bisogno al fine di conseguire la felicità
temporale: questa, eliminando ogni odio e divisione e
aiutando l'uomo ad esplicare le sue virtù, crea le
premesse della felicità eterna. Giustiniano (imperatore
d'Oriente dal 527 al 565), riordinando il diritto romano
nel suo Corpus Iuris (base di tutta la dottrina
giuridica del medioevo), e costituendolo fondamento di
ogni vivere civile, aveva voluto essere "lo cavalcatore
de la umana volontade. Lo quale cavallo come vada sanza
lo cavalcatore per lo campo assai è manifesto, e
spezialmente ne la misera Italia, che sanza mezzo alcuno
a la sua governazione è rimasa!" (Convivio IV, IX, 10).
Quello, però, che ha concorso grandemente alla rovina
dell'autorità imperiale è stato l'intervento in campo
temporale della Chiesa, che ha violato l'ordine
esplicito di Cristo (Matteo XXII, 21; Giovanni XVIII,
36). |
97 |
O Alberto
tedesco ch'abbandoni
costei ch'è fatta indomita e selvaggia,
e dovresti inforcar li suoi arcioni, |
|
97 |
O Alberto
d'Asburgo, che abbandoni a se stessa questa cavalla
divenuta indomita e selvaggia, mentre dovresti inforcare
i suoi arcioni, |
100 |
giusto
giudicio da le stelle caggia
sovra 'l tuo sangue, e sia novo e aperto,
tal che 'l tuo successor temenza n'aggia! |
|
100 |
scenda dal
cielo una giusta punizione sopra te e la tua stirpe, e
sia una punizione inaudita e chiara, e tale che il tuo
successore ne concepisca timore! |
103 |
Ch'avete tu
e 'l tuo padre sofferto,
per cupidigia di costà distretti,
che 'l giardin de lo 'mperio sia diserto. |
|
103 |
Perché tu e il padre tuo,
tutti presi dalla cupidigia degli interessi della
Germania, avete tollerato che l'Italia, il giardino
dell'impero, fosse devastata. |
|
Alberto I d'Asburgo fu imperatore dal 1298 al 1308 e
assorbito, come un tempo il padre Rodolfo I, dalle
preoccupazioni del regno tedesco, trascurò la situazione
politica italiana, sempre più complessa e caotica. Su di
loro il Poeta invoca la vendetta divina che,
nell'interpretazione della maggior parte dei
commentatori, si sarebbe abbattuta con la morte precoce
di Rodolfo, figlio primogenito di Alberto (giugno 1307)
e con la morte dello stesso Alberto (ucciso nel giugno
1308), il cui successore fu Arrigo VII. |
106 |
Vieni a
veder Montecchi e Cappelletti,
Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura:
color già tristi, e questi con sospetti! |
|
106 |
Vieni a vedere, o uomo
senza interesse, i Montecchi e i Cappelletti, i Monaldi
e i Filippeschi: quelli ormai vinti, e questi pieni di
timore! |
109 |
Vien, crudel,
vieni, e vedi la pressura
d'i tuoi gentili, e cura lor magagne;
e vedrai Santafior com' è oscura! |
|
109 |
Vieni, o uomo crudele,
vieni a vedere le umiliazioni e le difficoltà della tua
nobiltà, e poni rimedio alla sua rovina; e vedrai
Santafiora come è tranquilla! |
112 |
Vieni a
veder la tua Roma che piagne
vedova e sola, e dì e notte chiama:
«Cesare mio, perché non m'accompagne?». |
|
112 |
Vieni a vedere la tua Roma
che piange nella sua solitudine e vedovanza, e giorno e
notte invoca: «O mio re, perché mi abbandoni?». |
115 |
Vieni a
veder la gente quanto s'ama!
e se nulla di noi pietà ti move,
a vergognar ti vien de la tua fama. |
|
115 |
Vieni a vedere come la
gente d'Italia si vuol bene! e se non vi è alcun
sentimento di pietà verso di noi che ti possa
commuovere, vieni a cogliere la vergogna del discredito
(che ti sei procurato con il tuo disinteresse). |
|
Dante presenta in sintesi la situazione di colei che
dovrebbe essere, in quanto culla della civiltà romana e
sede della cattedra di Pietro, il giardin dell'Europa.
Non si sa se il Poeta indichi in questi versi famiglie
della stessa città in lotta fra loro o famiglie
ghibelline di città diverse. Secondo le ultime ricerche
storiche, tuttavia, il nome di Montecchi e di
Cappelletti indicava nel '300 non le due famiglie
veronesi nemiche, ma il partito imperiale e quello ante
imperiale, il primo già battuto, il secondo ormai
incapace di dominare i signori delle diverse città.
Mentre questa è la situazione nell'Italia
settentrionale, nell'Italia centrale, a Orvieto, ferve
la lotta fra i Monaldi guelfi e i Filippeschi
ghibellini, ormai prossimi alla rovina, che ha già fatto
scomparire, di fronte all'incalzare dei Comuni. tutte le
famiglie che reggevano feudi imperiali (versi 109-110),
fra le quali anche gli Aldobrandeschi, signori di
Santafiora, nella zona di Monte Amiata.
La degradazione dell'Italia è totale e trascina con sé
anche, Roma, la città imperiale,, la cui immagine di
desolazione e di abbandono richiama un versetto delle
Lamentazioni di Geremia (I, 1) sulla distruzione di
Gerusalemme. |
118 |
E se licito
m'è, o sommo Giove
che fosti in terra per noi crucifisso,
son li giusti occhi tuoi rivolti altrove? |
|
118 |
O Cristo che sulla terra
fosti per noi crocifisso, se ciò mi è permesso, ti
chiedo: la tua giustizia si è rivolta altrove? |
121 |
O è
preparazion che ne l'abisso
del tuo consiglio fai per alcun bene
in tutto de l'accorger nostro scisso? |
|
121 |
Oppure nell'abisso della
tua sapienza permetti, tutto questo in preparazione di
qualche bene totalmente inaccessibile al nostro
intelletto? |
124 |
Ché le città
d'Italia tutte piene
son di tiranni, e un Marcel diventa
ogne villan che parteggiando viene. |
|
124 |
Poiché le città d'Italia
sono tutte piene di tiranni, e qualsiasi villano che
diventa capo di una fazione assume di fronte all'impero
atteggiamento di un Marcello (appartenente al partito
pompeiano e console nel 50 a. C., fu acerrimo nemico di
Cesare). |
127 |
Fiorenza
mia, ben puoi esser contenta
di questa digression che non ti tocca,
mercé del popol tuo che si argomenta. |
|
127 |
Tu Firenze mia, puoi
proprio esser lieta di questa digressione che non ti
sfiora, grazie al tuo popolo che s'ingegna per il tuo
bene. |
|
All'indignazione e al pathos sottentrano nuovamente
l'ironia e il sarcasmo; come se, toccando di Firenze e
accostandosi alla ragione più intima e segreta della sua
pena, il Poeta si sforzasse di allontanare da sé ogni
impulso di compassione e dì giustificazione; ma alla
fine la pietà, lungamente trattenuta, prevale e
l'invettiva torna a risolversi in elegia."(Sapegno) |
130 |
Molti han
giustizia in cuore, e tardi scocca
per non venir sanza consiglio a l'arco;
ma il popol tuo l'ha in sommo de la bocca. |
|
130 |
Molti (in altre città)
hanno in cuore il senso della giustizia, eppure
lentamente si manifesta, per non essere espresso
sconsideratamente; invece il tuo popolo ha sempre la
giustizia sulle labbra. |
133 |
Molti
rifiutan lo comune incarco;
ma il popol tuo solicito risponde
sanza chiamare, e grida: «I' mi sobbarco!». |
|
133 |
Molti (altrove) rifiutano
le cariche pubbliche; invece il tuo popolo senza essere
chiamato risponde sollecito, grìdando: «Io sono pronto
ad accettare il grave peso delle cariche!» |
136 |
Or ti fa
lieta, ché tu hai ben onde:
tu ricca, tu con pace e tu con senno!
S'io dico 'l ver, l'effetto nol nasconde. |
|
136 |
Ora rallegrati, perché ne
hai proprio motivo, tu sei ricca, tu sei in pace, tu sei
saggia! I fatti dimostrano la verità che io affermo. |
139 |
Atene e
Lacedemona, che fenno
l'antiche leggi e furon sì civili,
fecero al viver bene un picciol cenno |
|
139 |
Atene e Sparta, che fecero
le antiche leggi ed ebbero una civiltà tanto elevata,
riguardo a una ordinata vita civile fecero appena un
insignificante tentativo |
142 |
verso di te,
che fai tanto sottili
provedimenti, ch'a mezzo novembre
non giugne quel che tu d'ottobre fili. |
|
142 |
in confronto di te che
decidi provvedimenti tanto ingegnosi e fragili, che
quello che escogiti in ottobre non giunge alla metà di
novembre. |
145 |
Quante
volte, del tempo che rimembre,
legge, moneta, officio e costume
hai tu mutato, e rinovate membre! |
|
145 |
Quante volte, in questi
ultimi anni hai cambiato leggi, moneta, cariche e
costumi e hai rinnovato (secondo il prevalere delle
fazioni e il susseguirsi degli esili) i tuoi cittadini! |
148 |
E se ben ti
ricordi e vedi lume,
vedrai te somigliante a quella inferma
che non può trovar posa in su le piume, |
|
148 |
E se ti ricordi bene e non
sei completamente cieca, ti scoprirai somigliante a
quell'inferma che non riesce a trovare riposo nemmeno
giacendo sulle piume, |
151 |
ma con dar
volta suo dolore scherma. |
|
151 |
e voltandosi e
rivoltandosi sui fianchi, cerca invano di fare schermo
al suo dolore. |
|
|
|
 |
 |
 |
 |
|