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DIVINA
COMMEDIA: PARAFRASI
PURGATORIO
CANTO VII° |
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1 |
Poscia che
l'accoglienze oneste e liete
furo iterate tre e quattro volte,
Sordel si trasse, e disse: «Voi, chi siete?». |
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1 |
Dopo che le accoglienze cortesi e gioiose furono
ripetute più volte, Sordello si tirò indietro, e chiese:
«Ma voi, chi siete?» |
4 |
«Anzi che a
questo monte fosser volte
l'anime degne di salire a Dio,
fur l'ossa mie per Ottavian sepolte. |
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4 |
«Prima che le anime degne
della salvezza (di salire a Dio: in quanto riscattate
dalla morte di Cristo) fossero avviate a questo monte,
io morii e fui sepolto per ordine di Ottaviano. |
7 |
Io son
Virgilio; e per null' altro rio
lo ciel perdei che per non aver fé».
Così rispuose allora il duca mio. |
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7 |
Sono Virgilio; e per
nessun'altra colpa fui escluso dal cielo che per non
aver avuto la fede in Cristo. » In questo modo rispose
allora la mia guida. |
10 |
Qual è colui
che cosa innanzi sé
sùbita vede ond' e' si maraviglia,
che crede e non, dicendo «Ella è... non è...», |
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10 |
Come colui che vede
improvvisamente dinanzi a sé una cosa che desta in lui
stupore, e non sa se credervi o no e dice: «E'... non
è...», |
13 |
tal parve
quelli; e poi chinò le ciglia,
e umilmente ritornò ver' lui,
e abbracciòl là 've 'l minor s'appiglia. |
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13 |
così parve Sordello; quindi abbassò gli occhi, e tornò
in atteggiamento umile verso Virgilio, e l'abbracciò là
dove l'inferiore abbraccia chi gli è superiore ("dal
petto in giù", secondo l'Anonimo Fiorentino). |
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La concitazione che aveva fatto vibrare nei toni
dell'apostrofe e del sarcasmo la seconda parte del canto
sesto si smorza improvvisamente, allorché lo sguardo del
Poeta torna a posarsi sul fraterno gruppo di Sordello e
Virgilio, mentre il ritmo del verso, non più sostenuto
dal movimento passionale dell'invettiva, riacquista una
pacatezza di accenti, velata di commozione, che
preannunzia i tre momenti successivi, la dolente
spiegazione di Virgilio (versi 22-36), la descrizione,
secondo i motivi stilnovistìci, della "valletta fiorita"
(versi 73-81), la rassegna dei principi (versi 88-136).
L'atteggiamento di Sordello, in queste prime terzine, è
ancora ricco di quello slancio di affetto che,
interrompendo la sua immobilità, lo ha spinto verso il
suo concittadino (canto VI, versi 73-75), anche se
subentra un momento di riflessione (si trasse, e disse:
« Voi, chi siete? »), durante il quale però mai rivolge
attenzione a Dante, non accorgendosi, per il momento,
che è ancora vivo, tutto preso ancora da quel sentimento
di amore patrio, che percorrerà, sia pure in forme più
moderate, anche il canto VII. |
16 |
«O gloria di
Latin», disse, «per cui
mostrò ciò che potea la lingua nostra,
o pregio etterno del loco ond' io fui, |
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16 |
Disse: «O gloria di tutti
gli Italiani per mezzo del quale la nostra lingua
(nostra perché ancora usata come strumento culturale)
mostrò tutta la sua potenza espressiva, o pregio eterno
della regione mantovana dov'io nacqui, |
19 |
qual merito
o qual grazia mi ti mostra?
S'io son d'udir le tue parole degno,
dimmi se vien d'inferno, e di qual chiostra». |
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19 |
quale merito
mio o quale grazia divina permette che io ti possa
vedere? Se io sono degno di udire le tue parole, dimmi
se vieni dall'inferno, e da quale cerchio». |
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Tessuta di eloquenza e vagamente retorica appare
l'espressione con la quale Sordello si rivolge a
Virgilio, ma in accordo con la dignità e alterezza che
ne avevano caratterizzato l'apparizione e che ne
sorreggeranno la figura, allorché si assumerà il compito
di indicare e giudicare i principi. Ad una lettura
attenta a cogliere il significato di cui Dante
arricchisce le zone di passaggio fra momenti poetici
particolarmente importanti, non sfugge l'ampliarsi di
dimensioni della figura di Virgilio, attraverso le
parole di Sordello che poetò in provenzale (o gloria de'
Latin... per cui mostrò ciò che potea la lingua nostra):
"Dove a chi ripensi a quanto Dante aveva già scritto nel
Convivio sulla dignità del volgare come lingua capace di
esprimere qualsiasi più alto concetto, il «potere» della
lingua latina, in Virgilio non è certo un « potere »
soltanto retorico, bensì sapienziale: tutto ciò che
poteva essere espresso dal latino precristiano, cioè
dalla lingua che Dante ritiene, nell'ordine naturale,
relativamente perfetta, fu da Virgilio espresso. Il «
tutto » evidentemente non si riferisce alla estensione
quantitativa, bensì alla intensità qualitativa: Virgilio
ha detto le cose più alte che era possibile dire
nell'ordine naturale(Montanari). Giusta glorificazione
nel momento in cui Virgilio affida se stesso e il suo
discepolo alla guida di Sordello. |
22 |
«Per tutt' i
cerchi del dolente regno»,
rispuose lui, «son io di qua venuto;
virtù del ciel mi mosse, e con lei vegno. |
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22 |
Virgilio gli rispose: «Passando attraverso tutti i
cerchi del mondo della dannazione sono giunto in
purgatorio: una forza celeste mi ha mosso, e vengo
assistito da questa. |
25 |
Non per far,
ma per non fare ho perduto
a veder l'alto Sol che tu disiri
e che fu tardi per me conosciuto. |
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25 |
Non per aver commesso qualche colpa, ma per non aver
avuto la vera fede ho perduto la possibilità di vedere
Dio che tu desideri contemplare e che da me fu
conosciuto troppo tardi (dopo la morte). |
28 |
Luogo è là
giù non tristo di martìri,
ma di tenebre solo, ove i lamenti
non suonan come guai, ma son sospiri. |
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28 |
Nell'inferno vi è un luogo
non rattristato da tormenti veri e propri, ma solo dalle
tenebre, dove i lamenti delle anime non risuonano con
acute grida, ma solo con sospiri. |
31 |
Quivi sto io
coi pargoli innocenti
dai denti morsi de la morte avante
che fosser da l'umana colpa essenti; |
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31 |
Là io sono confinato
insieme ai bambini innocenti sorpresi dalla morte prima
d'essere lavati (che fosser... essenti: con il
battesimo) dalla macchia del peccato originale
(dall'umana colpa); |
34 |
quivi sto io
con quei che le tre sante
virtù non si vestiro, e sanza vizio
conobber l'altre e seguir tutte quante. |
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34 |
là mi trovo con coloro che
non si rivestirono delle tre sante virtù (quelle
teologali), ma conobbero e praticarono tutte le altre
(le virtù cardinali), senza commettere alcuna colpa vera
e propria. |
37 |
Ma se tu sai
e puoi, alcuno indizio
dà noi per che venir possiam più tosto
là dove purgatorio ha dritto inizio». |
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37 |
Ma se tu conosci il
cammino e ti è permesso indicarlo, donaci qualche
spiegazione per cui possiamo più celermente giungere là
dove ha veramente inizio il purgatorio». |
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Virgilio ripete intorno al limbo, quanto aveva già detto
a Dante nell'Inferno (canto IV, 33-42): la lunga
digressione non è giustificata da alcun motivo
didascalico, né era richiesta dalla breve domanda di
Sordello (dimmi se vien d'inferno, e di qual chiostra).
Tuttavia essa si sviluppa in profonda unità con le
parole pronunciate dal poeta latino nel terzo canto
(versi 40-44), a chiusura di un momento di profondo
turbamento, che, nato dalla mesta meditazione intorno al
corpo lontano, si era trasformato nel rimpianto per
l'eterna condanna di tutto il suo mondo, e si era chiuso
nella visione della nobile e dolorosa comunione degli «
spiriti magni » esclusa dalla superiore comunione della
rivelazione cristiana. E' un richiamo continuo di motivi
in uno svolgimento per gradi e con vario intreccio che
dimostra la validità di questo giudizio del Momigliano:
nel Purgatorio "la costruzione non è più soltanto
sorretta da motivi geometrici, logici, concettuali [come
nell'Inferno], ma anche da motivi di sentimento e da
un'insolita continuità di azioni. Le quali sono
costituite dalle scene dell'antipurgatorio, da quelle
del purgatorio e da quelle del paradiso terrestre,
diverse fra di loro per scenario e per stati d'animo",
essendo esso "concepito prevalentemente per ambienti,
per stati d'animo".
Nella misura in cui il discepolo avanza nella
purificazione e diminuiscono le possibilità di guida da
parte di Virgilio, bisognoso anch'egli di consiglio in
un mondo che non conosce, la figura del poeta latino, al
quale Dante consacrerà la seconda esaltazione
nell'incontro con Stazio, si chiude in una dolente
elegia fatta di insistenti richiami al castello degli
spiriti grandi.
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40 |
Rispuose:
«Loco certo non c'è posto;
licito m'è andar suso e intorno;
per quanto ir posso, a guida mi t'accosto. |
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40 |
Rispose: «Non ci è imposto di stare in
un luogo fisso; mi è permesso salire e girare intorno al
monte; finché potrò salire, ti accompagnerò per farti da
guida. |
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Le parole di Sordello, loco certo non c'è posto, che
riecheggiano quelle pronunziate da un personaggio
virgiliano nei campi Elisi (Eneide canto VI, verso 673),
indicano probabilmente che tutte le anime
dell'antipurgatorio possono salire lungo le prime balze
del monte senza, naturalmente, oltrepassare la porta del
vero purgatorio. Dante pone Sordello fra coloro che si
pentirono solo alla fine della vita, presentandolo
lontano dal gruppo dei negligenti e altrettanto isolato
rispetto alle anime della "valletta fiorita".
Determinare a quale schiera egli appartenga, non è
problema di facile soluzione, anche se deve essere
scartata la posizione di alcuni critici che, accettando
la notizia di un antico commentatore, Benvenuto da
Imola, secondo la quale Sordello fu fatto uccidere da
Ezzelino da Romano, a causa della sua relazione con
Cunizza, sorella di Ezzelino, pongono il trovatore
mantovano fra i morti violentemente.
Secondo il D'Ancona Dante isola Sordello intendendo in
tal modo "separare e distinguere il fiero mantovano dai
suoi consorti, facendolo poi rientrare nella valletta,
come in sua propria dimora, protagonista dell'episodio
che segue, o perché principe anch'esso... o almeno quale
frequentatore di corti, come ci è ricordato dalla
storia, o meglio, qual giudice, anche in vita, di azioni
e costumi principeschi". |
43 |
Ma vedi già
come dichina il giorno,
e andar sù di notte non si puote;
però è buon pensar di bel soggiorno. |
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43 |
Però vedi come già il
giorno declina, e non è possibile salire di notte;
perciò è opportuno pensare a trovare un luogo piacevole
(bel soggiorno, dove trascorrere il tempo notturno). |
46 |
Anime sono a
destra qua remote;
se mi consenti, io ti merrò ad esse,
e non sanza diletto ti fier note». |
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46 |
Da questa parte a destra
vi sono delle anime appartate: se non ti dispiace, io ti
condurrò presso di esse, e con gioia le conoscerai». |
49 |
«Com' è
ciò?», fu risposto. «Chi volesse
salir di notte, fora elli impedito
d'altrui, o non sarria ché non potesse?». |
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49 |
Virgilio rispose
chiedendo: «Com'è questa legge? Colui che volesse salire
di notte, sarebbe impedito da qualche forza esterna,
oppure non salirebbe per il fatto di non aver in sé la
forza necessaria?». |
52 |
E 'l buon
Sordello in terra fregò 'l dito,
dicendo: «Vedi? sola questa riga
non varcheresti dopo 'l sol partito: |
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52 |
E il nobile Sordello
tracciò col dito una linea in terra, dicendo: «Vedi?
neppure questa linea varcheresti dopo il tramonto del
sole; |
55 |
non però
ch'altra cosa desse briga,
che la notturna tenebra, ad ir suso;
quella col nonpoder la voglia intriga. |
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55 |
non perché al salire sia
d'impedimento nessun'altra cosa se non la tenebra
notturna: questa togliendo la possibilità impaccia la
volontà. |
58 |
Ben si poria
con lei tornare in giuso
e passeggiar la costa intorno errando,
mentre che l'orizzonte il dì tien chiuso». |
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58 |
Certamente durante la
notte, finché l'orizzonte chiude sotto di sé la luce del
giorno, si potrebbe scendere in basso e vagare
camminando intorno alla costa del monte». |
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Significato totalmente allegorico riveste il divieto di
salire il monte dopo il tramonto del sole: senza la luce
della grazia divina (il sole), non è possibile
progredire nella via della purificazione. E' la
ripetizione di un insegnamento evangelico: "Camminate
mentre avete luce ... ; perché chi cammina nel buio, non
sa dove va" (Giovanni XII, 35), ma, essendo le immagini
della luce e della tenebra continuamente ricorrenti
nella liturgia, la terzina costituisce anche un richiamo
al tema liturgico che il Poeta approfondirà nel canto
della « Salve, Regina » (verso 82), la preghiera che i
fedeli innalzano a Maria dopo i vespri ad invocare il
suo aiuto nei dolori della vita, per diventare degni di
vedere Cristo. La Chiesa penitente compie la sua
purificazione seguendo gli stessi riti, innalzando le
stesse preghiere della Chiesa militante, continuando lo
stesso movimento d'ascesa iniziato sulla terra come
Chiesa militante. |
61 |
Allora il
mio segnor, quasi ammirando,
«Menane», disse, «dunque là 've dici
ch'aver si può diletto dimorando». |
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61 |
A questo punto la mia
guida, con l'aspetto di uno che si meraviglia, disse:
«Guidaci dunque al luogo ove affermi che possiamo
trovare una dimora piacevole». |
64 |
Poco
allungati c'eravam di lici,
quand' io m'accorsi che 'l monte era scemo,
a guisa che i vallon li sceman quici. |
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64 |
Ci eravamo di poco
allontanati di lì, quand'io mi accorsi che il monte era
incavato, allo stesso modo che i valloni incavano i
fianchi dei monti sulla terra. |
67 |
«Colà»,
disse quell' ombra, «n'anderemo
dove la costa face di sé grembo;
e là il novo giorno attenderemo». |
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67 |
Sordello disse: «Andremo
là dove la costa si avvalla; ed ivi attenderemo l'alba
del nuovo giorno». |
70 |
Tra erto e
piano era un sentiero schembo,
che ne condusse in fianco de la lacca,
là dove più ch'a mezzo muore il lembo. |
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70 |
C'era un sentiero obliquo
né ripido né piano, che ci condusse alla parete laterale
dell'avvallamento, in un punto dove il suo orlo si
abbassa di più della metà (dell'altezza che esso ha
nella parte superiore). |
73 |
Oro e
argento fine, cocco e biacca,
indaco, legno lucido e sereno,
fresco smeraldo in l'ora che si fiacca, |
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73 |
Il colore dell'oro e
dell'argento puro, il rosso della porpora e il bianco
della biacca, il turchino dell'indaco, il riflesso del
legno levigato e terso, e il verde vivo dello smeraldo
nel momento in cui si spezza, |
76 |
da l'erba e
da li fior, dentr' a quel seno
posti, ciascun saria di color vinto,
come dal suo maggiore è vinto il meno. |
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76 |
collocati in quella
valletta sarebbero stati vinti nella purezza del colore
da quell'erba e da quei fiori, come il meno è vinto dal
più. |
79 |
Non avea pur
natura ivi dipinto,
ma di soavità di mille odori
vi facea uno incognito e indistinto. |
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79 |
La natura colà non solo
aveva sparso i suoi colori, ma vi diffondeva un profumo
sconosciuto e ineffabile composto di mille soavi odori. |
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Descrivendo il luogo in cui si trovano i principi che,
troppo occupati da interessi terreni, si ricordarono
tardi della loro salvezza, il Poeta opera un'improvvisa
apertura - nel paesaggio aspro e difficile delle falde
del monte - su una natura dolcestilnovistica, nella
quale la raffinatezza fastosa dei colori ("nell'aria
della sera incipiente, il fondo della valletta appariva
smaltato di colori di un'intensità vivissima, vergine,
quasi primeva, com'è dei colori fondamentali o dei
metalli o pietre o legni che, di un colore, danno il
maximum", secondo il Mattalia), se viene presentata
attraverso una precisa enumerazione, che sembra limitare
rigidamente quella visione, si stempera infine, unita
alla soavità di mille odori, in qualcosa di incognito e
indistinto, nel quale l'anima sembra smarrirsi. Con
questo sentimento ricco e luminoso della natura Dante
giunge alla "rappresentazione del soprannaturale
attraverso la dilatazione della rappresentazione degli
elementi umani; la terra è trasportata in cielo; ma in
questo far uscire il divino dal terreno in una poesia
splendida Dante è guidato da un senso di misura che
modera i colori, anche quando pare che li accentui" (Malagoli).
Il Poeta, nel creare la "valletta fiorita", ha presente
il passo virgiliano in cui si descrive nel mondo dell'oltretomha
l'Eliso (Eneide canto VI, versi 679 sgg.), ma egli le
conferisce anche un significato allegorico. che un
antico commentatore, il Landino, cosi spiega: "né è
sanza cagione che tal valle sia vestita di verdissime
erbe e di fiori bellissimi all'aspetto e suavissimi
all'odore, perché gli onori, le dignità, gli stati e le
signorie sono simili all'erbe e ai fiori, imperò che,
come quegli dilettono el senso, ma presto appassono e
secconsi, così tale stato arreca gran dilettazione agli
uomini ne' quali può più la sensualità che la ragione,
ma presto passa".
Dante isola dalle altre le anime dei re e dei principi
della terra in omaggio al concetto medievale di
autorità, che vedeva il potere di quei re e di quei
principi provenire direttamente da Dio, considerandoli
anzi ministri della divina potenza. La "valletta
fiorita" è la trasposizione nel purgatorio, su un piano
di maggiore spiritualizzazione, del castello degli «
spiriti magni » del limbo (non a caso Dante lo ha
ricordato poco prima attraverso le parole di Virgilio),
come esaltazione dell'umana virtù intensamente spiegata
nel mondo, ma mancante, nell'un caso e nell'altro, della
coscienza del limite ad essa posto. Quanto più alto,
infatti, era il compito di questi potenti in terra,
tanto più gravemente erano impegnate tutte le virtù e
tutta la forza del loro animo per conseguire la
giustizia e la pace; per questo "i tiranni son posti a
bollire nel lago di bollor vermiglio, e molti che si
tengono, nel loro orgoglio, gran regi staranno poi
nell'inferno come porci in brago. Ma l'ufficio ad essi
commesso, quando fosse, in tutto o in parte, rettamente
esercitato, bastava nel giudizio di Dante a sollevarli
sopra il volgo degli uomini, sicché nella seconda vita,
di purgazione o di gloria, splende ancora sul loro capo
un raggio di sovrana dignità. Anche nella luce del
paradiso... lo spirito della gran Gostanza imperatrice,
si accende di tutto il lume della prima sfera; e sopra
quello di Giustiniano si addua un doppio lume, della
gloria terrena nel diritto e nelle armi, e della
celeste: e così pure nella spera del sole, la luce più
bella è quella del re Salomone. Più su, nell'empireo,
v'ha una sedia trionfale, una sola, vuota ma aspettante
chi l'occupi: un gran seggio, ov'è su posta la corona
imperiale, e che è riserbato all'alto Arrigo.
Medesimamente, qui nel purgatorio, l'uguaglianza fra i
nudi spiriti è violata e rotta in favore dei reggitori
d'uomini e di terre, segregati dagli altri negligenti in
una insenatura della costa: privilegio che è insieme
ossequio ed ammonimento, dacché Arrigo d'Inghilterra
potrebbe stare dove abbiam visto Belacqua, e il re di
Boemia non lungi dal Buonconte" (D'Ancona). Mentre però
le anime degli altri negligenti sono ormai libere da
ogni tentazione, quelle della "valletta fiorita" devono
ancora lottare contro di essa (canto VIII, versi 22 sgg.),
che continua, anche nel mondo penitenziaIe, a sottoporli
alle lusinghe della vita: "Il previlegio di esser posti
in disparte dal volgo, è temperato dal sottostare, essi
soli, alle rinnovate insidie del nemico, che gli altri
invece ormai non paventano"(D'Ancona).
La prospettiva in cui va considerata la "valletta", la
quale racchiude, nascondendoli alla vista, i principi,
che Sordello stando sul balzo sottopone al suo severo
giudizio, non può prescindere perciò dal sentimento
d'umiltà (il canto stesso della « Salve, Regina » è il
canto dell'esilio, che sottolinea la vanità del mondo,
contrapponendo ai beni terreni la visione dei futuri
beni celesti) : ne è anzi l'elogio più determinato,
provenendo da anime che - isolate dalle altre in omaggio
ad un costume di pensiero e di vita terreno - nella
solitudine e nel raccoglimento acquistano una
consapevolezza più intensa del male commesso, che ha
coinvolto non solo la loro persona, ma la vita di interi
popoli. In loro, più che nelle altre anime
dell'antipurgatorio, la terra ha una presenza continua
nel rimorso di una missione universale non compiuta. |
82 |
'Salve,
Regina' in sul verde e 'n su' fiori
quindi seder cantando anime vidi,
che per la valle non parean di fuori. |
|
82 |
Sul verde e sui fiori da
lì vidi anime che sedevano cantando «Salve, Regina», le
quali a causa dell'avvallamento non apparivano dal di
fuori. |
85 |
«Prima che
'l poco sole omai s'annidi»,
cominciò 'l Mantoan che ci avea vòlti,
«tra color non vogliate ch'io vi guidi. |
|
85 |
«Prima che tramonti ormai
il poco sole rimasto, non vogliate che io vi porti in
mezzo a costoro» cominciò il mantovano Sordello che ci
aveva condotti fin là. |
88 |
Di questo
balzo meglio li atti e ' volti
conoscerete voi di tutti quanti,
che ne la lama giù tra essi accolti. |
|
88 |
«Da questo balzo voi
potrete osservare l'atteggiamento e l'aspetto di tutti
questi spiriti, meglio che giù nella valle mescolandovi
a loro. |
|
La rassegna dei principi, che non è "esaltazione, ma
atto di giustizia, severo e, in qualche punto, pungente
bilancio del bene e del male" (Mattalia), presenta,
secondo il D'Ancona, una "gran pagina di storia del
mondo contemporaneo o di poco anteriore", e benché sia
evidente nel Poeta lo sforzo di conservare il tono
solenne, profeticamente impegnato, dell'invettiva
all'Italia, si avverte una diminuita, tensione, che da
alcuni critici è stata considerata uno scadimento nella
cronaca, che, in quanto direttamente legata alla realtà,
non può diventare oggetto di trasfigurazione nella
fantasia del Poeta. Tuttavia, il valore significante di
questo episodio è nella sua spiritualità profonda, per
cui, anche se l'imperatore Rodolfo conserva la sua
dignità su tutti e Guglielmo chiude la rassegna perché
inferiore a tutti gli altri per potenza, "tutti
s'accordano nel severo senso della propria missione e
sono congiunti da una fraternità spirituale che - nel
canto religioso (verso 82) e negli occhi volti verso il
Cielo - si manifesta pure come elevazione verso Dio: in
una fusione di sentimenti in cui il Poeta sembra
vagheggiare quell'armonia di principi, che invano
sognava di veder attuata in terra sotto il segno
dell'Impero... Tra non poche e talora complesse
allusioni storiche, notiamo tuttavia qualche tocco che
illumina qua e là un tratto fisico o spirituale - si
ricordi soprattutto il dolente atteggiamento del padre e
del suocero di Filippo il Bello (versi 103 sgg.) - e
notiamo osservazioni piene di verità umana (versi 121
sgg.), nonché l'alto clima morale in cui è sentita la
missione dei principi e sono guardati i mali derivanti
dalla loro negligenza o inettitudine... Povera di
rilievo nei singoli particolari, questa rassegna ha
tuttavia una sua vita per la suggestiva cornice della
valletta, per l'aura pensosa che aleggia su tante ombre
fraternamente assorte tra gravi cure della terra e
desiderio del Cielo: in un clima di passioni che, mentre
in parte riecheggiano quelle dell'apostrofe all'Italia
(canto VI, versi 76 sgg.), si smorzano sullo sfondo di
una religiosa elevazione balenante come un mistico
contrappunto a tutta la scena" (Grabher). |
91 |
Colui che
più siede alto e fa sembianti
d'aver negletto ciò che far dovea,
e che non move bocca a li altrui canti, |
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91 |
Colui che siede
sovrastando gli altri principi e mostra nel suo
atteggiamento d'aver trascurato il proprio dovere (di
scendere in Italia), e che non partecipa al canto come
gli altri, |
94 |
Rodolfo
imperador fu, che potea
sanar le piaghe c'hanno Italia morta,
sì che tardi per altri si ricrea. |
|
94 |
fu l'imperatore Rodolfo,
il quale poteva sanare le piaghe che hanno distrutto
l'Italia, cosicché troppo tardi per opera di un altro si
tenterà di farla risorgere. |
|
Rodolfo d'Asburgo, che Dante ha già colpito col suo
biasimo nel canto precedente (versi 103-105) insieme al
figlio Alberto, fu imperatore dal 1273 al 1291; di lui
il Villani dice: "questo re Ridolfo fu di grande affare
e magnanimo e pro' in arme e bene avventuroso in
battaglie" (Cronaca VII, 55). La sua trascuratezza di
fronte alla situazione italiana renderà vano ogni sforzo
dei suoi successori per risanarla. E' nel giusto il
Sapegno, il quale ritiene che il verso 96 alluda in modo
indeterminato ai successori, mentre la maggior parte dei
critici vi vede un riferimento alla discesa in Italia di
Arrìgo VII, concludendo che questi versi sono stati
scritti dopo il fallimento della sua impresa. cioè dopo
il 1310, mentre il Poeta vi fa riferimento con fiducia e
con speranza nel canto XXXIII del Purgatorio, versi
37-51. |
97 |
L'altro che
ne la vista lui conforta,
resse la terra dove l'acqua nasce
che Molta in Albia, e Albia in mar ne porta: |
|
97 |
Quell'altro,
che nell'aspetto mostra di confortarlo, fu re nella
terra (la Boemia) dove nascono le acque che la Moldava
porta all'Elba, e l'Elba al mare: |
100 |
Ottacchero
ebbe nome, e ne le fasce
fu meglio assai che Vincislao suo figlio
barbuto, cui lussuria e ozio pasce. |
|
100 |
si chiamò
Ottocaro, e fin da bambino superò di gran lunga suo
figlio Venceslao che ora, nell'età virile, vive
completamente immerso nella lussuria e nell'ozio. |
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Ottocaro Il, eletto re di Boemia nel 1253, mori nel 1278
combattendo contro Rodolfo, di cui fu acerrimo nemico,
mentre ora ne conforta l'austero dolore. Il figlio
Venceslao IV regnò fino al 1305 e fu "dappoco uomo, vile
e rimesso" (Anonimo Fiorentino). |
103 |
E quel
nasetto che stretto a consiglio
par con colui c'ha sì benigno aspetto,
morì fuggendo e disfiorando il giglio: |
|
103 |
E quello dal piccolissimo
naso, che sembra in segreto colloquio con quell'altro
che ha un aspetto così mite, morì fuggendo e facendo
sfiorire nel disonore il giglio (insegna della casa
reale di Francia erano, infatti, tre gigli d'oro in
campo azzurro). |
106 |
guardate là
come si batte il petto!
L'altro vedete c'ha fatto a la guancia
de la sua palma, sospirando, letto. |
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106 |
osservate là come si batte
il petto! Guardate invece l'altro che ha appoggiato la
guancia sulla palma della mano, sospirando
malinconicamente. |
109 |
Padre e
suocero son del mal di Francia:
sanno la vita sua viziata e lorda,
e quindi viene il duol che sì li lancia. |
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109 |
Sono il padre e il suocero
del disonore di Francia (Filippo il Bello) : conoscono
la sua vita piena di vizi e vergognosa, e da qui nasce
il dolore che così profondamente li trafigge. |
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Quel Nasetto è Filippo III l'Ardito, che fu re di
Francia dal 1270 al 1285 (quando morì a Perpignano) e fu
"nasello, imperò che ebbe piccolo naso"(Buti). Combatté
contro Pietro III di
Aragona per il possesso della Sicilia, e, dopo la
sconfitta della sua flotta ad opera dell'ammiraglio
Ruggero di Lauria, "sbigottito, quasi come rotto si
partì, e venendo per quelle montagne di Raona, per
dolore e per affanno morì"(Anonimo Fiorentino).
L'altro vedete è Enrico il Grasso, che regnò sulla
Navarra dal 1270 al 1274.
Il primo fu padre, il secondo suocero di Filippo IV il
Bello, che Dante già colpì nell'Inferno (canto XIX,
verso 87) e sul quale altre volte si abbatterà il suo
biasimo (Purgatorio XX, 85 sgg.; XXXII, 151 sgg.;
Paradiso XIX, 118 sgg.). |
112 |
Quel che par
sì membruto e che s'accorda,
cantando, con colui dal maschio naso,
d'ogne valor portò cinta la corda; |
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112 |
Quello che appare così
nerboruto e che canta in perfetto accordo con l'altro
dal gran naso, fu rivestito e ornato da ogni virtù; |
115 |
e se re dopo
lui fosse rimaso
lo giovanetto che retro a lui siede,
ben andava il valor di vaso in vaso, |
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115 |
e se gli fosse successo
nel regno il giovinetto che qui siede dietro a lui, il
retaggio della virtù si sarebbe egregiamente trasmesso
di padre in figlio, |
118 |
che non si
puote dir de l'altre rede;
Iacomo e Federigo hanno i reami;
del retaggio miglior nessun possiede. |
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118 |
mentre questo non si può
affermare degli altri eredi: Giacomo e Federigo hanno
ora i regni; ma nessuno dei due ha preso il meglio
dell'eredità paterna (del retaggio miglior, cioè la
virtù). |
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Quel che par sì membruto è Pietro III d'Aragona, re dal
1276 al 1285, "Io quale lo bello e membruto de soa
persona, e savio e virtuoso" (Lana). Combatté a causa
della Sicilia contro Carlo I d'Angiò, con il quale ora
s'accorda, cantando, entrambi dimentichi, in questo
luogo di penitenza, delle discordie del mondo.
Carlo I d'Angiò, figlio del re di Francia Luigi VIII, fu
re di Napoli dopo il 1266. Morì nel 1285, e nonostante
Dante condanni la sua politica (Paradiso VIII, 73-75) e
lo accusi dell'uccisione di Corradino di Svevia e del
supposto assassinio di San Tommaso (Purgatorio XX,
67-69), lo salva perché morì cristianamente (cfr. il
Villani nella sua Cronaca VII, 95).
Lo giovanetto sarebbe secondo alcuni Alfonso III, che
successe al padre nel 1285 nel regno d'Aragona, ma più
giustamente altri commentatori ritengono che qui Dante
alluda a Pietro, ultimogenito di Pietro III, il quale
morì giovanissimo prima del padre, mentre Alfonso
divenne effettivamente re, lasciando una triste fama.
Ora invece l'eredità di Pietro è in mano al figlio
Giacomo Il, re di Sicilia dal 1286 e, dopo la morte di
Alfonso, re di Aragona dal 1291, e all'altro figlio
Federigo Il, che divenne re di Sicilia nel 1296. |
121 |
Rade volte
risurge per li rami
l'umana probitate; e questo vole
quei che la dà, perché da lui si chiami. |
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121 |
Raramente la virtù dei
padri ricompare nei figli; e questo è voluto da Dio che
la dà, affinché la si riconosca derivata da Lui (da lui:
e non ricevuta per eredità). |
124 |
Anche al
nasuto vanno mie parole
non men ch'a l'altro, Pier, che con lui canta,
onde Puglia e Proenza già si dole. |
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124 |
Anche a Carlo d'Angiò, il
Nasuto, sono dirette le mie parole, non meno che
all'altro che canta con lui, Pietro, per la quale
degenerazione la Puglia e la Provenza già si dolgono. |
127 |
Tant' è del
seme suo minor la pianta,
quanto, più che Beatrice e Margherita,
Costanza di marito ancor si vanta. |
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127 |
La pianta (cioè il figlio
Carlo II) è tanto inferiore al suo seme (cioè al padre
Carlo I), quanto Costanza (vedova di Pietro III
d'Aragona) ha motivo di vantarsi ancora di suo marito
più di quanto abbiano motivo di vantarsi del loro
Beatrice di Provenza e Margherita di Borgogna (prima e
seconda moglie di Carlo I d'Angiò). |
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Dante vuole rivolgere le sue parole in torno ai
discendenti degeneri non solo a Pietro III, ma anche a
Carlo d'Angiò, perché la Puglia (il regno di Napoli) e
la Provenza si dolgono per il malgoverno del figlio
Carlo II, detto lo Zoppo, che è inferiore al padre,
quanto questo, per meriti, lo è nei confronti di Pietro
d'Aragona. |
130 |
Vedete il re
de la semplice vita
seder là solo, Arrigo d'Inghilterra:
questi ha ne' rami suoi migliore uscita. |
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130 |
Osservate invece là come siede
appartato il re dalla vita semplice, Enrico
d'Inghilterra: egli ha nei suoi discendenti un esito
migliore. |
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Arrigo III, re d'Inghilterra, morto nel 1272, fu figlio
di Giovanni Senzaterra. Uomo "semplice... e di buona fè
e di poco valore" secondo il Villani (Cronaca V, 4), fu
da Sordello accusato di viltà nel Compianto. Dante lo
definisce re della semplice vita, dove semplice può
significare « sciocca » oppure « modesta», come
ritenevano gli antichi commentatori: il suo isolamento
non sarebbe altro che un riflesso di quella sua semplice
vita. Tuttavia fu più fortunato nei suoi discendenti,
perché il figlio Edoardo I (re d'Inghilterra dal 1272 al
1307) fu "buono e valente re" (Villani - Cronaca VIII,
90). |
133 |
Quel che più
basso tra costor s'atterra,
guardando in suso, è Guiglielmo marchese,
per cui e Alessandria e la sua guerra |
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133 |
Quello fra loro che sta
seduto più in basso, con lo sguardo rivolta verso il
cielo, è il marchese Guglielmo, a causa del quale
Alessandria e la sua guerra |
136 |
fa pianger
Monferrato e Canavese». |
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136 |
portano desolazione e
pianto nel Monferrato e nel Canavese.» |
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Guglielmo VII, detto Spadalunga, marchese di Monferrato
dal 1254 al 1292, fu vicario imperiale e come capo dei
Ghibellini combatté contro i Comuni guelfi. Nel 1290 i
cittadini di Alessandría, istigati da quelli di Asti, si
ribellarono e lo fecero prigioniero, chiudendolo in una
gabbia di ferro, dove rimase fino alla morte, avvenuta
nel 1292. Il figlio Giovanni I, per vendicarlo, assalì
la città di Alessandria, scatenando una lunga guerra che
sparse la desolazione nelle regioni del Monferrato e del
Canavese. |
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