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DIVINA
COMMEDIA: PARAFRASI
PURGATORIO
CANTO VIII° |
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1 |
Era già
l'ora che volge il disio
ai navicanti e 'ntenerisce il core
lo dì c'han detto ai dolci amici addio; |
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1 |
Era ormai l'ora (l'ultima della sera) che fa tornare un
senso di nostalgia nel cuore dei naviganti e ne riempie
l'animo di commozione ricordando il giorno nel quale
hanno detto addio alle persone care; |
4 |
e che lo
novo peregrin d'amore
punge, se ode squilla di lontano
che paia il giorno pianger che si more; |
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4 |
era l'ora che fa sentire
più struggente l'amore al pellegrino che ha appena
abbandonato la sua terra, mentre ode il suono lontano
d'una campana che sembra piangere il giorno che muore, |
7 |
quand' io
incominciai a render vano
l'udire e a mirare una de l'alme
surta, che l'ascoltar chiedea con mano. |
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7 |
quando io cominciai a non
udire più la voce di Sordello e il canto dei principi e
cominciai a fissare una delle anime che, levatasi in
piedi, chiedeva con un cenno della mano che tutte
l'ascoltassero. |
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Quasi a creare l'atmosfera affettiva degli incontri che
caratterizzeranno il canto, la rappresentazione si apre
con un preludio di toccante malinconia, nel quale la
musicalità del ritmo, con gli affetti immediati che
sommuove, dà pienezza perfetta e congruente alla
rappresentazione del momento lirico. Sta per compiersi
la prima giornata del pellegrino nel secondo regno,
preannunciata dalla nitida aurora, arricchita via via da
profondi motivi consolatori, che hanno fatto definire
questa, primo giorno, il giorno del pathos, della
commozione (Fergusson) : dal canto solitario di Casella
e da quello, corale, dei penitenti, ai discorsi di
Virgilio sul limite della ragione e sul valore della
preghiera, all'incontro con Sordello. L'esordio illumina
subito la struttura poetica del canto, mediante la sua
costruzione per via di similitudini, dove il richiamo
immediato, nella serena presenza della natura, alla
figura del viandante, riporta la situazione, perseguita
fin qui come oggetto di rappresentazione, verso la
figura del Poeta, recuperando la dimensione soggettiva,
anche se, ancora una volta, il sentimento in Dante vuole
tradursi in concreto dato sensibile, in segni visibili,
che lo Eliot giudica "chiare immagini visive". L'intenso
definirsi, nella figura dei marinai e del pellegrino,
dello stato d'animo dell'esule, che riassume
nell'evidenza facile di quelle due rappresentazioni la
meditazione morale del canto e il suo inquieto
svolgimento, riguarda sì Dante (e lo dimostrerà la
profezia dell'esilio che chiuderà il canto), ma anche le
anime della "valletta fiorita", perché è "dolcezza e
tristezza di ricordi, su cui indugia il cuore che
vorrebbe e ancor non sa staccarsi appieno dalle cose
della terra; è timore di oscure e malvagie insidie, che
si placa nella certezza di un soccorso trascendente; è
inquieta nostalgia di pace e di felicità, che si tempera
nella penitenza e si raffina nella preghiera" (Sapegno).
C'è infatti un perfetto parallelismo tra la situazione
psicologica del marinaio e del pellegrino, e quella di
Dante e delle anime che intonano il « Te lucis ante »:
sono stati emotivi, in situazioni diverse ma affini, che
sorgono in rapporto all'ora della sera, che predispone
al raccoglimento e alla tenerezza degli affetti. Così il
giorno del distacco dai propri cari non è « giorno »
come spazio temporale (lo stesso giorno), ma è quale
soggettivamente si qualifica per i naviganti in quanto
ricordo, che fa affiorare e prendere contorno l'immagine
della partenza. Il giorno della partenza nota il
Pagliaro - può essere ormai lontano nel tempo, ma non lo
è nella coscienza dei naviganti, poiché la suggestione
dell'ora riesce ad annullare quella lontananza e a fare
sì che esso torni a essere presente con tutta la
commozione di quei saluti; per il peregrin il rintocco
lontano di una campana è un richiamo alla solidarietà
degli affetti, un invito a raccogliersi nella dolce
tranquillità dei sentimenti familiari: al mutarsi del
desiderio di arrivo in desiderio di ritorno, corrisponde
qui un intenerimento che penetra nel cuore come una
fitta (punge), improvvisamente, come improvviso si era
alzato il suono della squilla. |
10 |
Ella giunse
e levò ambo le palme,
ficcando li occhi verso l'orïente,
come dicesse a Dio: 'D'altro non calme'. |
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10 |
Essa congiunse ed elevò al
cielo le mani, rivolgendo lo sguardo intento verso
l'oriente, nell'atteggiamento di chi dice a Dio:
"Nient'altro mi preme". |
13 |
'Te lucis
ante' sì devotamente
le uscìo di bocca e con sì dolci note,
che fece me a me uscir di mente; |
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13 |
Dalle sue labbra l'inno «Te lucis ante» uscì con tale
devota e modulata dolcezza, che mi rapì in estasi; |
16 |
e l'altre
poi dolcemente e devote
seguitar lei per tutto l'inno intero,
avendo li occhi a le superne rote. |
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16 |
poi tutte le altre anime
dolcemente e con devozione la seguirono cantando tutto
l'inno, tenendo gli occhi fissi alle sfere celesti. |
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«Te lucis ante terminum» ("Prima che finisca il
giorno...") è l'inno attribuito a Sant'Ambrogio e
cantato durante « compieta », l'ultima delle ore
canoniche (indicata dal suono della squilla): vi si
invoca l'aiuto di Dio contro i sogni cattìvi e l'assalto
del demonio durante la notte. Si apre una vera e propria
officiatura liturgica attraverso il gesto ieratico di
quell'anima volta verso oriente (secondo l'uso antico
della preghiera cristiana), che impera per cenni,
iniziando l'inno corale degli altri penitenti, che
continua, senza soluzioni, nello stesso ritmo
spirituale, il canto della « Salve, Regina ». Di
quest'anima Dante non rivela né il nome né la dignità
che ebbe nel mondo, perché "è un'annegata nella brama di
Dio, E' lo spasimo verso la luce, è il terrore della
notte che avanza... L'uomo della terra ascolta, tratto
fuori di sé, l'armonia di quelle voci; ma tutto è una
fascinatrice armonia intorno a lui: l'ora e la luce
dell'azzurro tramonto, e il gesto di quell'anima e la
compostezza degli oranti, e il loro sguardo levato ai
cieli, in una umile e trepida attesa" (Donadoni). |
19 |
Aguzza qui,
lettor, ben li occhi al vero,
ché 'l velo è ora ben tanto sottile,
certo che 'l trapassar dentro è leggero. |
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19 |
O lettore,
qui aguzza bene gli occhi della tua intelligenza a ciò
che veramente voglio sìgnificare, poiché il velo (che
copre il senso nascosto di quanto ora segue) è così
sottile che certamente non ti costerà fatica il
penetrarlo esattamente. |
22 |
Io vidi
quello essercito gentile
tacito poscia riguardare in sùe,
quasi aspettando, palido e umìle; |
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22 |
Finito il canto, io vidi quella nobile schiera di anime
guardare intensamente verso l'alto, pallide ed umili,
come chi aspetta qualcosa; |
25 |
e vidi uscir
de l'alto e scender giùe
due angeli con due spade affocate,
tronche e private de le punte sue. |
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25 |
e vidi uscire dall'alto del cielo e scendere in basso
due angeli, ciascuno con una spada fiammeggiante, tronca
e priva della punta. |
28 |
Verdi come
fogliette pur mo nate
erano in veste, che da verdi penne
percosse traean dietro e ventilate. |
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28 |
Erano verdi come
foglioline appena spuntate le vesti che essi portavano
fluenti, percosse e agitate dal vento delle verdi ali. |
31 |
L'un poco
sovra noi a star si venne,
e l'altro scese in l'opposita sponda,
sì che la gente in mezzo si contenne. |
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31 |
Uno degli angeli venne a
posarsi poco più in alto di noi, l'altro invece scese
sulla sponda opposta (della valletta), in modo che le
anime furono racchiuse tra loro due. |
34 |
Ben
discernëa in lor la testa bionda;
ma ne la faccia l'occhio si smarria,
come virtù ch'a troppo si confonda. |
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34 |
Scorgevo distintamente la
loro testa bionda; ma nel fulgore del volto l'occhio si
smarriva, come ogni facoltà sensitiva si confonde di
fronte a un oggetto superiore alle sue capacità, |
37 |
«Ambo vegnon
del grembo di Maria»,
disse Sordello, «a guardia de la valle,
per lo serpente che verrà vie via». |
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37 |
«Vengono entrambi dal
cielo Empireo, dove sta Maria» disse Sordello «per far
la guardia alla valle, a causa del serpente che verrà da
un momento all'altro.» |
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L'invito che Dante rivolge al lettore è stato
generalmente interpretato come un'esortazione a cogliere
il significato emblematico dell'apparizione dei due
angeli sulla sponda della "valletta" e del serpente che
verrà vie via. Ma non giustificando questo solenne
richiamo la facilità con cui quell'allegoria (la
tentazione che la preghiera respinge invocando
l'intervento divino) si può interpretare, già Pietro di
Dante avvisava che essa celava una profondità maggiore
di quanto potesse apparire ad una prima lettura. Infatti
tali anime, essendo salve, non possono più temere di
peccare, ma, poiché la seconda cantica vuole essere
l'esplicazione della vita dell'anima che inizia la sua
ascesa, esse rappresentano, allegoricamente, la
condizione di quelle creature che in terra hanno appena
cominciato la loro penitenza e che quindi sono ancora
soggette alla tentazione.
Se l'esercito di quei principi, muti, pallidi
nell'aspettazione del miracolo ("si ricordi - osserva il
Mattalia - dai canti precedenti, con quanta facilità le
anime del Purgatorio impallidiscono per un'emozione: è
la loro caratteristica: un'umbratile emotività"), è
immagine di grande delicatezza, di grande vigore
rappresentativo è quell'uscir dell'alto dei due angeli,
grandiosi nelle loro linee, possenti nelle loro masse,
pieni di quell'austerità che contraddistingue le
apparizioni degli angeli danteschi, dal messo celeste
che apre le porte della città di Dite all'angelo
nocchiero, a quello che siederà davanti alla porta del
purgatorio (canto IX, versi 78 sgg.). Il Donadoni nota
con molta acutezza che gli angeli di Dante si
confonderanno con l'uomo solo quando l'uomo si sarà
innalzato fino ad essi, compiendo tutta la sua
purificazione. Bene il Signorelli, traducendo i primi
undici canti del Purgatorio nei monocromati affreschi
della cattedrale di Orvieto, ha saputo ritrarre l'attimo
di esaltazione energetica delle due creature angeliche,
le quali si abbattono fulmineamente, come sparvieri,
sull'acuminato piedistallo di due pinnacoli, anche se
solo la pittura del Beato Angelico avrebbe potuto
ritrarre, nelle sue tinte lievi e smorzate, la dolce
luce del crepuscolo, che rende "vago" e "sfumato" questo
momento poetico.
Secondo l'Anonimo Fiorentino il verde degli abiti e
delle penne degli angeli indica "la etternità della
speranza, la quale si figura verde", le due spade
simboleggiano "la giustizia e la misericordia di Dio".
ma sono senza punta per dimostrare "che non con rigore
di giustizia [Dio] condanna senza misericordia, né con
misericordia senza giustizia", il rosso che le affoca
ricorda "l'ardore della carità con la quale sono
menate". Altri commentatori ritengono invece che i due
angeli rappresentino le due supreme potestà in terra,
l'Impero e la Chiesa. |
40 |
Ond' io, che
non sapeva per qual calle,
mi volsi intorno, e stretto m'accostai,
tutto gelato, a le fidate spalle. |
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40 |
Perciò io, che non sapevo
da che parte (sarebbe venuto il serpente), mi guardai
intorno, e tutto gelido per la paura, mi strinsi al
fianco del mio fidato maestro. |
43 |
E Sordello
anco: «Or avvalliamo omai
tra le grandi ombre, e parleremo ad esse;
grazïoso fia lor vedervi assai». |
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43 |
Poi Sordello soggiunse:
«Ora scendiamo nella valle in mezzo alle grandi ombre, e
parleremo ad esse: sarà loro assai gradito vedervi». |
46 |
Solo tre
passi credo ch'i' scendesse,
e fui di sotto, e vidi un che mirava
pur me, come conoscer mi volesse. |
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46 |
Credo di esser disceso
soltanto di tre passi. e mi trovai in basso, e vidi
un'ombra che guardava con insistenza verso di me, come
se mi volesse riconoscere. |
49 |
Temp' era
già che l'aere s'annerava,
ma non sì che tra li occhi suoi e ' miei
non dichiarisse ciò che pria serrava. |
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49 |
In quel momento l'aria già
si faceva buia, ma non tanto che a breve distanza non
lasciasse scorgere chiaramente ciò che prima rendeva
invìsibile. |
52 |
Ver' me si
fece, e io ver' lui mi fei:
giudice Nin gentil, quanto mi piacque
quando ti vidi non esser tra ' rei! |
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52 |
Egli si portò verso di me,
e io andai verso di lui: o nobile giudice Nino, quanta
gioia provai quando vidi che non eri tra i dannati! |
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Ugolino o Nino Visconti appartenne a una nobile famiglia
guelfa di Pisa e fu nipote del conte Ugolino della
Gherardesca (Inferno, canto XXXII, versi 125 sgg.). Fu
bandito più volte da Pìsa, finché riuscì ad impadronirsi
della signoria della città con Ugolino (1285); costretto
all'esilio dopo la vittoria dell'arcivescovo Ruggieri,
fece parte di molte leghe guelfe contro la sua città,
dove rientrò nel 1293. Si ritirò infine nel giudicato di
Gallura, in Sardegna, dove morì nel 1296. Dante ebbe
forse occasione di conoscerlo fra il 1288 e il 1293,
quando Nino Visconti fu spesso a Firenze. |
55 |
Nullo bel
salutar tra noi si tacque;
poi dimandò: «Quant' è che tu venisti
a piè del monte per le lontane acque?». |
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55 |
Nessuna affettuosa
espressione di saluto fu risparmiata fra noi; poi egli
chiese: «Da quanto tempo sei giunto nell'antipurgatorio
attraverso l'oceano?» |
58 |
«Oh!», diss'
io lui, «per entro i luoghi tristi
venni stamane, e sono in prima vita,
ancor che l'altra, sì andando, acquisti». |
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58 |
«Oh!» gli risposi, «sono
giunto questa mattina attraverso l'inferno, e sono
ancora vivo, sebbene, facendo questo viaggio, io cerchi
di guadagnare la vita eterna». |
61 |
E come fu la
mia risposta udita,
Sordello ed elli in dietro si raccolse
come gente di sùbito smarrita. |
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61 |
All'udire la mia risposta,
Sordello e Nino si ritrassero come chi è colto da
improvviso smarrimento. |
64 |
L'uno a
Virgilio e l'altro a un si volse
che sedea lì, gridando: «Sù, Currado!
vieni a veder che Dio per grazia volse». |
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64 |
Sordello si volse a
Virgilio e Nino Visconti a uno che stava seduto lì
accanto, gridando: «Su, Corrado! vieni a vedere quale
mirabile cosa Dio volle per grazia speciale». |
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La figura di Nino Visconti, prima ancora di rivelare la
sua complessa ricchezza di motivi psicologici, si apre
nel sentimento dell'amicizia (che più di ogni altro
sembra adeguarsi all'ambiente della seconda cantica,
dove le passioni si sono estinte e sopravvivono gli
affetti gentili e delicati) attraverso l'appassionata
insistenza del bel salutar e l'affettuosa sollecitudine
per la sorte dell'amico (versi 56-57), che risponde alla
prima manifestazione di gioia di Dante (versi 53-54). Ma
anche la comune esperienza dell'esilio arricchisce
questo incontro, essendo "anche Nino esule dalla patria
senza colpa, anche Nino non mai disperato di potervi,
quando che fosse, rientrare. Vinto, non domato, dal
destino, era poi morto esule... Dante vede in Nino, più
che un amico, un fratello, perché, fra quanti vincoli
stringono l'uomo all'uomo, niuno ve ne ha di più saldo
di quello costituito da sventure virilmente patite per
comuni ideali" (Steiner). |
67 |
Poi, vòlto a
me: «Per quel singular grado
che tu dei a colui che sì nasconde
lo suo primo perché, che non lì è guado, |
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67 |
Poi, rivolto a me, disse:
«Per quella particolare gratitudine che tu devi a Dio
che tiene così occulte le ragioni ultime del suo
operare, che non esiste possibilità per l'uomo di
giungere mai a comprenderle. |
70 |
quando sarai
di là da le larghe onde,
dì a Giovanna mia che per me chiami
là dove a li 'nnocenti si risponde. |
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70 |
quando ritornerai sulla
terra, di a Giovanna che preghi per me il cielo dove
vengono esaudite le invocazioni delle anime innocenti. |
73 |
Non credo
che la sua madre più m'ami,
poscia che trasmutò le bianche bende,
le quai convien che, misera!, ancor brami. |
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73 |
Non credo che sua madre mi
ami più, dopo che passò a seconde nozze (trasmutò le
bianche bende: le vedove portavano veli bianchi su vesti
nere), anche se accadrà che, infelice!, debba
rimpiangere il suo primitivo stato vedovile. |
76 |
Per lei
assai di lieve si comprende
quanto in femmina foco d'amor dura,
se l'occhio o 'l tatto spesso non l'accende. |
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76 |
Dal suo esempio facilmente
si comprende quanto poco duri in una donna il fuoco
dell'amore, se di continuo non sia tenuto acceso dalla
vista o dalla presenza dell'amato. |
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Giovanna, l'unica figlia di Nino Visconti, aveva solo
nove anni nel 1300; sposò poi Rizzardo da Camino, e,
rimasta vedova nel 1312, visse dal 1323 al 1339, anno
della sua morte, a Firenze. La moglie di Nino fu
Beatrice d'Este, figlia di Obizzo Il, la quale nel 1300
si risposò con Galeazzo Visconti, signore di Milano,
che, dopo essere stato scacciato dalla città nel 1302,
trascorse il resto della vita in esilio fra gravi
difficoltà. A queste tristi vicende alludono le parole
di Nino al verso 75, anche se Beatrice, dopo la morte
del secondo marito, poté rientrare a Milano, quando il
figlio Azzo riconquistò la città.
La spiritualizzazione a cui il Poeta ha saputo innalzare
la prima parte del canto ottavo attraverso la
similitudine iniziale, l'intensità della preghiera
corale, l'intervento di potenze sovrannaturali e
l'accento posto sul tema della amicizia, nell'incontro
con Nino, prima che su altre realtà terrene, attenuano
la rievocazione di motivi umani che altrimenti
graverebbero sull'anima con il peso di un dolore troppo
crudo. Il mondo di là dalle larghe onde, per le lontane
acque, riportatogli dall'arrivo dell'amico, per Nino non
significa l'eco di lotte politiche o di battaglie, ma la
presenza di un mondo più intimo e suo, fatto delle
immagini di persone che gli furono e gli sono ancora
care. "E se anche il cuore ha una dolorosa certezza,
umanamente vuole ancora illudersi che un simile oblio
non possa esser vero. Beatrice, la moglie, non è più
tale per Nino; è solo la sua madre, la madre di
Giovanna; eppure egli premette quel non credo, che
vorrebbe salvare un'ultima speranza, non credo che la
sua madre più m'ami. E spiega il perché di tale oblio
velando la cosa - le seconde nozze di Beatrice - in un
particolare esteriore che ne attenua la crudezza: poscia
che trasmutò le bianche bende, ed ha, ultimo bagliore
d'una tenerezza non sopita, un senso di pietà anche per
lei mutevole, fragile creatura che fa soffrire, anche
dopo la morte, soffrendo anche lei com'è destino degli
uomini: le quai convien che, misera!, ancor brami." (Grabher) |
79 |
Non le farà
sì bella sepultura
la vipera che Melanesi accampa,
com' avria fatto il gallo di Gallura». |
|
79 |
L'insegna del biscione intorno alla
quale i Milanesi sogliono porre il campo in tempo di
guerra, quando sarà scolpita sul suo sepolcro non lo
renderà così bello, come l'avrebbe reso il gallo di
Gallura». |
|
Lo stemma dei Visconti (una vipera con in bocca un
bambino) non darà alla tomba di Beatrice quell'onore che
le avrebbe conferito l'immagine del gallo, stemma dei
Visconti pisani, che indicava anche il loro possesso del
giudicato di Gallura. Varie sono le interpretazioni
intorno al paragone fra i due stemmi, perché secondo
alcuni esso è solo una critica al fatto che Beatrice non
si è mantenuta fedele al marito morto, secondo altri si
risolve in un biasimo per la donna che da una famiglia
guelfa è passata ad una famiglia ghibellina, quale
quella dei Visconti di Milano. Probabilmente Dante
intende alludere all'uno e all'altro motivo. |
82 |
Così dicea,
segnato de la stampa,
nel suo aspetto, di quel dritto zelo
che misuratamente in core avvampa. |
|
82 |
Così parlava Nino, avendo
impresso sul volto, quel giusto sdegno che senza
eccedere gli ardeva nel cuore. |
85 |
Li occhi
miei ghiotti andavan pur al cielo,
pur là dove le stelle son più tarde,
sì come rota più presso a lo stelo. |
|
85 |
I miei occhi, avidi di
novità, si volgevano con insistenza al cielo, sempre
verso il polo dove le stelle girano più lente, allo
stesso modo che i raggi di una ruota (si muovono più
lenti) nella parte più vicina all'asse. |
88 |
E 'l duca
mio: «Figliuol, che là sù guarde?».
E io a lui: «A quelle tre facelle
di che 'l polo di qua tutto quanto arde». |
|
88 |
E la mia guida mi domandò:
«Figliolo, che cosa guardi lassù?» Io gli risposi:
«Guardo quelle tre piccole luci che illuminano tutto
quanto il polo antartico». |
91 |
Ond' elli a
me: «Le quattro chiare stelle
che vedevi staman, son di là basse,
e queste son salite ov' eran quelle». |
|
91 |
Perciò egli replicò: «Le
quattro stelle luminose che vedevi stamattina sono già
scese sotto l'orizzonte, e queste sono salite al loro
posto». |
|
Le tre stelle che illuminano il polo antartico,
simboleggiano, secondo tutti i più antichi commentatori,
le tre virtù teologali, e sostituiscono le quattro che
erano apparse nel cielo del purgatorio al mattino (canto
I, verso 23), indicanti le quattro virtù cardinali: le
prime riguardano la vita contemplativa e perciò sono più
adatte durante la notte, le seconde la vita attiva, che
si svolge durante il giorno. Meglio però
l'interpretazione proposta dal Sapegno, secondo la quale
"nel punto in cui culmina la lotta dell'anima per
liberarsi da ogni legame colla terra, diventa più
urgente la necessità del soccorso delle virtù
soprannaturali". |
94 |
Com' ei
parlava, e Sordello a sé il trasse
dicendo: «Vedi là 'l nostro avversaro»;
e drizzò il dito perché 'n là guardasse. |
|
94 |
Mentre Virgilio parlava,
ecco che Sordello lo attirò a sé dicendo: «Vedi là il
nostro avversario»; e indicò col dito il punto dove
guardare. |
97 |
Da quella
parte onde non ha riparo
la picciola vallea, era una biscia,
forse qual diede ad Eva il cibo amaro. |
|
97 |
Dal lato dove
la valletta non è chiusa da alcuna sponda, c'era un
serpente, simile forse a quello che diede a Eva il
frutto, causa di tante amarezze. |
100 |
Tra l'erba e
' fior venìa la mala striscia,
volgendo ad ora ad or la testa, e 'l dosso
leccando come bestia che si liscia. |
|
100 |
Il serpe
maligno veniva strisciando tra l'erba e i fiori,
volgendo il capo ora a destra ora a sinistra, e
leccandosi il dorso come una bestia che si liscia (con
la lingua il pelo). |
103 |
Io non vidi,
e però dicer non posso,
come mosser li astor celestïali;
ma vidi bene e l'uno e l'altro mosso. |
|
103 |
Non riuscii a vedere, e
perciò non posso dire, come spiccarono il volo i due
angeli; ma vidi bene l'uno e l'altro dopo che si furono
mossi. |
106 |
Sentendo
fender l'aere a le verdi ali,
fuggì 'l serpente, e li angeli dier volta,
suso a le poste rivolando iguali. |
|
106 |
Al solo udire il rumore
delle verdi ali che fendevano l'aria, il serpente fuggì,
e allora gli angeli si voltarono, ritornando con volo
concorde in alto ai loro posti di guardia. |
|
La scena, nella quale il simbolo, come avviene in Dante
nei momenti di maggiore felicità creativa, diventa cosa
viva, ha una singolare efficacia rappresentativa nel
movimento sinuoso e viscido che rappresenta, nella loro
essenzialità, il corpo e il moto della mala striscia.
Essa assume un ritmo drammatico nell'irrompere rapido e
improvviso dei due angeli, che si placa altrettanto
improvvisamente quando, con la stessa potenza di volo
dispiegata nella discesa, risalgono alle poste,
ricostituendosi nella loro imperiosa immobilità. |
109 |
L'ombra che
s'era al giudice raccolta
quando chiamò, per tutto quello assalto
punto non fu da me guardare sciolta. |
|
109 |
L'anima che s'era
accostata al giudice Nino, quando questi l'aveva
chiamata durante tutto l'assalto (degli angeli contro il
serpente) non si era per nulla distolta dal guardarmi. |
112 |
«Se la
lucerna che ti mena in alto
truovi nel tuo arbitrio tanta cera
quant' è mestiere infino al sommo smalto», |
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112 |
«Possa la grazia divina
che ti è guida verso l'alto, trovare nella tua libera
volontà tanta corrispondenza, quanta ne occorre per
salire fino alla vetta del monte smaltata di verde» |
115 |
cominciò
ella, «se novella vera
di Val di Magra o di parte vicina
sai, dillo a me, che già grande là era. |
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115 |
cominciò a dire, «se hai
notizie certe della Val di Magra (in Lunigiana) o dei
paesì vicini, dimmele, poiché un tempo io ero potente in
quei luoghi. |
118 |
Fui chiamato
Currado Malaspina;
non son l'antico, ma di lui discesi;
a' miei portai l'amor che qui raffina». |
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118 |
Mi chiamai Corrado
Malaspina; non sono Corrado Malaspina il vecchio, ma da
lui sono disceso: alla mia famiglia e alla sua potenza
portai un amore che qui si purifica d'ogni scoria.» |
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Corrado Malaspina il giovane, morto nel 1294, fu nipote
di Corrado il vecchio, capostipite dei Malaspina dello
Spino secco, che dominarono la Lunigiana. Dante fu in
Lunigiana nel 1306 (perché il suo nome appare in un
documento di tale anno, allorché dai marchesi
Franceschino, Moroello e Corradino ebbe l'incarico di
porre fine ad alcune controversie con il vescovo di Luni)
e fu legato da grande amicizia con Moroello, marchese di
Giovagallo, al quale indirizzò l'Epistola IV. |
121 |
«Oh!», diss'
io lui, «per li vostri paesi
già mai non fui; ma dove si dimora
per tutta Europa ch'ei non sien palesi? |
|
121 |
Oh!» gli dissi, «non sono
mai stato nei vostri paesi; ma vi può essere un luogo in
tutta Europa dove essi non siano noti? |
124 |
La fama che
la vostra casa onora,
grida i segnori e grida la contrada,
sì che ne sa chi non vi fu ancora; |
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124 |
La fama che onora la
vostra casata, esalta i signori e gli abitanti di tutta
la regione, in modo tale che viene conosciuta anche da
chi non è ancora passato per quei luoghi. |
127 |
e io vi
giuro, s'io di sopra vada,
che vostra gente onrata non si sfregia
del pregio de la borsa e de la spada. |
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127 |
E vi giuro, così possa io
salire fino alla vetta del monte, che la vostra nobile
famiglia continua a fregiarsi delle virtù della
liberalità e della prodezza. |
130 |
Uso e natura
sì la privilegia,
che, perché il capo reo il mondo torca,
sola va dritta e 'l mal cammin dispregia». |
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130 |
L'abitudine alla virtù e
l'indole naturale la pongono in una condizione così
privilegiata, che, per quanto la cattiva guida del Papa
e dell'Imperatore faccia deviare il mondo dalla retta
via, essa sola continua nella strada della perfezione e
disprezza il male.» |
133 |
Ed elli: «Or
va; che 'l sol non si ricorca
sette volte nel letto che 'l Montone
con tutti e quattro i piè cuopre e inforca, |
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133 |
Ed egli: «Ora va; il sole
non tornerà sette volte in quel tratto dell'eclittica
che la costellazione dell'Ariete (con la quale il sole è
ora in congiunzione) copre e cavalca con tutte e quattro
le zampe ripiegate (cioè non passeranno sette anni), |
136 |
che cotesta
cortese oppinïone
ti fia chiavata in mezzo de la testa
con maggior chiovi che d'altrui sermone, |
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136 |
che questa gentile
opinione (sulla mia famiglia) ti sarà fissata nella
mente con argomenti più persuasivi che non siano i
discorsi della gente, |
139 |
se corso di
giudicio non s'arresta». |
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139 |
a meno che non si arresti
il corso dei decreti divini». |
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Nell'atmosfera di sospeso silenzio, seguita all'assalto
del serpente, si prepara la severa grandezza dell'ultima
scena: Corrado Malaspina, che non aveva mai distolto gli
occhi dal privilegiato viandante (versi 110~111), "come
a penetrare, con uno sguardo lungo, intenso e
silenzioso, nelle profondità del doloroso tempo che per
quel vivente si apparecchiava" (Sacchetto), è l'eletto a
rappresentare, nella "valletta fiorita", il principe
ideale, l'esponente degno di quella famiglia, che, fra i
grandi d'Italia e d'Europa, si pone come quella che sola
va dritta e 'l mal cammin dispregia, il nobile signore
che ha realizzato, secondo il giudizio del Sacchetto,
con la esemplarità della sua vita e l'assolvimento pieno
della sua missione, il sogno generoso di Dante.
Si stacca dalla schiera dei principi raccolti nella
valletta... Non lo hanno sfiorato le accuse scagliate
dal Poeta contro i mali reggitori della terra. E,
durante l'assalto del serpente, è apparso persino
sdegnoso di seguirne la vicenda, come a sottolineare che
egli si poneva al di sopra delle suggestioni esercitate
dalla cupidigia, radice di ogni male. Né ha cessato di
guardare insistentemente il Poeta. E ciò non tanto
perché intorno a costui fosse lo stupore del gran
privilegio per cui attraversava, vivente, il regno dei
morti, quanto perché egli era colui che avrebbe, con la
sua non peritura parola, celebrato nella gloria della
sua casa quelle virtù che, sole, avrebbero restituito al
genere umano la promessa e la certezza di un ordine
migliore." (Sacchetto) E nella profezia dell'esilio è il
ricordo della Val di Magra, "una delle poche regioni di
cui Dante abbia conservato un ricordo puro, senza
veleno, un'acuta nostalgia, senz'ombra di amaritudine...
sopra tutto lo ha consolato, in essa, l'ospitalità
schietta del nobile signore che lo ha accolto, e della
cui casa, celebrata in tutta Europa per il retto uso
della borsa e della spada, c'è appunto, in questo canto,
l'elogio alto e commosso" (Sacchetto). Perciò il
preannuncio severo e solenne dell'esilio è consolato dal
dono di quella gentilezza e di quella cortesia che lo
salveranno dalla disperazione. |
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