IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

DIVINA COMMEDIA

PURGATORIO

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 DIVINA COMMEDIA: PARAFRASI PURGATORIO CANTO IX°

1 La concubina di Titone antico
già s'imbiancava al balco d'orïente,
fuor de le braccia del suo dolce amico;
  1

Già (sulla terra) l'Aurora, moglie dell'invecchiato Titone, lontana dalle braccia del suo dolce amico, stava sorgendo (al balco d'oriente: come se fosse affacciata al balcone dell'oriente) facendosi bella;

  L'Aurora rapì e sposò Titone (figlio di Laomedonte e fratello di Priamo), ottenendo per lui da Giove l'immortalità. ma non l'eterna giovinezza.
4 di gemme la sua fronte era lucente,
poste in figura del freddo animale
che con la coda percuote la gente;
  4 la sua fronte era lucente per le stelle, disposte a formare la costellazione dello Scorpione (freddo animale: secondo la zoologia medievale era considerato di sangue freddo) che ferisce la gente con la sua coda;
7 e la notte, de' passi con che sale,
fatti avea due nel loco ov' eravamo,
e 'l terzo già chinava in giuso l'ale;
  7 e in purgatorio, dove eravamo, la notte aveva percorso due passi (erano passate due ore) di quelli mediante i quali essa compie il suo itinerario nel cielo, mentre il terzo passo (la terza ora) stava terminando il suo volo,
  La notte è personificata nell'immagine di una donna che cammina con passi alati, intendendo per passi le ore, sei ascendenti fino a mezzanotte, e sei discendenti. Avendo essa ormai compiuto quasi tre dei passi con che sale, sono circa le ventuno nel purgatorio, mentre agli antipodi, in Italia. sta sorgendo l'alba. Alla metafora dei passi se ne aggiunge una seconda, ispirata dall'immagine mitologica delle ore alate: 'l terzo già chinava in giuso l'ale.
10 quand' io, che meco avea di quel d'Adamo,
vinto dal sonno, in su l'erba inchinai
là 've già tutti e cinque sedavamo.
  10

quand'io, che sentivo il peso della mia carne, vinto dal sonno, mi coricai sull'erba là dove stavamo seduti già tutti e cinque (Dante, Virgilio, Nino Visconti, Corrado Malaspina, Sordello).

  A la seconda aurora da Dante descritta nel Purgatorio. La prima aveva tutto il colore delle cose immaginate, in quel dolce color d'oriental zaffiro, questa, invece, è più preziosa nella scelta degli elementi astronomici, che ne rendono anche difficile l'interpretazione. Ma se l'attenzione si rivolge all'immagine visiva e poetica, subito le difficoltà spariscono, e si comprende che, aprendo il canto con la figura di una giovane donna che si fa bella, Dante ha voluto suggerire la gioia delle nuove verità e bellezze di cui sta per godere: è quasi un nuovo rinascere, in cui prevale il senso della dolcezza, il sovrastare della giovinezza sulla vecchiaia, la lucentezza splendente delle stelle che sembrano gemme.
Dante ci prepara a guardare, al di là degli oggetti che ci presenta (il canto si articola dapprima intorno alla figura dell'aurora, poi a quella dell'aquila, infine all'entrata nel purgatorio vero e proprio), a quella verità che essi celano, al significato mistico della loro presenza, che meglio sarà rilevato quando egli chiamerà i particolari dei graditi e dell'angelo ad indicare i momenti di un processo sacramentale, sotto le vesti di una simbologia liturgica.
Tuttavia la nostra fantasia è più portata a seguire l'immagine iniziale della giovane donna, di immediata freschezza, quasi sensibile, mentre nei simboli sacramentali annota un maggior descrittivismo intellettuale nello sforzo di non tralasciare nessuno dei molteplici significati che possono esserci consegnati.
13 Ne l'ora che comincia i tristi lai
la rondinella presso a la mattina,
forse a memoria de' suo' primi guai,
  13

Nell'ora in cui vicino al mattino la rondinella comincia i suoi dolrosi lamenti, forse ricordando le sue antiche sventure,

  Dante, ispirandosi ad Ovidio (Metamorfosi VI, versi 412 sgg.), ricorda il mito di Filomela e di Progne, due sorelle che gli dei trasformarono, rispettivamente, in usignolo e in rondine (Dante tuttavia attribuisce a Progne la metamorfosi di Filomela e viceversa, seguendo un'altra versione della leggenda), in seguito al banchetto imbandito da Progne al marito Tereo con la carne dei figli, per vendicarsi del tradimento di lui con Filomela.
16 e che la mente nostra, peregrina
più da la carne e men da' pensier presa,
a le sue visïon quasi è divina,
  16

quando la nostra mente, più libera dal peso della carne e meno presa dalle preoccupazioni, è quasi indovina del vero nei suoi sogni,

  Secondo la concezione medievale, quando la mente umana è libera dalle preoccupazioni materiali ed è meno presa dalla vita intellettiva, assecondando il cammino stravagante del sogno, ha spesso modo di divinare il futuro con una certa rispondenza alla verità.
19 in sogno mi parea veder sospesa
un'aguglia nel ciel con penne d'oro,
con l'ali aperte e a calare intesa;
  19 mi pareva in sogno di vedere un'aquila con le penne dorate librata nel cielo con le ali aperte e pronta a calarsi;
22 ed esser mi parea là dove fuoro
abbandonati i suoi da Ganimede,
quando fu ratto al sommo consistoro.
  22 e mi pareva di essere là (sul monte Ida) dove da Ganimede furono abbandonati i suoi (compagni di caccia), quando fu portato nel concilio degli dei.
  Ganimede, figlio di Troo, re di Troia, mentre si trovava a caccia sul monte Ida nella Troade, fu rapito da Giove, che si era trasformato in aquila, e fu portato in cielo dove divenne coppiere nei banchetti degli dei (Ovidio - Metamorfosi XI, verso 756).
Diverse sono le interpretazioni a proposito dell'aquila. Alcuni critici la considerano rappresentazione dell'Impero, richiamando il fatto che anche l'aquila di Giustiniano muove il suo volo dai monti vicino a Troia (Paradiso canto VI, verso 6), che l'aguglia discende come fulmine allo stesso modo nel quale Dante la raffigura nella Epistola ai principi e popoli d'Italia perché accolgano Arrigo VII e in quella ai Fiorentini che si oppongono allo stesso imperatore, e che l'imperatore Traiano in paradiso si trova là dove le anime si dispongono a formare la figura dell'aquila (Paradiso canti XVII1-XX).
In questo caso l'aquila significherà, secondo il Porena, che l'Impero è in certo modo strumento anch'esso della divina grazia nella funzione di avviare Dante alla rivelazione divina, e l'aver Dante finora parlato con Sordello sulle lotte politiche, nonché l'essersi trovato nella valletta dei principi pacificati tra loro e fraternamente uniti, avvalora tale tesi. Ma ciò non esclude che l'aquila sia una prefigurazione di Lucia, sicché mentre l'uccello rapisce Dante verso la sfera del fuoco, che sta tra la terra e il cielo della luna, la donna lo porta di fatto alle soglie del purgatorio.
Il Mattalia osserva che le azioni dell'aquila e di Lucia sono "sincrone e parallele, ma l'una in rapporto con l'altra; identica la direzione (verso l'alto) : evidente allegoria, ci pare, della funzione complementare dei due magisteri: temporale (Impero) e spirituale (Chiesa) ". Alla salvazione finale l'uomo arriva aiutato - attraverso le leggi - dal magistero dell'autorità imperiale: perciò il Poeta accosta l'aquila a Lucia per significare che Chiesa e Impero debbono agire concomitanti, anche se poi sotto, linea che il suggello finale non può che venire dalla Chiesa: infatti se l'aquila e Lucia compiono lo stesso gesto, la prima anticipa soltanto in sogno quello che la donna attua poi nella realtà, portando Dante all'entrata del purgatorio.
25 Fra me pensava: 'Forse questa fiede
pur qui per uso, e forse d'altro loco
disdegna di portarne suso in piede'.
  25 Pensavo dentro di me: «Forse l'aquila si cala a ferire sempre in questo luogo per abitudine, e forse non si degna di portar su la preda con gli artigli da nessun altro luogo».
28 Poi mi parea che, poi rotata un poco,
terribil come folgor discendesse,
e me rapisse suso infino al foco.
  28 Poi mi sembrava che, compiuti ampi giri nel cielo, si calasse giù terribile come un fulmine, e mi rapisse in alto fino alla sfera del fuoco.
31 Ivi parea che ella e io ardesse;
e sì lo 'ncendio imaginato cosse,
che convenne che 'l sonno si rompesse.
  31 Giunti qui sembrava che ci incendiassimo; e a tal punto l'incendio, che pur era solo un sogno, mi bruciò, che fu necessario interrompere il sonno.
34 Non altrimenti Achille si riscosse,
li occhi svegliati rivolgendo in giro
e non sappiendo là dove si fosse,
  34 Non diversamente Achille si risvegliò, volgendo in giro gli occhi ormai aperti senza sapere dove si trovasse,
37 quando la madre da Chirón a Schiro
trafuggò lui dormendo in le sue braccia,
là onde poi li Greci il dipartiro;
  37 quando la madre (Teti) lo portò via di nascosto tra le sue braccia, mentre egli dormiva, sottraendolo a Chirone e portandolo a Sciro, da dove i Greci poi lo allontanarono (per Troia),
  Secondo quanto narra Stazio (Achilleide I, versi 104 sgg.), Teti, sapendo che il figlio Achille sarebbe morto alla guerra di Troia, mentre dormiva lo trasportò dalla Tessaglia. dove era affidato al centauro Chirone, nell'isola di Sciro. Qui Achille visse travestito da donna fra le figlie del re Licomede, finché con un'astuzia Ulisse e Diomede non lo costrinsero a partecipare alla guerra di Troia.
40 che mi scoss' io, sì come da la faccia
mi fuggì 'l sonno, e diventa' ismorto,
come fa l'uom che, spaventato, agghiaccia.
  40

da come mi rìsvegliai io, alIorché il sonno si allontanò dal mio volto, e impallidii, come fa un uomo quando, per uno spavento, si sente rabbrividire.

  Dante sembra sottolineare soprattutto lo stupore dell'eroe greco, onde mettere in evidenza la propria meraviglia, e suggerire così l'immagine di sé come di un nuovo Achille, di un eroe moderno e cristiano (secondo il Momigliano mai prima d'ora Dante è stato tanto grande) disposto all'eroismo di gravi e tormentose prove. Dove però le imprese di Achille furono compiute con le armi materiali, egli opererà invece con quelle spirituali, e soprattutto con l'umiltà; tuttavia è necessario ricordare che il Poeta è trasportato in alto, come prima Ganimede da parte di Giove, da un messo celeste, cioè, come annota il Lesca, in ambedue i casi è la stessa divinità che innalza gli animi degli uomini alla contemplazione di sé. Così il mito di Ganimede e l'eroismo di Achille servono di preannuncio al trasumanare del nuovo eroe, Dante, che però rivendica anzitutto a Dio la gratuità della vocazione a tale più alta chiamata. Il fuoco del sogno, mirabilmente fuso con l'idea della Grazia che purifica, richiama la stessa immagine di un salire al cielo e di un consumarsi nel fuoco (ugualmente accaduto in sogno) che è all'inizio dell'opera giovanile di Dante, nella quale egli esalta il suo amore per Beatrice, la Vita Nova (III): essa è dunque qui esplicitamente richiamata, poiché anche in questo caso s'intende iniziare l'esperimentazione di una nuova realtà interiore, quella dell'azione della Grazia in noi, come una volta lo era stata quella dell'amore umano.
43 Dallato m'era solo il mio conforto,
e 'l sole er' alto già più che due ore,
e 'l viso m'era a la marina torto.
  43 Di fianco stava solo Virgilio, ed il sole era da più di due ore già alto sull'orizzonte (erano cioè passate le otto), e il mio sguardo era rivolto verso il mare.
46 «Non aver tema», disse il mio segnore;
«fatti sicur, ché noi semo a buon punto;
non stringer, ma rallarga ogne vigore.
  46
La mia guida disse: «Non aver paura, sta sicuro, perché noi siamo giunti ad un buon punto del nostro viaggio: non devi indebolire, ma rinvigorire le tue forze.
49 Tu se' omai al purgatorio giunto:
vedi là il balzo che 'l chiude dintorno;
vedi l'entrata là 've par digiunto.
  49 Tu sei ormai giunto al purgatorio: vedi là il pendio praticabile che lo circonda tutto attorno; osserva l'entrata dove il pendio sembra quasi interrotto.
52 Dianzi, ne l'alba che procede al giorno,
quando l'anima tua dentro dormia,
sovra li fiori ond' è là giù addorno
  52 Poco fa, durante l'alba che viene prima del giorno, quando la tua anima era insensibile alla realtà del mondo, sopra i fiori di cui quella valletta è tutta ornata,
55 venne una donna, e disse: "I' son Lucia;
lasciatemi pigliar costui che dorme;
sì l'agevolerò per la sua via".
  55 venne una donna, e disse: "Io sono Lucia: lasciatemi prendere questo uomo che dorme, così lo aiuterò nel suo cammino".
  E' la seconda volta che Santa Lucia interviene a favore di Dante (cfr. Interno canto Il, versi 100 sgg.), sempre quale simbolo della grazia illuminante.
58 Sordel rimase e l'altre genti forme;
ella ti tolse, e come 'l dì fu chiaro,
sen venne suso; e io per le sue orme.
  58 Rimasero lì Sordello e le altre nobili anime; Lucia ti prese, e quando si fece giorno, íncominciò a salire; e io seguii i suoi passi.
61 Qui ti posò, ma pria mi dimostraro
li occhi suoi belli quella intrata aperta;
poi ella e 'l sonno ad una se n'andaro».
  61 Ti posò in questo luogo, ma prima i suoi begli occhi mi indicarono la fessura aperta nella roccia; poi Lucia se ne andò via assieme al tuo sonno».
64 A guisa d'uom che 'n dubbio si raccerta
e che muta in conforto sua paura,
poi che la verità li è discoperta,
  64 Allo stesso modo in cui un uomo, prima dubbioso, si rassicura, e cambia la sua paura in fiduciosa attesa, una volta che gli è stata mostrata la verità (su ciò di cui dubitava),
67 mi cambia' io; e come sanza cura
vide me 'l duca mio, su per lo balzo
si mosse, e io di rietro inver' l'altura.
  67 così io mi mutai; e quando il mio maestro vide che io ero senza alcuna preoccupazione, si mosse su per il pendio, ed io lo seguii verso l'alto.
  Analizzando la resa poetica della prima parte del canto, si nota dapprima la prevalenza di un tono forte - in una visione solenne, che ben rende lo stupore, e più l'entusiasmo, di Dante di fronte alla grandiosità di quanto sta per accadere - di un senso di sacralità magica che si distende nella figura dell'aquila protesa nell'ampiezza dei cieli. Con l'apparizione di Lucia il tono si fa più persuasivo, più delicato, in una gioia interiore che nasce dal grato ricordo dell'istante di quell'avvenimento solenne, ricordo che si tramuta in dolcezza di parole, in freschezza di immagini: è l'aprirsi di un auroraIe mondo in quell'anima che dentro dormìa. Per Dante sono infatti molte le ragioni della meraviglia allorché, svegliandosi, ha vicino ormai solo Virgilio, mentre il sole è già alto nel cielo ed il suo sguardo è rivolto verso il mare, sicché lo stesso paesaggio, come annota il Mattalia, ha veramente una "vastità di visuale in forte contrasto con la ristrettezza della valletta in cui si era addormentato".
70 Lettor, tu vedi ben com' io innalzo
la mia matera, e però con più arte
non ti maravigliar s'io la rincalzo.
  70

Lettore, tu t'accorgi che io tratto ora un argomento più solenne, e perciò non meravigliarti se io lo avvaloro con procedimenti artistici più raffinati.

  "Avvisa il lettore... dicendogli ch'egli innalza la materia sua... a trattare di cose autorevoli. e poi la rincalza, cioè l'addorna e vela con belle finzioni poetiche," (Anonimo Fiorentino) Questi inviti di Dante (cfr. anche il canto VIII, versi 19-21) segnano come le tappe di un suo crescere poetico, sicché egli annota con orgoglio questa ulteriore scelta di una tematica più ardimentosa, secondo un procedimento che avvalora il proprio linguaggio attraverso l'uso di scene figurative, di invenzioni allegoriche, di suggerimenti dottrinali, di reminiscenze scritturali, per esprimere le sue progressive conquiste spirituali.
73 Noi ci appressammo, ed eravamo in parte
che là dove pareami prima rotto,
pur come un fesso che muro diparte,
  73 Noi ci avvicinammo (alla fessura), ed eravamo già ad un punto, per cui là dove prima mi appariva solo una fessura, proprio come un varco che divide le parti di un unico muro,
76 vidi una porta, e tre gradi di sotto
per gire ad essa, di color diversi,
e un portier ch'ancor non facea motto.
  76 mi fu possibile vedere una porta, e salire fino ad essa per tre gradini sotto, diversi tra loro quanto al colore, e un custode (un angelo) che ancora non parlava.
  L'angelo portinaio non parla, sia perché la sua missione non è umana, sia perché attende che sia il peccatore, di propria spontanea volontà, ad avvicinarsi. Egli sta sul più alto dei gradini perché subito risulti evidente l'autorità di cui è investito da Dio, ed il suo volto è chiaro come devono esserlo il suo animo e la sapienza da lui posseduta.
79 E come l'occhio più e più v'apersi,
vidil seder sovra 'l grado sovrano,
tal ne la faccia ch'io non lo soffersi;
  79 E quando il mio occhio si fissò sempre più attento su di lui, vidi che sedeva sul gradino più alto, e che era talmente splendente nel volto che io non sopportai tanta luce;
82 e una spada nuda avëa in mano,
che reflettëa i raggi sì ver' noi,
ch'io dirizzava spesso il viso in vano.
  82 e aveva in mano una spada snudata, che rifletteva verso di noi i raggi del sole, così che io spesso indirizzavo invano i miei occhi verso di lui.
  La spada, simbolo solitamente del potere, qui rappresenta la giustizia, che deve essere nuda, cioè schietta, senza dubbi, e lucente, perché deve risplendere come la verità. Per questo Dante, che non vi è ancora abituato, ha difficoltà nel rivolgere gli occhi alla verità divina, che dalla spada traluce, e dalla quale egli resta abbagliato.
85 «Dite costinci: che volete voi?»,
cominciò elli a dire, «ov' è la scorta?
Guardate che 'l venir sù non vi nòi».
  85

Egli cominciò a dire: «Dal luogo dove siete dite: che cosa volete? e dov'è colui che vi accompagna? badate che il vostro salire non vi torni a danno».

  L'angelo, come sacerdote, deve accertarsi che il peccatore affidi la propria redenzione non solo alla sua buona volontà, ma anche alla componente divina di ogni sacramento, in questo caso rappresentata da Lucia come donna del ciel.
88 «Donna del ciel, di queste cose accorta»,
rispuose 'l mio maestro a lui, «pur dianzi
ne disse: "Andate là: quivi è la porta"».
  88 Il mio maestro gli rispose: «Una donna del cielo (Lucia), esperta di queste cose, or non è molto ci disse: "Recatevi (andate) là: ivi è la porta"».
91 «Ed ella i passi vostri in bene avanzi»,
ricominciò il cortese portinaio:
«Venite dunque a' nostri gradi innanzi».
  91 L'angelo cortese ricominciò a parlare: «Ed ella vi faccia progredire nel cammino del bene: venite dunque fino a questi gradini».
94 Là ne venimmo; e lo scaglion primaio
bianco marmo era sì pulito e terso,
ch'io mi specchiai in esso qual io paio.
  94 Li raggiungemmo; ed il primo gradino era fatto di marmo bianco, così pulito e lucente, che io potei specchiarmi in esso proprio come appaio.
97 Era il secondo tinto più che perso,
d'una petrina ruvida e arsiccia,
crepata per lo lungo e per traverso.
  97 Il secondo era più che scuro, addirittura nero, composto di una pietra non levigata ed arida, attraversata da fessure nella sua lunghezza e larghezza.
100 Lo terzo, che di sopra s'ammassiccia,
porfido mi parea, sì fiammeggiante
come sangue che fuor di vena spiccia.
  100 Il terzo gradino, che si sovrappone con la massa del suo peso agli altri, mi sembrava di porfido dal color rosso fuoco, come fosse stato sangue sgorgante da una vena.
  Il primo gradino indica il primo momento della confessione, l'esame di coscienza, attraverso il quale l'anima si guarda come in uno specchio ed appare com'è in realtà.
Il secondo rappresenta la confessione verbale, durante la quale il penitente riconosce i suoi peccati nella loro gravità; ma quelle fessure, che formano una croce, indicano che tale bruttura dell'anima può essere spezzata dalla croce, cioè dai meriti di Cristo.
Il terzo gradino spiega il terzo momento, che segue gli altri perché è l'atto più solenne della confessione: è la soddisfazione, che consiste in un movimento d'amore, da parte del peccatore, verso Dio, e nell'applicazione dei meriti del sangue, cioè del sacrificio di Cristo, che completa il gesto d'amore, sempre limitato, del peccatore pentito.
Altri commentatori invece, pur essendo d'accordo nel considerare rappresentati in questi versi i tre momenti del rito della confessione, vedono simboleggiata nel primo gradino la confessione orale e nel secondo la contrizione.
 
103 Sovra questo tenëa ambo le piante
l'angel di Dio sedendo in su la soglia
che mi sembiava pietra di diamante.
  103

Sopra quest'ultimo gradino stava saldamente appoggiato l'angelo di Dio, sedendo sulla soglia, che mi sembrava di diamante.

  L'angelo, simbolo dell'autorità della Chiesa che sanziona l'atto dei penitente, tiene i piedi sull'ultimo gradino, cioè sulla soddisfazione data dal peccatore, e ad un tempo sta seduto sopra la soglia di diamante, simbolo della costanza nell'uso dell'autorità da parte del sacerdote, che deve svolgere il proprio ministero con rigida giustizia, senza lasciarsi fuorviare da simpatia, da violenza, da speranza di ricompensa. A sua volta, il diamante, nella sua purezza, è simbolo del solido fondamento su cui è basata la Chiesa, dispensatrice dell'assoluzione dei peccati.
106 Per li tre gradi sù di buona voglia
mi trasse il duca mio, dicendo: «Chiedi
umilemente che 'l serrame scioglia».
  106 La mia guida accompagnò me, ben disposto in questo, su per i tre gradini, dicendomi: «Con umiltà chiedi che si apra la serratura».
109 Divoto mi gittai a' santi piedi;
misericordia chiesi e ch'el m'aprisse,
ma tre volte nel petto pria mi diedi.
  109 Mi gettai devotamente ai santi piedi dell'angelo: gli chiesi la grazia che mi aprisse, ma prima mi battei tre volte il petto.
  Tutta la confessione deve essere manifestazione di una volontà ben precisa e di un'umiltà convinta. Per questo Dante deve chiedere che l'angelo apra, deve cioè volerlo lui, e poi battersi il petto in segno di umiltà: "la prima volta è per li peccati commessi nel pensiero, la seconda per li peccati prodotti con la lingua, la terza per li peccati conseguiti con le operazioni"(Ottimo).
112 Sette P ne la fronte mi descrisse
col punton de la spada, e «Fa che lavi,
quando se' dentro, queste piaghe» disse.
  112

L'angelo mi disegnò cor la punta della spada sulla fronte sette P, e aggiunse: «Quando sarai dentro (il vero purgatorio), cerca di cancellare questi segni».

  Rimessi i peccati ed ottenuta la salvezza dalla dannazione eterna, rimane nell'animo la disposizione al male, ed il debito da soddisfare nei confronti di Dio, salvezza e debito qui rappresentati dai sette P, corrispondenti a ciascuno dei sette peccati capitali puniti nei sette gironi in cui si articola il purgatorio. L'incisione dei P si rifà a passi biblici e ad usanze dei tempi di Dante. Se il Sarolli ricorda infatti che gli angeli dell'Apocalisse portano i sette segni e che secondo Ezechiele (IX, 3-6) i giusti di Gerusalemme, per potere uscire salvi dalla città, dovettero avere sulla fronte una Thau (T greca), nei documenti fiorentini raccolti dal D'Ovidio e dal Medin, è detto che i ladri erano costretti a portare una mitria cartacea con l'iniziale di furto, cioè P.
115 Cenere, o terra che secca si cavi,
d'un color fora col suo vestimento;
e di sotto da quel trasse due chiavi.
  115 La cenere o la terra secca che sia stata appena estratta dalla cava sarebbe dello stesso colore della veste dell'angelo; e da sotto di questa egli trasse fuori due chiavi.
118 L'una era d'oro e l'altra era d'argento;
pria con la bianca e poscia con la gialla
fece a la porta sì, ch'i' fu' contento.
  118 Una era d'oro e l'altra d'argento: prima con la chiave d'argento e poi con quella d'oro l'angelo fece sì, che io rimanessi contento (al veder aperta la porta).
  Il colore della veste dell'angelo è simbolo del ministero della penitenza da lui esercitato, oppure, secondo altri, dell'umiltà necessaria per esercitarlo. La chiave d'oro indica l'autorità di Dio, senza la quale l'assoluzione è nulla, e quella d'argento la conoscenza della teologia morale e l'intuizione psicologica, cioè la sapienza umana necessaria al confessore per capire e giudicare il peccatore.
121 «Quandunque l'una d'este chiavi falla,
che non si volga dritta per la toppa»,
diss' elli a noi, «non s'apre questa calla.
  121 Egli ci disse: «Ogni volta che una di queste chiavi fallisce nel suo compito, così da non poter girare nella serratura, questa porta non si apre.
124 Più cara è l'una; ma l'altra vuol troppa
d'arte e d'ingegno avanti che diserri,
perch' ella è quella che 'l nodo digroppa.
  124 L'una è più preziosa (cara: cioè quella dell'autorità divina); ma l'altra (quella d'argento) esige molta sapienza ed intuizione prima di riuscire ad aprire, perché essa (la chiave argentea) è proprio quella che scioglie il nodo del peccato.
127 Da Pier le tegno; e dissemi ch'i' erri
anzi ad aprir ch'a tenerla serrata,
pur che la gente a' piedi mi s'atterri».
  127 Io le ho ricevute in consegna da San Pietro; ed egli mi disse di sbagliare nell'aprire (con indulgenza) piuttosto che nel tener chiusa la porta (per eccesso di rigore), alla condizione che la gente si getti ai miei piedi (a richieder ciò con umiltà».
  Il passo evangelico (Matteo XVIII, 21-22), nel quale Cristo raccomanda a Pietro di peccare piuttosto in generosità che in rigore, una volta riscontrata la buona volontà dell'uomo, è suggerito forse alla fantasia di Dante anche dallo spettacolo del giubileo del 1300, con l'ampiezza delle sue indulgenze e del suo perdono.
 
130 Poi pinse l'uscio a la porta sacrata,
dicendo: «Intrate; ma facciovi accorti
che di fuor torna chi 'n dietro si guata».
  130

Poi spinse l'uscio di quella sacra porta, dicendo: «Entrate; ma vi avviso che torna fuori colui che si volge a guardare indietro».

  Dante ricorda in questi versi l'episodio biblico della moglie di Lot (Genesi XIX, 26), che disubbidì all'ordine degli angeli volgendosi a guardare la città di Sodoma, per cui fu trasformata in una statua di sale, e il mito di Orfeo e di Euridice. Dopo la morte della moglie, Orfeo, disceso agli inferi, ottenne da Proserpina di poterla riportare sulla terra, purché durante il cammino egli non si volgesse ad osservarla; non avendo ubbidito al comando. Euridice gli fu tolta per sempre.
133 E quando fuor ne' cardini distorti
li spigoli di quella regge sacra,
che di metallo son sonanti e forti,
  133 E quando gli spigoli di quella sacra porta, che sono di metallo, forti e sonori, furono volti sui cardini.
136 non rugghiò sì né si mostrò sì acra
Tarpëa, come tolto le fu il buono
Metello, per che poi rimase macra.
  136 non procurò un così stridente rumore e non si mostrò così dura ad aprirsi neppure la rupe Tarpea, quando (da Cesare) ne fu allontanato il custode, il buon Metello (per sottrarre il denaro del pubblico erario ivi custodito), per cui in seguito rimase priva (del tesoro custodito).
139 Io mi rivolsi attento al primo tuono,
e 'Te Deum laudamus' mi parea
udire in voce mista al dolce suono.
  139 Io prestai orecchio attento a quel primo rumore, e mi parve di udire «Te Deum laudamus» (l'inno ambrosiano del ringraziamento) con un canto misto a quel dolce suono.
142 Tale imagine a punto mi rendea
ciò ch'io udiva, qual prender si suole
quando a cantar con organi si stea;
  142 Ciò che udivo mi procurava esattamente l'impressione che si prova solitamente quando si canta in coro,
145 ch'or sì or no s'intendon le parole.   145 quando le parole ora si capiscono ed ora no.
  L'espressione cantar con organi è da intendersi come « composizione di più voci umane», perché l'organo, come strumento, non ebbe mai il compito di accompagnare le voci fino al 1500. Tale termine ha dunque senso vocale, secondo il Casimiri, cioè "voleva significare unione di due o più voci in consonanza". Ma al di là di questa dotta disquisizione, resta l'immagine di Dante che entra in questa cattedrale che è il monte del purgatorio, e la dolcezza di un canto che gli invade l'animo commosso. E' una commozione diversa, però, da quella che lo aveva preso accanto a Casella (canto Il, versi 106 sgg.), la quale era divagazione tutta umana nell'ascolto di un canto, delle cui parole comprendeva esattamente il significato, mentre le espressioni qui non sempre giungono ugualmente chiare alla sua mente. Tuttavia quello che conta è il loro disporsi a formare un'armonia, che Dante tenta di rendere anche nel ritmo di quell'ultimo verso, dove i brevi vocaboli si susseguono ondeggiando, così come è importante che quel suono, dapprima aspro, si muti poi in onda sonora dì gradevole ascolto: la verità, di cui il Poeta dovrà partecipare, può nel suo primo ascolto apparire aspra e perfino sgradevole, ma poi si muta in dolcezza di interiore rigustamento per chi le si rivolga attento.

© 2009 - Luigi De Bellis