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DIVINA
COMMEDIA: PARAFRASI
PARADISO
CANTO I° |
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1 |
La gloria di
colui che tutto move
per l'universo penetra, e risplende
in una parte più e meno altrove. |
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1 |
La luce gloriosa di Dio, colui che è la
causa prima e il motore di tutto il creato, penetra e
risplende sull’universo, in misura maggiore in un luogo
e minore in un altro (a seconda che la cosa creata è più
o meno perfetta e quindi più o meno disposta ad
accogliere in sé la luce divina). |
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La «proposizione» della terza cantica inizia - a
differenza di quelle dell'Inferno e del Purgatorio,
nelle quali Dante aveva avanzato in primo piano la sua
persona - con la maestosa immagine di un Dio che guida
l'universo come motore supremo, imprimendo (penetra) a
ciascuna realtà creata una vita specifica e
manifestandosi, nel suo intervento, non come potenza
dominatrice, freddamente operante, ma come luce
(risplende), che illumina amorosamente l'intimo delle
sue creature. La sinfonia di luce, alla quale Dante
aveva abituato il lettore nel paradiso terrestre,
presentava un carattere ancora fisico, affondava le sue
radici in una normale esperienza terrena, laddove essa
diventa, fin dai primi versi del Paradiso, uno degli
attributi principali di Dio, e l'unico mezzo adatto,
secondo la puntuale affermazione del Busnelli, ad
esprimere "visivamente" il mondo dello spirito e il
graduale immergersi della creatura umana nella vita
divina. Nella lettera che inviò a Cangrande della Scala,
signore di Verona, per dedicargli la Commedia, il Poeta
si preoccupò di precisare il significato di questi primi
versi, esaminando i verbi penetra e risplende. Il "divinus
radius" penetra "quantum ad essentiam", nel senso che
ogni essere creato deriva - direttamente o
indirettamente - da Dio e da Lui riceve la luce che
giustifica ed illumina la sua esistenza, e risplende
"quantum ad esse", nel senso che tale raggio è più
attivo negli esseri creati da Dio con atto diretto
(angeli, cieli, anima razionale dell'uomo), e meno
attivo in quelli (animali e vegetali) creati con atto
indiretto per mezzo di agenti secondari (XIII, 64). |
4 |
Nel ciel che
più de la sua luce prende
fu' io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di là sù discende; |
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4 |
Io fui nell’Empireo, il cielo che
riceve in maggior quantità la luce divina, e vidi cose
che colui al quale è consentito di ritornare da là in
terra, non è capace, (poichè non se ne ricorda) né può
(perchè ogni parola sarebbe inadeguata) descrivere; |
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La cosmologia di Dante è quella della Scolastica, che ha
fatto propria la dottrina tolernaico-aristotelica: la
terra occupa il centro dell'universo e intorno a lei
ruotano nove cieli (Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte,
Giove, Saturno, Cielo Stellato, Cielo Cristallino o
Primo Mobile). Questi ultimi, di natura materiale, sono
circondati dal cielo Empireo, che è pura luce (Paradiso
XXX, 39) e nel quale ha la sua sede Dio; esso, inoltre,
è perfettamente immobile, avendo conseguito il pieno
appagamento nella visione perpetua della divinità (cfr.
verso 122), laddove tutte le cose create tendono, in un
moto continuo, al raggiungimento di Dio. |
7 |
perché
appressando sé al suo disire,
nostro intelletto si profonda tanto,
che dietro la memoria non può ire. |
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7 |
perchè avvicinandosi a Dio, che è
oggetto del suo desiderio, la nostra mente si addentra
così profondamente (nella sua conoscenza), che la
memoria non può seguirla. |
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I versi 5-9 hanno il compito di introdurre il lettore
nella mutata dimensìone spirituale della terza cantica,
dove Dante vivrà un'esperienza religiosa di carattere
mistico.
Trascesi i modi di una normale esistenza e superati i
limiti posti ad ogni umana conoscenza, il Poeta si
accosta e penetra nella vita trinitaria, percependo Dio
e unendosi a Lui in uno slancio sublime di amore, nel
quale la creatura perde coscienza di sé, occupata e
dominata dalla presenza della divinità. Un'ulteriore
testimonianza del fatto che Dante sta parlando dell'«
excessus mentis », dell'« uscita da sé » propria dei
mistici, è da cercarsi nel richiamo (versi 73-75) al
passo di San Paolo, nel quale l'apostolo rivela di
essere stato rapito al terzo cielo (il paradiso) e di
aver udito "parole ineffabili, che non è dato all'uomo
di poter esprimere" (Il Corinti XII 2-4). Accanto a
questa e ad altre testimonianze dell'Antico e del Nuovo
Testamento occorre ricordare che, nel Medioevo, la
letteratura mistica latina vantava nomi quali quelli di
San Bernardo, di San Bonaventura, di Riccardo di San
Vittore, che continuavano e sviluppavano il filone
mistico della letteratura patristica latina. "Visione" è
il termine con il quale la Commedia è comunemente
definita, e con esso si vuole sottolineare "il valore di
assoluta verità che lo scrittore attribuisce alla sua
materia: verità assicurata, quanto all'assunto pratico,
dalla saldezza dell'ideologia; quanto alla concezione
generale del tema, dalla fede religiosa, che gli
permette di conferire all'esperienza dell'oltremondo una
pienezza di realtà non inferiore e non diversa da quella
con cui accoglie i dati dell'esperienza terrestre; e
quanto infine ai particolari, dall'ampiezza e dalla
minuzia degli elementi attinti a un patrimonio di
cultura, unitariamente rivissuto nelle sue componenti
classiche e medievali- (Sapegno).
Limitato al Paradiso, tale termine ha un'accezione
ancora più profonda, perché siamo di fronte alla «
visione » del divino che prende possesso dell'umano, Da
qui la preoccupazione, nel Poeta, di avvisare, fin dall'inízio,
che quanto egli viene descrivendo è solo un tentativo di
esprimere ciò che, per sua natura, è inesprimibile (vidi
cose che ridire né sa né può chi di là su discende) :
infatti la facoltà espressiva risulta inadeguata per
queste altezze speculative (cfr. Convivio III, III, 15;
Vita Nova XXI), e la memoria - che è facoltà più
limitata rispetto a quella intellettiva non è in grado
di ritenere perfettamente quanto la creatura ha visto e
sentito nel momento di mistica unione con Dio (Epistola
XIII, 78 e 83-84). Sulla difficoltà della traduzione del
suo trasumanar (verso 70) nei termini sensibili e
razionali del linguaggio, Dante ritornerà frequentemente
nel corso della terza cantica: rilevare lo sforzo
continuo di concretizzare un'esperienza che è al di
sopra di ogni umana esperienza (Epistola XIII, 78), è
compito che la critica, dal periodo romantico in poi, si
è proposto come fondamentale. |
10 |
Veramente
quant' io del regno santo
ne la mia mente potei far tesoro,
sarà ora materia del mio canto. |
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10 |
Tuttavia quel tanto della
visione del paradiso che io non ho potuto tesoreggiare
nella mia memoria, sarà ora argomento della mia poesia. |
13 |
O buono
Appollo, a l'ultimo lavoro
fammi del tuo valor sì fatto vaso,
come dimandi a dar l'amato alloro. |
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13 |
O eccellente Apollo, riversa in me tanto della tua virtù
poetica per l’ultimo lavoro (la terza cantica), quanta
tu ne richiedi per concedere l’ambito titolo di poeta. |
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Terminata la « proposizione » inizia l'«invocazione»,
che proseguirà fino al verso 36. Il Poeta, secondo le
regole retoriche codificate da una lunga tradizione, che
ha origine nell'epica classica,chiede l'intervento delle
divinità protettrici della poesia per l'ultimo lavoro,
che conclude il poema sacro, rappresentandone anche il
vertice artistico. Apollo era considerato,
nell'antichità, guida e ispiratore dei poeti, che, in
riconoscimento della loro grandezza, venivano incoronati
di alloro. Quest'ultimo è amato dai poeti, che lo
ritengono il traguardo piú ambito da raggiungere, e da
Apollo, perché in alloro fu trasformata Dafne, la ninfa
di cui il dio si era innamorato (cfr. Ovidio Metamorfosi
1, 452 sgg.). |
16 |
Infino a qui
l'un giogo di Parnaso
assai mi fu; ma or con amendue
m'è uopo intrar ne l'aringo rimaso. |
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16 |
Fino ad ora mi è stato sufficiente
l’aiuto delle Muse; ma adesso mi è necessario affrontare
l’ultimo argomento con il soccorso di entrambi. |
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Nell'Inferno (Il, 7; XXXII, 10) e nel Purgatorio (I, 9;
XXIX, 40-41) era stato sufficiente l'aiuto delle Muse,
rappresentanti le scienze umane e tutti i mezzi tecnici
necessari ad una composizione poetica, laddove Apollo è
simbolo della poesia stessa, la quale viene ispirata
direttamente dal dio nel cuore del poeta. Le Muse
avevano la loro sede sul Nisa (o Elicona), uno dei due
gioghi del monte Parnaso, mentre l'altro, il Cirra, era
occupato da Apollo. La prima cima, inoltre,
rappresentava la filosofia, scienza riguardante le cose
umane, la seconda la teologia, scienza riguardante le
realtà divine. Per questo Apollo, "fuori della
convenzione letteraria, è figuralmente Dio" (Mattalia),
al quale il Poeta chiede sostegno.
Aringo era il termine indicante lo spazio dove si
gareggiava nella lotta o nella corsa e, per estensione,
la gara stessa. |
19 |
Entra nel
petto mio, e spira tue
sì come quando Marsïa traesti
de la vagina de le membra sue. |
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19 |
Entra nel mio petto, e ispirami quella
potenza d’ingegno di cui desti prova quando vincesti e
scorticasti Marsia. |
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Il satiro Marsia osò sfidare Apollo ad una gara
musicale, con il patto che il vincitore avrebbe potuto
fare ciò che avesse voluto del vinto. Essendo stato
superato nella prova, il satiro fu legato dal dio ad un
albero e scorticato (Ovidio - Metamorfosi VI, 382-400). |
22 |
O divina
virtù, se mi ti presti
tanto che l'ombra del beato regno
segnata nel mio capo io manifesti, |
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22 |
O divina potenza, se ti concedi a me tanto che io possa
esprimere la tenue immagine del paradiso che è rimasta
impressa nella mia memoria, |
25 |
vedra'mi al
piè del tuo diletto legno
venire, e coronarmi de le foglie
che la materia e tu mi farai degno. |
|
25 |
mi vedrai venire al tuo diletto alloro, e incoronarmi
poi di quelle fronde di cui l’arduo argomento e il tuo
aiuto mi renderanno degno. |
28 |
Sì rade
volte, padre, se ne coglie
per trïunfare o cesare o poeta,
colpa e vergogna de l'umane voglie, |
|
28 |
Così di rado, o padre (dei
poeti), si colgono le foglie dell’alloro per il fatto
che trionfi o un imperatore o un poeta, e ciò è colpa e
vergogna dei pervertiti desideri degli uomini, |
31 |
che parturir
letizia in su la lieta
delfica deïtà dovria la fronda
peneia, quando alcun di sé asseta. |
|
31 |
che la fronda dell’alloro
dovrebbe esser causa di letizia al già lieto Apollo,
quando desta brama di sé in qualcuno. |
34 |
Poca favilla
gran fiamma seconda:
forse di retro a me con miglior voci
si pregherà perché Cirra risponda. |
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34 |
Un grande incendio può
seguire una piccola favilla; forse dopo di me (da parte
di poeti migliori) si innalzeranno preghiere con voci
più efficaci per ottenere ispirazione da Apollo. |
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Il desiderio vivissimo di meritare la corona d'alloro (peneia:
perché Dafne era figlia del fiume Peneo) dovrebbe
rallegrare Apollo (il dio che a Delfo riceveva un culto
particolare), poiché pochi ormai vi aspirano, in un
mondo non più guidato da alti ideali. Dopo l'esordio di
vastità cosmica, nel quale l'animo si era aperto ad una
nuova vita, il pessimismo dei Poeta - sempre presente
ogniqualvolta il suo sguardo indagatore si volge agli
eventi terreni e, di essi, isola quelli del suo tempo -
torna ad affiorare nei versi 28-30 e 31-33, ma un verso,
dalla conclusione di un'epigrafe, riaccende la sua
speranza: poca favilla gran fiamma feconda. "Nel pensare
ai migliori che potrebbero seguirlo, Dante non fa
professione di falsa umiltà, ma mostra di aver coscienza
della sua forza di animatore oltre che di poeta e di
avere anche quel senso del limite (forse ...) che
l'altissima concezione dell'arte gli fa sentire, sia
pure di fronte ad opere come la sua." (Grabher) |
37 |
Surge ai
mortali per diverse foci
la lucerna del mondo; ma da quella
che quattro cerchi giugne con tre croci |
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37 |
Il sole (la lucerna del
mondo) sorge per gli uomini (a seconda delle stagioni)
da diversi punti dell'orizzonte; ma da quella zona in
cui quattro cerchi si incontrano formando tre croci, |
40 |
con miglior
corso e con migliore stella
esce congiunta, e la mondana cera
più a suo modo tempera e suggella. |
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40 |
esce con un corso più
favorevole e congiunto con una costellazione più
propizia, e plasma e segna con la propria impronta la
materia del mondo con maggiore efficacia. |
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Dopo il prologo il poeta precisa, come è già avvenuto
nel I canto del Purgatorio, il momento in cui ha inizio
il suo viaggio nel Paradiso, ritornando alla
trasfigurante apparizione della luce con la quale si era
aperta la terza cantica. Nell'equinozio di primavera
(oltre che in quello d'autunno) il sole sorge nel punto
cardinale di levante dove i cerchi dell'equatore (sul
quale si trova il sole nell'equinozio di primavera),
dell'eclittica (che taglia l'equatore nella zona
equinoziale) e del coluro equinoziale (il circolo
massimo che passa per i poli e taglia l'eclittica)
intersecano quello dell'orizzonte, formando tre croci in
uno stesso punto. Inoltre, in primavera, il sole si
trova in congiunzione con la costellazione dell'Ariete
(i cui influssi sono particolarmente benigni), come al
momento della creazione del mondo (cfr. Inferno I,
38-40).
Il viaggio, quindi, inizia sotto i più favorevoli
auspici. I commentatori antichi hanno spiegato
allegoricamente il verso 39, sostenendo che i quattro
cerchi sono simbolo delle quattro virtù cardinali e le
loro croci rappresentano le tre virtù teologali, la cui
unione predispone l'anima ad accogliere la salvezza che
proviene da Dio (indicato dal poeta frequentemente con
la metafora del sole). |
43 |
Fatto avea
di là mane e di qua sera
tal foce, e quasi tutto era là bianco
quello emisperio, e l'altra parte nera, |
|
43 |
Il sole, sorgendo quasi in
quello stesso punto, aveva recato il giorno nel
purgatorio e la sera sulla terra, e l'emisfero australe
era tutto illuminato, e quello boreale avvolto nelle
tenebre, |
46 |
quando
Beatrice in sul sinistro fianco
vidi rivolta e riguardar nel sole:
aguglia sì non li s'affisse unquanco. |
|
46 |
quando vidi Beatrice volta
a sinistra che guardava con intensità il sole: mai
aquila lo fissò così fermamente. |
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Anche l'ora è particolarmente propizia, perché è quella
del mezzogiorno, "la più nobile di tutto lo die"
(Convivio IV, XXIII, 15) non tanto perché è la più
luminosa, quanto perché è l'ora in cui morì Cristo, che
con il suo sacrificio aprì all'umanità la strada della
salvezza. Prima, tuttavia, Dante precisa che
nell'emisfero australe, dove si trova il monte del
purgatorio, il sole ha portato la luce (dopo essere
sorto quasi nel punto equinoziale indicato al verso 39,
in quanto l'equinozio vero e proprio era ormai passato
da qualche giorno), mentre nell'emisfero boreale, agli
antipodi, è notte.
Alcuni interpreti, invece, affermano che Dante qui
allude all'alba: ma non c'è alcun motivo di credere che
il Poeta, giunto davanti al Letè e all'Eunoè a
mezzogiorno (cfr. Purgatorio XXXIII, 103-104), si sia
trattenuto diciotto ore nel paradiso terrestre per
aspettare il sorgere del giorno successivo.
Dante e Beatrice sono rivolti verso levante, e,
trovandosi nell'emisfero australe, vedono il sole alla
loro sinistra, mentre nel nostro emisfero sarebbe a
destra. Con una penetrante osservazione il Mattalia
rileva che "carico di significato e di presagite
imminenze di prodigiosi eventi è il volgersi al sole di
Beatrice (impetramento di assenso e luce in gesto
d'intima e arcana comunicazione) che coincide col
momento in cui, compiuto il perfezionamento
etico-intellettuale del Poeta e adempiute tutte le
necessarie condizioni, ha inizio il volo verso il
sistema celeste, lo sgancio dalle leggi di un mondo
gravitante centralmente verso il basso e dalle limitanti
condizioni dell'essere umano. Varco del confine di un
mondo il cui asse gravitazionale è rivolto verso l'alto,
dove lo spirito non è più duramente condizionato dalla
materia, e materia e spirito, nel loro vario
congiungersi, convergono per legge concorde, verso il
comune supremo principio". Dante sarà poi reso degno di
contemplare Dio - metaforicamente indicato dal sole -
guardandolo attraverso gli occhi di Beatrice, cioè
attraverso la mediazione della teologia (secondo il
significato allegorico dei versi 64-66). |
49 |
E sì come
secondo raggio suole
uscir del primo e risalire in suso,
pur come pelegrin che tornar vuole, |
|
49 |
E come il raggio riflesso
suole aver origine da quello diretto e risalire in alto,
a guisa di pellegrino che (giunto al termine del
viaggio) vuole tornare (al luogo cui è partito), |
52 |
così de
l'atto suo, per li occhi infuso
ne l'imagine mia, il mio si fece,
e fissi li occhi al sole oltre nostr'uso. |
|
52 |
allo stesso modo dal suo
atteggiamento, penetrato attraverso gli occhi nella mia
facoltà immaginativa, trasse origine il mio, e fissai
gli occhi sul sole oltre ogni nostra possibilità. |
|
Il Chimenz, a proposito dei verso 51, ha offerto una
diversa interpretazione: pellegrin sarebbe il falco
peregrinus, che vuole risalire in alto, dopo aver
afferrato la preda. |
55 |
Molto è
licito là, che qui non lece
a le nostre virtù, mercé del loco
fatto per proprio de l'umana spece. |
|
55 |
Nel paradiso terrestre
sono possibili molte cose, che non sono concesse in
terra alle nostre facoltà, in grazia del luogo creato
(da Dio) come dimora propria del genere umano (nel suo
stato di perfezione originaria). |
58 |
Io nol
soffersi molto, né sì poco,
ch'io nol vedessi sfavillar dintorno,
com' ferro che bogliente esce del foco; |
|
58 |
Io non sostenni la vista
del sole molto a lungo, ma neppure tanto poco, da non
poter discernere che esso sfavillava all’intorno, come
ferro che esce incandescente dal fuoco; |
61 |
e di sùbito
parve giorno a giorno
essere aggiunto, come quei che puote
avesse il ciel d'un altro sole addorno. |
|
61 |
e dopo un istante parve
che la luce del giorno fosse raddoppiata come se
l’Onnipotente avesse ornato il cielo di un altro sole. |
64 |
Beatrice
tutta ne l'etterne rote
fissa con li occhi stava; e io in lei
le luci fissi, di là sù rimote. |
|
64 |
Beatrice guardava
intensamente le sfere celesti; ed io fissai gli occhi in
lei, dopo averli distolti dal sole. |
67 |
Nel suo
aspetto tal dentro mi fei,
qual si fé Glauco nel gustar de l'erba
che 'l fé consorto in mar de li altri dèi. |
|
67 |
Osservandola divenni
interiormente come si fece Glauco quando assaggiò l’erba
che lo rese compagno delle divinità marine. |
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Glauco, un pescatore della Beozia, avendo visto che i
pesci da lui pescati tornavano in vita al contatto di
una erba particolare, incuriosito, volle assaggiarla e
subito dopo venne trasformato in un dio marino (Ovidio -
Metamorfosi XIII, 898-968). Con la favola di Glauco, che
da uomo diventa divinità, il Poeta spiega, per analogia,
il passaggio al divino dall'umano, all'etterno dal tempo
(Paradiso XXXI, 37-38), la trasformazione che egli
avverte dentro di sé, ma che non riesce più ad
analizzare intellettualmente, e quindi ad esprimere per
mezzo di parole (versi 70-71: trasumanar significar per
verba non si porìa). Ne consegue che "i segni dell'umano
linguaggio applicati ai fatti e processi del mondo
puramente spirituale, ch'è il tema dell'ultima cantica,
sono insufficienti ad esprimerne l'intima essenza, e
rappresentano un modo di conoscenza-espressione
puramente analogico. Questo postulato fondamentale
domina tutta la cantica del Paradiso... vera epopea
verticale dell'intelletto proteso verso i supremi
approdi... Non rimane perciò che forzare al massimo le
risorse analogiche del linguaggio e della
rappresentazione: ed a questa necessità... assolvono
anche le comparazioni che il Poeta, in molti canti della
terza cantica, verrà cumulando con ricco... vigore
inventivo" (Mattalia). |
70 |
Trasumanar
significar per verba
non si poria; però l'essemplo basti
a cui esperïenza grazia serba. |
|
70 |
Non si potrebbe esprimere
a parole l’elevarsi oltre i limiti propri dell’uomo;
perciò basti l’esempio (di Glauco) a colui al quale la
grazia divina riserva l’esperienza diretta (poiché al
cristiano è permesso l’accesso al paradiso). |
73 |
S'i' era sol
di me quel che creasti
novellamente, amor che 'l ciel governi,
tu 'l sai, che col tuo lume mi levasti. |
|
73 |
Se io ero solo anima, la
parte di me che creasti per ultima , Tu lo sai, o Dio,
amore che governi il cielo, Tu che con la tua luce
(riflessa in me attraverso gli occhi di Beatrice) mi
sollevasti (attraverso gli spazi verso il cielo ). |
|
Nel momento in cui si innalza verso i cieli Dante sembra
ripetere le stesse parole di San Paolo, il quale,
parlando del suo rapimento in mistica visione fino al
terzo cielo, dice: "se nel... corpo o fuori del...
corpo, non lo so, Iddio lo sa" (Il Corinti XII, 3).
L'espressione del Poeta è indeterminata, ma egli non ha
alcun dubbio di essere in questo momento anima e corpo (cfr.
verso 99) : tuttavia ha quasi timore di affermarlo
decisamente. |
76 |
Quando la
rota che tu sempiterni
desiderato, a sé mi fece atteso
con l'armonia che temperi e discerni, |
|
76 |
Quando il ruotare delle
sfere celesti che tu rendi perpetuo con l’esser da
quelle desiderato, attirò su di sé la mia attenzione con
l’armonico suono che Tu regoli e moduli, |
79 |
parvemi
tanto allor del cielo acceso
de la fiamma del sol, che pioggia o fiume
lago non fece alcun tanto disteso. |
|
79 |
mi apparve allora una cosi
grande parte del cielo illuminata dalla luce del sole,
che mai pioggia o fiume formarono un lago tanto ampio. |
|
Il movimento dei cieli dipende dal loro desiderio di
congiungersi a Dio, come Dante stesso afferma a
proposito dei Primo Mobile, il nono cielo: questo,
circondato dall'Empireo, dove ha sede Dio. si muove a
causa del "ferventissimo appetito ch'è 'n ciascuna
parte... d'essere congiunta con ciascuna parte di quello
divinissimo ciel quieto" (Convivio II, III, 9).Questo
ruotare dei cieli intorno alla luce suprema di Dio
genera un armonico suono, la cui presenza fu sostenuta
da Pitagora, il celebre filosofo greco del VI sec. a. C.
La teoria, dopo essere stata accettata da Platone, fu
confutata da Aristotile, e, sulla sua scia, da tutto il
pensiero tomistico medievale. Dante, invece, fa propria
l'affermazione pitagorico-platonica, accogliendola dagli
scrittori latini (Cicerone nel Somnium Scipionis e
Macrobio), dalla letteratura patristica occidentale e da
Boezio.
Molto controversa è l'interpretazione del lago di luce
(versi 79-81): per il Nardi esso dipende dalla
luminosità propria delle sfere celesti, per il Lombardi
dal fatto che Dante si sta avvicinando alla sfera del
fuoco (ma secondo la cosmologia medievale questa non era
luminosa), per il Venturi esso deriverebbe dalla luce
della luna, per il Torraca, infine, non sarebbe che la
luce del sole, resa più grande e splendente dalla
vicinanza. |
82 |
La novità
del suono e 'l grande lume
di lor cagion m'accesero un disio
mai non sentito di cotanto acume. |
|
82 |
La novità del suono e la
grande luce accesero in me un desiderio di conosce, re
la loro origine più intenso di qualsiasi desiderio prima
avvertito. |
85 |
Ond' ella,
che vedea me sì com' io,
a quïetarmi l'animo commosso,
pria ch'io a dimandar, la bocca aprio |
|
85 |
Perciò Beatrice, che
vedeva nel mio intimo come potevo vedere io stesso, per
tranquillizzare il mio animo turbato (da questo profondo
desiderio), si preparò a parlare, prima che io
formulassi la domanda. |
88 |
e cominciò:
«Tu stesso ti fai grosso
col falso imaginar, sì che non vedi
ciò che vedresti se l'avessi scosso. |
|
88 |
e disse:
«Tu
stesso ti rendi incapace a comprendere con le tue errate
supposizioni, cosi che non capisci ciò che capiresti da
solo, se le avessi rimosse (dalla tua mente). |
91 |
Tu non se'
in terra, sì come tu credi;
ma folgore, fuggendo il proprio sito,
non corse come tu ch'ad esso riedi». |
|
91 |
Tu non sei in terra, cosi
come credi; ma nessun fulmine, allontanandosi dalla
sfera del fuoco (il proprio sito: la sua dimora naturale
), corse così rapidamente come tu che ritorni al luogo
che ti è proprio (al cielo, al quale tende ogni uomo)». |
94 |
S'io fui del
primo dubbio disvestito
per le sorrise parolette brevi,
dentro ad un nuovo più fu' inretito |
|
94 |
Se io fui liberato dal
primo dubbio ( quello relativo alla causa del suono e
della luce) da quella breve spiegazione data sorridendo,
fui inviluppato in uno nuovo e più grande, |
97 |
e dissi:
«Già contento requïevi
di grande ammirazion; ma ora ammiro
com' io trascenda questi corpi levi». |
|
97 |
e dissi:
«Già
mi sentivo tranquillo e soddisfatto riguardo a ciò che
aveva provocato in me grande meraviglia; ma ora mi
stupisco (ammiro) di come io possa (con il mio corpo)
attraversare questi corpi lievi (la sfera dell’aria e
quella del fuoco)». |
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La fisica medievale classificava i corpi in «gravi» (la
terra e l'acqua) e «lievi» (l'aria e il fuoco). I primi
sono soggetti alla forza di gravità, per cui, ad
esempio, l'uomo "naturalmente ama l'andare in giuso; e
però quando in su muove lo suo corpo, più s'affatica"
(Convivio III, III, 6); i secondi, invece, per loro
specifica natura, tendono verso l'alto. |
100 |
Ond' ella,
appresso d'un pïo sospiro,
li occhi drizzò ver' me con quel sembiante
che madre fa sovra figlio deliro |
|
100 |
Perciò ella,
dopo aver emesso (di fronte alla mia ignoranza ) un
pietoso sospiro, volse gli occhi verso di me con quell’atteggiamento
che assume la madre verso il figlio che delira, |
103 |
e cominciò:
«Le cose tutte quante
hanno ordine tra loro, e questo è forma
che l'universo a Dio fa simigliante. |
|
103 |
e cominciò:
«Tutte quante le cose create sono armoniosamente
ordinate fra loro e questo ordine è il principio
informativo il quale rende l’universo simile a Dio (che
è perfetto ordine e armonia). |
106 |
Qui veggion
l'alte creature l'orma
de l'etterno valore, il qual è fine
al quale è fatta la toccata norma. |
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106 |
In questo ordine le
creature superiori riconoscono l’impronta di Dio, il
quale è il fine ultimo dal quale è generato e verso il
quale tende l’ordine prima detto. |
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L'alte creature sono gli esseri dotati di ragione: gli
angeli secondo alcuni commentatori antichi, gli angeli e
gli uomini secondo il Buti e la maggior parte degli
esegeti moderni, i filosofi e i teologi secondo Pietro
di Dante. |
109 |
Ne l'ordine
ch'io dico sono accline
tutte nature, per diverse sorti,
più al principio loro e men vicine; |
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109 |
Nell’ordine di cui parlo
tutti gli esseri viventi ricevono una particolare
inclinazione, secondo le varie condizioni loro
assegnate, (che li pongono) più o meno vicini al loro
Creatore; |
112 |
onde si
muovono a diversi porti
per lo gran mar de l'essere, e ciascuna
con istinto a lei dato che la porti. |
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112 |
perciò si indirizzano a
diverse mete attraverso la sconfinata immensità
dell’universo, e ciascuno (si muove) secondo un istinto
specifico (a lei dato) che lo guida. |
115 |
Questi ne
porta il foco inver' la luna;
questi ne' cor mortali è permotore;
questi la terra in sé stringe e aduna; |
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115 |
Questo istinto naturale
(questi) è quello che porta il fuoco verso la sua sfera
circonda la terra, e la luna); questo è la forza che
muove (verso il loro fine) gli animali privi di ragione;
questo tiene insieme e mantiene compatta nelle sue varie
parti la terra (manifestandosi come forza di gravità): |
118 |
né pur le
creature che son fore
d'intelligenza quest' arco saetta,
ma quelle c'hanno intelletto e amore. |
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118 |
né questo istinto
indirizza (al loro fine particolare) solo le creature
che sono prive di intelligenza, ma anche quelle ( angeli
e uomini ) che sono dotate di intelligenza e di volontà
(amore: inteso come la forza che opera una scelta
consapevole ). |
121 |
La
provedenza, che cotanto assetta,
del suo lume fa 'l ciel sempre quïeto
nel qual si volge quel c'ha maggior fretta; |
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121 |
La provvidenza di Dio, che
stabilisce quest’ordine di cose, appaga sempre con la
sua luce l’Empireo, il cielo nel quale ruota il Primo
Mobile, che si muove più rapidamente di tutti gli altri
cieli; |
124 |
e ora lì,
come a sito decreto,
cen porta la virtù di quella corda
che ciò che scocca drizza in segno lieto. |
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124 |
e ora verso l’Empireo,
come al luogo stabilito per nostra meta, ci sospinge la
forza di quella corda (cioè dell’istinto), che ciò che
lancia indirizza a buon fine. |
127 |
Vero è che,
come forma non s'accorda
molte fïate a l'intenzion de l'arte,
perch' a risponder la materia è sorda, |
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127 |
Certo è che come la forma
(di un’opera d’arte) non corrisponde molto spesso
all’intenzione dell’artista, perché la materia non si
presta ad accoglierla |
130 |
così da
questo corso si diparte
talor la creatura, c'ha podere
di piegar, così pinta, in altra parte; |
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130 |
allo stesso modo talora si
allontana dalla direzione indicata la creatura, che ha
la possibilità di volgersi, pur essendo spinta verso il
bene, in un’altra parte (cioè verso il male); |
133 |
e sì come
veder si può cadere
foco di nube, sì l'impeto primo
l'atterra torto da falso piacere. |
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133 |
e come si può vedere il
fuoco del fulmine cadere dalla sua sfera verso la terra
(mentre esso tenderebbe, per sua natura, a salire verso
l’alto), allo stesso modo l’impulso naturale (che
dovrebbe portare al cielo) si volge in basso deviato
dall’ingannevole piacere dei beni terreni. |
136 |
Non dei più
ammirar, se bene stimo,
lo tuo salir, se non come d'un rivo
se d'alto monte scende giuso ad imo. |
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136 |
Non devi meravigliarti, se
giudico giustamente, per il fatto di ascendere verso
l’alto, più di quanto non ti meraviglieresti di un
ruscello che scenda dalla cima del monte verso il fondo
della valle. |
139 |
Maraviglia
sarebbe in te se, privo
d'impedimento, giù ti fossi assiso,
com' a terra quïete in foco vivo». |
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139 |
Meraviglia dovrebbe
nascere in te, se, privo ormai dell’impedimento (del
peccato), fossi rimasto fermo sulla terra, come (sarebbe
causa di stupore) una fiamma immobile al suolo in un
fuoco acceso (essendo propria della fiamma salire verso
l’alto)». |
142 |
Quinci
rivolse inver' lo cielo il viso. |
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142 |
Dopo di ciò Beatrice
rivolse lo sguardo verso il cielo. |
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