1 |
Dal centro
al cerchio, e sì dal cerchio al centro
movesi l'acqua in un ritondo vaso,
secondo ch'è percosso fuori o dentro: |
|
1 |
In un recipiente rotondo la superficie dell’acqua si
increspa (in cerchi concentrici che vanno) dall’orlo
verso il centro, e dal centro verso l’orlo, a seconda
che l’acqua sia percossa da un colpo dato sulla parete
esterna del recipiente o all’interno. |
4 |
ne la mia
mente fé sùbito caso
questo ch'io dico, sì come si tacque
la glorïosa vita di Tommaso, |
|
4 |
Questo fenomeno dell’acqua
di cui parlo, mi venne improvvisamente in mente, non
appena tacque l’anima santa di Tommaso, |
7 |
per la
similitudine che nacque
del suo parlare e di quel di Beatrice,
a cui sì cominciar, dopo lui, piacque: |
|
7 |
per la somiglianza che
nacque fra le sue parole ( che dalla parte esterna della
corona dei beati si muovevano verso il centro dove si
trovavano Dante e Beatrice ) e quelle di Beatrice ( che
dal centro si volgevano verso la circonferenza della
corona), |
10 |
«A costui fa
mestieri, e nol vi dice
né con la voce né pensando ancora,
d'un altro vero andare a la radice. |
|
10 |
alla quale piacque
cominciare, dopo di lui, in questo modo: “A costui
(Dante) è necessario andare a fondo di un’altra verità,
ma non osa dirvelo né con le parole né ancora col
pensiero. |
|
Beatrice previene amorosamente il nuovo dubbio di Dante,
che egli non solo non ha espresso a parole, ma non ha
ancora formulato chiaramente dentro di se: basterebbe,
infatti, che il suo pensiero si definisse perché i beati
potessero poi leggerlo nel suo animo. |
13 |
Diteli se la
luce onde s'infiora
vostra sustanza, rimarrà con voi
etternalmente sì com' ell' è ora; |
|
13 |
Ditegli se la luce di cui si adorna la vostra anima
rimarrà con voi eternamente cosi com’è ora: |
16 |
e se rimane,
dite come, poi
che sarete visibili rifatti,
esser porà ch'al veder non vi nòi». |
|
16 |
e se rimarrà inalterata,
spiegategli come, dopo che ( avendo ripreso il corpo )
sarete ridiventati visibili, potrà accadere che (questa
luce) non riesca molesta ai vostri occhi". |
19 |
Come, da più
letizia pinti e tratti,
a la fïata quei che vanno a rota
levan la voce e rallegrano li atti, |
|
19 |
Come talvolta
coloro che danzano in circolo, sospinti e trascinati da
una crescente allegria, alzano (cantando) la voce e si
muovono con più vivacità, |
22 |
così, a l'orazion
pronta e divota,
li santi cerchi mostrar nova gioia
nel torneare e ne la mira nota. |
|
22 |
cosi, alla pronta e riverente preghiera (di Beatrice),
le due corone di spiriti beati mostrarono la loro
accresciuta letizia col girare intorno più velocemente e
con la meravigliosa armonia del loro canto. |
25 |
Qual si
lamenta perché qui si moia
per viver colà sù, non vide quive
lo refrigerio de l'etterna ploia. |
|
25 |
Chi si lamenta che qui in terra l’uomo debba morire per
passare alla vita del cielo, non ha certo visto lassù il
ristoro che reca la pioggia della grazia. |
28 |
Quell' uno e
due e tre che sempre vive
e regna sempre in tre e 'n due e 'n uno,
non circunscritto, e tutto circunscrive, |
|
28 |
La Trinità che sempre vive
e sempre regna unita in ciascuna delle tre persone, non
limitata da nulla, e che tutto abbraccia e contiene, |
31 |
tre volte
era cantato da ciascuno
di quelli spirti con tal melodia,
ch'ad ogne merto saria giusto muno. |
|
31 |
tre volte era glorificata
dal canto di ciascuno di quegli spiriti con così soave
melodia, che (l’udirla) sarebbe giusta ricompensa anche
al merito più grande. |
34 |
E io udi' ne
la luce più dia
del minor cerchio una voce modesta,
forse qual fu da l'angelo a Maria, |
|
34 |
Ed io udii nella luce più
fulgida della prima corona (attorno ad esso si era
formato il secondo, più ampio) una voce soave, simile
forse a quella con cui l’arcangelo Gabriele si rivolse a
Maria (nell’Annunciazione), |
37 |
risponder:
«Quanto fia lunga la festa
di paradiso, tanto il nostro amore
si raggerà dintorno cotal vesta. |
|
37 |
rispondere: “Finché durerà
il gaudio della celeste beatitudine, il nostro amore
irradierà intorno questa veste (luminosa che ci fascia). |
40 |
La sua
chiarezza séguita l'ardore;
l'ardor la visïone, e quella è tanta,
quant' ha di grazia sovra suo valore. |
|
40 |
Lo splendore (di questa
veste) è proporzionato all’ardore di carità (di cui
siamo infiammati); il nostro ardore è proporzionato alla
visione (più o meno profonda, che abbiamo di Dio), e la
visione è proporzionata alla grazia divina aggiunta al
merito di ciascuno. |
43 |
Come la
carne glorïosa e santa
fia rivestita, la nostra persona
più grata fia per esser tutta quanta; |
|
43 |
Quando (nel giorno del
Giudizio Universale) rivestiremo il nostro corpo reso
glorioso e santo (dall’anima beata), il nostro essere
sarà più caro (a Dio ) perché sarà diventato più
completo; |
|
Ritorna ancora una volta il principio
aristotelico-tomista da Dante già enunciato nel canto VI
dell'Inferno ( versi 106-108): la perfezione dell'essere
umano è nell'unione di anima e di corpo, la quale si
ricostituirà per l'eternità nel giorno del Giudizio
Universale. |
46 |
per che
s'accrescerà ciò che ne dona
di gratüito lume il sommo bene,
lume ch'a lui veder ne condiziona; |
|
46 |
per questa perfezione si
accrescerà il dono della Grazia illuminante che Dio,
sommo Bene, ci offre, e che ci mette in condizione di
poterLo vedere; |
49 |
onde la
visïon crescer convene,
crescer l'ardor che di quella s'accende,
crescer lo raggio che da esso vene. |
|
49 |
per tale motivo deve
crescere la visione di Dio, deve crescere l’ardore di
carità che essa accende, deve crescere la luce che da
questo ardore deriva. |
52 |
Ma sì come
carbon che fiamma rende,
e per vivo candor quella soverchia,
sì che la sua parvenza si difende; |
|
52 |
Ma come il carbone che
produce la fiamma, e la supera (in splendore) per la sua
viva incandescenza, così che la sua forma non si lascia
nascondere (dalla luce della fiamma), |
55 |
così questo
folgór che già ne cerchia
fia vinto in apparenza da la carne
che tutto dì la terra ricoperchia; |
|
55 |
così questo fulgore che
fin d’ora ci circonda sarà vinto in efficacia visiva dal
fulgore del nostro corpo che per ora è ricoperto dalla
terra; |
|
Alla sottintesa obiezione che l'accresciuto splendore
dopo la risurrezione della carne potrebbe nascondere
l'aspetto umano dei beati, Dante risponde con una delle
più sfolgoranti similitudini della terza cantica: come
si può continuare a vedere il carbone che brucia in
mezzo alla fiamma, grazie alla sua incandescenza, cosi
l'aspetto corporeo dei beati resterà visibile, per il
suo fulgore, attraverso la fascia luminosa che lo
avvolgerà. |
58 |
né potrà
tanta luce affaticarne:
ché li organi del corpo saran forti
a tutto ciò che potrà dilettarne». |
|
58 |
tuttavia tanta luce non potrà
abbagliarci, perché i nostri sensi avranno potenza
sufficiente a percepire e sostenere tutto ciò che potrà
essere motivo di beatitudine". |
|
La prima parte del canto è concentrata, attraverso un
moltiplicarsi di luci e di movimenti, sulla visività e
sulla rappresentazione, sia nella descrizione dei beati
sia nella spiegazione dottrinale. Se noi, tuttavia, ci
fermassimo solo all'immagine della luce che infiora le
anime beate, dei giovani che da più letizia pinti e
tratti... vanno a rota, dei santi cerchi... nel
torneare, dell'etterna ploia che cade come rifrigerio
sugli eletti, della Trinità, e su tutte quelle
attraverso cui si snoda l'inno della risurrezione, per
ammirare la straordinaria felicità creativa del Poeta,
correremmo il pericolo di considerare questa parte del
canto (ma il discorso vale anche per la seconda parte )
come una grandiosa metafora, mentre non è possibile
operare un'arbitraria scissione fra significato e
significante, idea e immagine: "lo spazio e la luce
celesti vivono non per se, ma come analogia di una
realtà teologica, e quella luce non è luce o per lo meno
non è soltanto luce, e quel cielo non è un cielo
astronomico, ma è un cielo spirituale... Cielo e luce
dunque, non come tema paesistico, ma come tema
teologico..., che non sta come astratto filosofema
dietro il velame dei ridenti versi che cantano la luce e
i cieli" (Getto), poiché l'"astratto filosofema", nei
momenti creativi più felici, come nel canto XIV, diventa
esso stesso uno di quei ridenti versi". L'entusiasmo che
avvolge e solleva questi versi come in una fiamma di
passione nasce dalla certezza dell'immortalità, dalla
certezza di una vita nella quale l'angoscioso contrasto
fra la carne e lo spirito, che ha tanto travagliato la
vita terrena dell'uomo, sarà non solo superato, ma
addirittura conciliato in una suprema armonia. Il corpo
non graverà più come un peso mortale sull'anima e
questa, assetata d'infinito, non aspirerà più a
sciogliersi da quelle catene, ma impregnerà il corpo
della sua stessa immortalità, lo renderà capace di
percepire la realtà spirituale, La sete d'immortalità e
di felicità. che la creatura umana porta in sè fin dalla
nascita, sarà finalmente placata, mentre il "Dio-Uomo
sorriderà beatificante alla schiera degli eletti fatti
più simili a Lui, quando saranno rivestiti di quella
carne che a Lui piacque di collocare sopra tutti i
cieli" (Steiner). Ma poiché questa carne gloriosa e
santa porterà con se il vincolo degli affetti carnali e
non potrà dimenticare le mamme, i padri, gli altri che
fuor cari, Dio le concederà di aggiungere alla celeste
beatitudine la dolcezza degli affetti terreni.
L'immagine del vivo candor del carbone, una delle più
felici di tutto il poema, apre l'abbagliante visione
finale della carne glorificata, che ha vinto la morte,
il peccato, la sua stessa materia. "I corpi che essa [la
morte] costrinse dentro l'angustia del sepolcro ne
usciranno a spaziare nell'infinito; le lingue,
convertite in putredine. ripiglieranno le lodi del
Signore; gli occhi. dai quali balenò la luce dello
spirito immortale e che essa avrà potuto spegnere e
vuotare, si riaccenderanno e l'anima vi si affaccerà
ancora a contemplare beata l'infinita bellezza di Dio, e
allora la carne, che ora il più grave degli elementi
copre e nasconde, non potrà essere velata neppure dalla
spirituale luce del paradiso e apparirà' gaudioso trofeo
della totale vittoria di Cristo.(Steiner) |
61 |
Tanto mi
parver sùbiti e accorti
e l'uno e l'altro coro a dicer «Amme!»,
che ben mostrar disio d'i corpi morti: |
|
61 |
Gli spiriti delle due
corone mi apparvero tanto pronti e veloci a dire “Cosi
sia!”, che mostrarono chiaramente il desiderio di
ricongiungersi ai loro corpi; |
64 |
forse non
pur per lor, ma per le mamme,
per li padri e per li altri che fuor cari
anzi che fosser sempiterne fiamme. |
|
64 |
forse non tanto per se
stessi, ma per la madre, il padre e per tutti coloro che
ebbero cari (in terra): prima di diventare eterni
fulgori (in cielo). |
67 |
Ed ecco
intorno, di chiarezza pari,
nascere un lustro sopra quel che v'era,
per guisa d'orizzonte che rischiari. |
|
67 |
Ed ecco apparire intorno
(alle due corone) una luce, di splendore pari (a quella
dei due cerchi di beati), superiore alla luminosità del
sole, simile al chiarore che si diffonde all’orizzonte
quando il sole sorge. |
70 |
E sì come al
salir di prima sera
comincian per lo ciel nove parvenze,
sì che la vista pare e non par vera, |
|
70 |
E come sul far della sera
cominciano ad apparire nel cielo le prime stelle, così
(tenui) che l’aspetto di esse appare e non appare reale,
|
73 |
parvemi lì
novelle sussistenze
cominciare a vedere, e fare un giro
di fuor da l'altre due circunferenze. |
|
73 |
così mi sembrò di vedere
lì nuove anime, e mi sembrò che esse si disponessero in
cerchio intorno alle : altre due corone. |
|
Dalla vastità del cielo affiorano, di prima sera, le
prime stelle: anche se l'immagine e avanzata con una
precisa giustificazione teologica (il divino capacità
umane) essa apre una limpidissima vena di poesia. Ed è
poesia cosmica, poesia che canta lo spettacolo celeste
che più piace al Poeta, quello della notte rischiarata
dalle tremolanti luci delle stelle. Nella leggerezza e
nella musicalità dei versi 70-72 (si noti, tra l'altro,
l'allitterazione del verso 70 e la forma indeterminata,
quasi sospesa, del verso 72) sembra riflettersi il
misterioso nascere della sera dopo la luce abbagliante
del sole all'orizzonte (verso 69), il misterioso
apparire e sparire nel cielo di quei punti luminosi che
ogni volta il Poeta contempla con rinnovato stupore e
amore. Una parola sola, isolata in spazi immensi -
parvenze - e un ritmo limpido, chiuso nel giro di una
terzina, creano una visione nitida e, nello stesso
tempo, indefinita, perché l'occhio è riuscito a
contemplare quel cielo stellato, ma lo animo si è perso
in questa contemplazione. |
76 |
Oh vero
sfavillar del Santo Spiro!
come si fece sùbito e candente
a li occhi miei che, vinti, nol soffriro! |
|
76 |
Oh verace splendore dello
Spirito Santo! come esso divenne improvvisamente
incandescente alla mia vista che, sopraffatta, non poté
sopportarlo! |
79 |
Ma Bëatrice
sì bella e ridente
mi si mostrò, che tra quelle vedute
si vuol lasciar che non seguir la mente. |
|
79 |
Ma Beatrice mi apparve
così bella e splendente, che (la sua immagine) si deve
lasciare tra quelle visioni paradisiache che la memoria
non è stata capace di fissare dentro di se. |
82 |
Quindi
ripreser li occhi miei virtute
a rilevarsi; e vidimi translato
sol con mia donna in più alta salute. |
|
82 |
Da Beatrice i miei occhi
ripresero forza per risollevarsi, e mi vidi trasferito
solo con la mia donna in un più alto grado di
beatitudine. |
85 |
Ben m'accors'
io ch'io era più levato,
per l'affocato riso de la stella,
che mi parea più roggio che l'usato. |
|
85 |
Mi accorsi chiaramente che
ero salito in un cielo superiore, per lo sfavillio
incandescente della stella, che mi appariva più
rosseggiante del solito. |
|
Dante si accorge subito di essere giunto nel cielo di
Marte (dove incontrerà gli spiriti di coloro che hanno
combattuto per la fede) per la sua luce caratteristica,
rossa come il fuoco (cfr. Convivio 11, X111, 21;
Purgatorio 11, 14). |
88 |
Con tutto 'l
core e con quella favella
ch'è una in tutti, a Dio feci olocausto,
qual conveniesi a la grazia novella. |
|
88 |
Con tutto il mio cuore e
con il linguaggio dell’anima che è unico per tutti gli
uomini, feci a Dio l’offerta di tutto me stesso, come
era giusto fare in risposta alla nuova grazia ricevuta
(quella di essere stato assunto in un cielo più alto). |
91 |
E non er'
anco del mio petto essausto
l'ardor del sacrificio, ch'io conobbi
esso litare stato accetto e fausto; |
|
91 |
E non si era ancora
esaurito nel mio petto l’ardore di quella offerta, che
mi accorsi che quel mio sacrificio (litare: è termine
latino, che significa “ celebrare un sacrificio ” ) era
stato gradito (a Dio) ed efficace, |
94 |
ché con
tanto lucore e tanto robbi
m'apparvero splendor dentro a due raggi,
ch'io dissi: «O Elïòs che sì li addobbi!». |
|
94 |
perché disposte su due
liste luminose mi apparvero anime splendenti, così
luminose e così affocate, che dissi: “O Dio che rivesti
queste anime di tanta luce!” |
|
Nelle Magnae Derivationes di Uguccione da Pisa, che
Dante ben conosceva, il termine greco helios (sole) era
arbitrariamente accostato al termine ebraico Ali, El
(Dio), cosicché il Poeta lo adopera qui per indicare
Dio. |
97 |
Come
distinta da minori e maggi
lumi biancheggia tra ' poli del mondo
Galassia sì, che fa dubbiar ben saggi; |
|
97 |
Come la
Galassia si distende con la sua striscia luminosa
costellata da stelle di minore o maggiore grandezza
dall’uno all’altro polo del cielo, in modo che fa
restare incerti anche i più sapienti, |
100 |
sì
costellati facean nel profondo
Marte quei raggi il venerabil segno
che fan giunture di quadranti in tondo. |
|
100 |
così disposte
a modo di costellazione con stelle di diversa grandezza
dentro il cielo di Marte quelle due liste luminose
formavano il venerando segno (della croce), che è
costituito dati intersecarsi delle linee che congiungono
le quattro parti in cui è diviso il cerchio. |
|
Dante, nel verso 99, accenna alle diverse opinioni che
gli studiosi antichi e medievali avevano riguardo
all'origine e alla natura della Galassia o Via Lattea
(cfr. Convivio II, XIV, 5-8). Il venerabil segno che fan
giunture di quadranti in tondo: la croce costituita dai
due raggi del cielo di Marte è una croce greca, a bracci
uguali, come quella formata dai due diametri che si in
tersecano ad angolo retto nel centro del cerchio.
Un'altra immagine notturna, dopo il prorompere di luce
candente, di affocato riso... roggia, di tanto lucore,
di splendori tanto rebbi... dentro a due raggi, e dopo
l'invocazione a Dio-Elios. Il Poeta presenta una visione
del cielo familiare a tutti, la Via Lattea, ma i suoi
versi la trasformano nell'immagine di un ponte immenso
gettato tra un polo e l'altro del mondo, privo però di
geometrica rigidità, di inerte peso, perché reso vivo da
quei minori e maggi lumi che il Poeta vede muoversi e
palpitare in esso. Il "biancheggiare" misterioso di
fronte al quale rimangono incerti i sapienti, ha tutta
la bellezza e le velate lontananze di quel cielo
stellato di prima sera che il Poeta ha già descritto (
versi 70-72 ) . Anche lo stile ripete l'essenzialità dei
versi 70-72: chiuso tra due versi smorzati, diremmo
quasi discorsivi, il verso centrale è tutto in quel
verbo - biancheggia - il più semplice che Dante poteva
trovare, il primo, anzi, che viene in mente contemplando
la Via Lattea; Ma la vera poesia è proprio questa:
quella che non ha bisogno di ornamenti per trasfigurare
ciò che vede. |
103 |
Qui vince la
memoria mia lo 'ngegno;
ché quella croce lampeggiava Cristo,
sì ch'io non so trovare essempro degno; |
|
103 |
A questo punto la mia
memoria supera le possibilità del mio ingegno (incapace
di esprimere a parole una simile visione), perché in
quella croce sfolgorava la figura di Cristo, in modo che
io non so trovare un’immagine adeguata per
rappresentarla; |
106 |
ma chi
prende sua croce e segue Cristo,
ancor mi scuserà di quel ch'io lasso,
vedendo in quell' albor balenar Cristo. |
|
106 |
ma chi (nel mondo) prende
la sua croce e segue Cristo, quando un giorno Lo vedrà
sfolgorare in questa luce biancheggiante, mi scuserà
allora di quanto io tralascio. |
|
Le parole del Poeta nel verso 106 sono quasi la
traduzione di un passo evangelico (Matteo X, 38; XVI,
24). |
109 |
Di corno in
corno e tra la cima e 'l basso
si movien lumi, scintillando forte
nel congiugnersi insieme e nel trapasso: |
|
109 |
Da un braccio all’altro della lista
orizzontale e tra una estremità e l’altra della linea
verticale si muovevano gli spiriti luminosi,
risplendendo più intensamente nell’atto di incontrarsi e
di oltrepassarsi: |
|
La croce di Cristo e del martirio è risurrezione e
vittoria, non più simbolo di morte, ma segno di
immortalità e felicità eterne. Continua, dunque, in
queste terzine, il tono di intellettuale esaltazione del
discorso di Salomone, tono che acquista ora una
ricchezza di temi fantastici e sentimentali ancora
superiore a quello precedente. Non è più il presagio
della lontana risurrezione ad ispirare il Poeta, ma è la
figura stessa di Cristo, testimonianza e garanzia di
quella risurrezione. E la croce luminosa, preludio
trionfale di quel momento, grandeggia nel cielo di
Marte, il mediano tra i nove cieli, a metà strada fra la
ritrovata felicità del paradiso terrestre e la promessa
beatitudine della visione divina. "La visione della
croce, nel cielo di Marte" è la prima delle maggiori
invenzioni figurative, che il poeta introduce... a
variare lo scenario del suo viaggio celeste ( le corone
dei beati nel cielo precedente nascevano ancora in un
clima di fantasia più libera e aperta, meno stilizzata).
Nella genesi di siffatte invenzioni (la croce, l'aquila,
la scala) concorrono esperienze della pittura medievale
e elementi spettacolari del rituale e della liturgia" (Sapegno),
anche se il Poeta tende a dar corpo al sentimento più
che alla figura, al simbolo e al mistero che essa
rappresenta, più che alla immagine; sensibile. Per tale
motivo la figura di Cristo "balena", "lampeggia", ma non
prende forma, e l'apparizione della croce luminosa è
paragonata alla Via Lattea, a qualcosa, cioè, che l'uomo
non può definire (che fa dubbiar ben saggi); anche la
croce, pur circoscritta come fan giunture di quadranti
in tondo, è un'immagine di mobilissimi moti e parvenze
luminose, un congiungersi e un incrociarsi di carità. |
112 |
così si
veggion qui diritte e torte,
veloci e tarde, rinovando vista,
le minuzie d'i corpi, lunghe e corte, |
|
112 |
allo stesso modo sulla
terra si vedono i corpuscoli del pulviscolo atmosferico
in direzione diritta o obliqua, con moto rapido o lento,
mutando aspetto, in forma allungata o corta, |
115 |
moversi per
lo raggio onde si lista
talvolta l'ombra che, per sua difesa,
la gente con ingegno e arte acquista. |
|
115 |
muoversi nel raggio di
luce da cui è tagliata talvolta l’oscurità (di una
stanza), oscurità che l’uomo si procura per difendersi
dalla luce del sole con espedienti escogitati
dall’ingegno e realizzati praticamente. |
118 |
E come giga
e arpa, in tempra tesa
di molte corde, fa dolce tintinno
a tal da cui la nota non è intesa, |
|
118 |
E come la giga (strumento
musicale simile al violino) e l’arpa, con l’armonico
temperarsi di molte corde diverse, creano un suono dolce
anche all’orecchio di chi non intende l’insieme della
melodia, |
121 |
così da'
lumi che lì m'apparinno
s'accogliea per la croce una melode
che mi rapiva, sanza intender l'inno. |
|
121 |
così da quelle luci che lì
mi apparvero si diffondeva lungo la croce una melodia
che mi estasiava con la sua dolcezza, senza che io
riuscissi a capire le parole del canto. |
124 |
Ben m'accors'
io ch'elli era d'alte lode,
però ch'a me venìa «Resurgi» e «Vinci»
come a colui che non intende e ode. |
|
124 |
(Pur senza intendere il
suo significato) mi accorsi facilmente che esso era un
canto di solenne glorificazione, perché mi giungevano le
parole “ Resurgi ” e “ Vinci ”, come a colui che ode
qualche parola ma non intende tutto il senso di un
discorso. |
127 |
Ïo
m'innamorava tanto quinci,
che 'nfino a lì non fu alcuna cosa
che mi legasse con sì dolci vinci. |
|
127 |
Dalla dolcezza di questo
canto io traevo un così profondo amore (verso queste
cose), che fino a quel momento non vi fu niente che mi
avesse avvinto con così soavi legami. |
130 |
Forse la mia
parola par troppo osa,
posponendo il piacer de li occhi belli,
ne' quai mirando mio disio ha posa; |
|
130 |
Forse la mia parola può
sembrare troppo ardita, poiché pospongo (al piacere
provato in questo momento) la gioia che ricevo dai begli
occhi (di Beatrice), contemplando i quali si appaga ogni
mio desiderio: |
133 |
ma chi
s'avvede che i vivi suggelli
d'ogne bellezza più fanno più suso,
e ch'io non m'era lì rivolto a quelli, |
|
133 |
ma chi considera che gli
occhi di Beatrice, viva rappresentazione di ogni
bellezza, operano più efficacemente quanto più si sale
attraverso i cieli, e che io nella sfera di Marte non mi
ero ancora rivolto verso di essi, mi può scusare di
quello di cui io mi accuso (cioè di aver osato troppo
con le mie parole) |
136 |
escusar
puommi di quel ch'io m'accuso
per escusarmi, e vedermi dir vero:
ché 'l piacer santo non è qui dischiuso, |
|
136 |
per giustificarmi (di aver
posposto al piacere del canto il piacer delli occhi
belli), e può costatare che dico la verità, poiché la
divina bellezza (di Beatrice) non è stata qui
dimenticata dalle mie parole, |
139 |
perché si
fa, montando, più sincero. |
|
139 |
dal momento che anch’essa,
man mano che si ascende, diventa sempre più perfetta. |
|
Il Poeta intende giustificare l'affermazione fatta nei
versi 127-129 (l'inno cantato dalle anime della quinta
sfera ha esercitato sulla sua anima un'attrazione che
non aveva mai sperimentato prima): egli non ha certo
dimenticato gli occhi belli di Beatrice, il cui
splendore sarà, anzi, aumentato nel cielo di Marte,
poiché esso diventa più intenso man mano che si sale
verso l'alto. Tuttavia, nel nuovo cielo in cui sono
giunti, non si è ancora volto a guardare quegli occhi,
per cui ha avuto l'impressione che lo spettacolo e il
canto degli spiriti di Marte superasse in dolcezza ogni
altra immagine. Abbiamo accettato per i versi 133-139
l'interpretazione proposta dal Torraca, perché essa si
rivela più aderente alla situazione poetica del passo.
Il Barbi, invece, ritiene che i vivi suggelli siano le
anime beate, nelle quali lo splendore divino si
manifesta con forza crescente nei cieli più alti. Altri
interpreti moderni riferiscono l'espressione vivi
suggelli ai cieli, che imprimono la bellezza nelle
creature operando più efficacemente quanto più si sale
in essi. |