IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

DIVINA COMMEDIA

PARADISO

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 DIVINA COMMEDIA: PARAFRASI PARADISO CANTO XV°

1 Benigna volontade in che si liqua
sempre l'amor che drittamente spira,
come cupidità fa ne la iniqua,
  1 La volontà di fare il bene nella quale si risolve sempre l’amore che deriva direttamente da Dio, come la cupidigia si risolve nella volontà di fare il male,
4 silenzio puose a quella dolce lira,
e fece quïetar le sante corde
che la destra del cielo allenta e tira.
  4 fece cessare quel dolce coro e fece fermare il moto dei beati, i quali sono come le corde di una lira che la mano di Dio allenta o tende.
7 Come saranno a' giusti preghi sorde
quelle sustanze che, per darmi voglia
ch'io le pregassi, a tacer fur concorde?
  7 Come potranno essere sorde alle preghiere dei giusti quelle anime beate che, per invogliarmi a interrogarle, furono concordi a cessare il loro canto?
10 Bene è che sanza termine si doglia
chi, per amor di cosa che non duri
etternalmente, quello amor si spoglia.
  10 E’ giusto che soffra eternamente colui che, per amore delle cose terrene che sono caduche, si priva per sempre dell’amore di Dio.
  Un'improvvisa immobilità si sostituisce all'immagine del cielo di Marte che si volge intorno a Dante come un immensa, scintillante scudo crociato e a quella delle anime che hanno formato la croce luminosa nella quale "lampeggia" la figura di Cristo, mentre il canto del l'inno di vittoria e di risurrezione si interrompe improvvisamente: scompaiono, insomma, tutti quegli elementi che avevano animato la grandiosa, e pur liricamente vibrante, rappresentazione del canto precedente. Con questa pausa narrativa ( una di quelle a cui il Poeta affida spesso, nel Paradiso, il compito di preparare una particolare effusione poetica) viene approfondito il tema della caritatevole benevolenza dei beati, la quale anticipa l'intima disposizione affettuosa di Cacciaguida, di Beatrice, di Dante stesso durante il loro colloquio. pervaso da un senso di caritas che lo lega fortemente all'atmosfera paradisiaca. La presenza di questo, come di altri motivi paradisiaci ( la luce, l'intensificarsi del sorriso di Beatrice, il mistico eloquio di Cacciaguida ), concorrono a costituire " la base altissima ed intensa su cui si attua la poesia dell'ultima parte, a elaborare gli elementi di nobilitazione e santificazione della voce di Cacciaguida, il tono epico-religioso e storicamente testimoniale in cui la rappresentazione della Firenze antica può superare le condizioni di un semplice e isolato idillio nostalgico...". (Binni). In queste quattro terzine viene impostato ed energicamente evidenziato il tema fondamentale non solo di questo canto, ma di tutta la trilogia di Cacciaguida: contrasto fra cielo e terra, fra benigna volontade e cupidità, fra mondo fallace e pace celeste, contrasto che troverà la sua esemplificazione concreta, storica in quello fra la Firenze sobria e pudica di un tempo e la Firenze corrotta del presente. La storia della sua città diventa così per il Poeta l'esempio di una verità universale e centrale del Paradiso, conferendo un ulteriore rilievo " al mito della Firenze antica, la cui pace nasceva per Dante non solo e non tanto da una situazione sociale, economica, politica... quanto e più dall'adesione dei suoi cittadini all'amore dei beni sostanziali, alla cristiana e civile carità". (Binni)
13 Quale per li seren tranquilli e puri
discorre ad ora ad or sùbito foco,
movendo li occhi che stavan sicuri,
  13 Come attraverso gli spazi sereni del cielo tranquillo e limpido di tanto in tanto sfreccia improvvisa una stella cadente attirando lo sguardo di chi se ne stava ozioso,
16 e pare stella che tramuti loco,
se non che da la parte ond' e' s'accende
nulla sen perde, ed esso dura poco:
  16 e sembra una stella che muti posto in cielo, se non che dalla parte dove si è accesa non scompare nessun astro, e quella presto si spegne,
19 tale dal corno che 'n destro si stende
a piè di quella croce corse un astro
de la costellazion che lì resplende;
  19 così dal braccio della croce che si protendeva verso destra fino ai piedi di essa corse una delle luci della costellazione (di spiriti) che risplende nell’interno della croce:
22 né si partì la gemma dal suo nastro,
ma per la lista radïal trascorse,
che parve foco dietro ad alabastro.
  22 né quella gemma si distaccò dal nastro luminoso (della croce), ma corse via lungo la lista formata dai due raggi, sì che sembrò una fiamma che risplende dietro ad un alabastro (trasparente).
25 Sì pïa l'ombra d'Anchise si porse,
se fede merta nostra maggior musa,
quando in Eliso del figlio s'accorse.
  25 Con la stessa manifestazione d’affetto corse incontro (ad Enea, per abbracciarlo) l’ombra di Anchise, quando nell’oltretomba riconobbe il figlio, se merita fede il racconto di Virgilio, il nostro maggior poeta.
  Recuperato il senso dello spazio infinito con la visione di un sereno cielo notturno - che diffonde su tutto il canto una pace superiore, un'arcana immobilità, quasi ad aiutare l'evocazione di un mitico passato e la speranza di un lontano futuro - ritorna l'immagine della croce luminosa, delineata attraverso preziosi accostamenti ( la gemma, il nastro, il foco che traspare dietro la diafana luminosità dell'alabastro) che ripropongono le suggestioni lirico-visive delle metafore del canto precedente. Infatti anche qui l'immagine non è fine a se stessa, edonistico godimento dell'occhio che segue attento il bagliore della gemma o le variazioni di luce prodotte dal foco dietro ad alabastro. ma serve a determinare la situazione intima di Cacciaguida, che, pur partecipando della beatitudine delle altre anime (non si distacca, infatti, dalla croce, ma la percorre per la lista radiai), nella sua sollecitudine affettuosa e paterna ''corre" verso il suo discendente, si illumina per un accrescimento improvviso di caritas, "si porge", si protende verso Dante con un gesto intenso di pietà, da padre a figlio. Sorge così, con la naturalezza di un ricordo che affiora improvviso alla memoria, il richiamo all'incontro nei Campi Elisi di Enea con il padre Anchise (Virgilio, Eneide VI, 684-686), che gli profetizza i travagli attraverso i quali dovrà passare prima di porre le fondamenta di quella che diventerà Roma; anzi l'economia della Commedia l'incontro di Dante con Cacciaguida assume la stessa funzione - rivelazione di missione - che nel poema virgiliano rivestiva quell'episodio. E' il momento centrale del poema sacro, è il momento nel quale Dante riceve la sanzione del destino che Dio gli ha assegnato. Nel canto secondo dell'Inferno il Poeta aveva obiettato a Virgilio, che lo esortava al viaggio, di non essere né San Paolo né Enea, coloro che ebbero il privilegio di vedere il mondo ultraterreno, il primo per ricevere forza nella sua opera di diffusione della fede, il secondo per contemplare la Roma futura. Ora egli è veramente come San Paolo, come Enea: attraverso la visione del mondo sovrannaturale attinge la promessa e la certezza delle cose future, la promessa e la certezza di un rinnovamento del mondo, e Cacciaguida, il martire della fede, conferma solennemente la sua missione. Ma per rinnovare il mondo occorre un esempio da indicare agli uomini, un modello che si possa realizzare concretamente: è il passato della sua Firenze dentro dalla cerchia antica, quando si stava in pace, sobria e pudica. Il discorso di Cacciaguida nel canto XV "non è soltanto l'espressione di un rimpianto del tempo passato, una fuga nella memoria di cose antiche abbellite dall'animo, un moto di laudator temporis acti [lodatore del tempo passato], la voce di un conservatorismo incapace di comprendere la presente realtà" (Montano), perché, evocata dall'avo nell'animo del Poeta "come un'immagine mitica, è la città della purezza e della fede che muove la sua ansia e che egli vorrebbe restaurare". Osserva ancora il Montano, che ha dato una fine interpretazione di tutto l'episodio di Cacciaguida: "L'ansia profetica della restaurazione e della riforma non può non rifarsi a un passato da far ritornare, a una purezza originaria da riattingere". E questo è il puro mondo fiorentino, anteriore ai guadagni e alla corruzione portata dalla gente nova. In questo senso l'ideale ritorno a Firenze non è certo una interruzione del moto di ascesa verso Dio, un indugio autobiografico nel processo di elevazione spirituale, ma è un ritrovare, da parte del Poeta, le ragioni della sua speranza, del suo sogno di un futuro migliore, della sua stessa missione.
28 «O sanguis meus, o superinfusa
gratïa Deï, sicut tibi cui
bis unquam celi ianüa reclusa?».
  28

“O sangue mio, o grazia di Dio (in te) infusa in maniera singolare, a chi mai fu dischiusa due volte la porta del cielo come a te?”.

  L'esordio in latino, nel quale l'espressione sanguis meus ripete quella rivolta da Anchise a Cesare (Virgilio, Eneide VI, 835), concorre a quella nobilitazione epico-sacra che, a partire da questo momento, diventa la tonalità caratteristica del canto.
31 Così quel lume: ond' io m'attesi a lui;
poscia rivolsi a la mia donna il viso,
e quinci e quindi stupefatto fui;
  31 Cosi parlò quello spirito: perciò io mi rivolsi con attenzione verso di lui; poi guardai la mia donna, e restai stupito da una parte e dall’altra;
34 ché dentro a li occhi suoi ardeva un riso
tal, ch'io pensai co' miei toccar lo fondo
de la mia gloria e del mio paradiso.
  34 perché nei suoi occhi risplendeva un un sorriso tale, che io credetti di toccare con i miei il limite estremo della grazia concessami da Dio e della mia beatitudine.
37 Indi, a udire e a veder giocondo,
giunse lo spirto al suo principio cose,
ch'io non lo 'ntesi, sì parlò profondo;
  37 Poi quello spirito, che ispirava gioia a udirlo e vederlo, aggiunse alle sue prime parole cose che io non compresi, tanto era profondo il loro significato;
40 né per elezïon mi si nascose,
ma per necessità, ché 'l suo concetto
al segno d'i mortal si soprapuose.
  40 né si sottrasse alla mia comprensione di proposito, ma per necessità, perché il suo pensiero andò oltre il limite a cui arriva l’intelligenza di un mortale.
43 E quando l'arco de l'ardente affetto
fu sì sfogato, che 'l parlar discese
inver' lo segno del nostro intelletto,
  43 E allorché la tensione dell’ardente carità fu sfogata, tanto che il suo linguaggio si rese comprensibile alla nostra mente,
46 la prima cosa che per me s'intese,
«Benedetto sia tu», fu, «trino e uno,
che nel mio seme se' tanto cortese!».
  46 la prima cosa intesa da me fu: “Sii benedetto, o Dio trino e uno, che sei tanto munifico verso la mia discendenza del mio seme)!”
49 E seguì: «Grato e lontano digiuno,
tratto leggendo del magno volume
du' non si muta mai bianco né bruno,
  49 E continuò: “ Un caro e antico desiderio, sorto in me dall’aver letto (la tua futura venuta) nel grande libro della mente di Dio dove non si aggiunge e non si toglie mai nulla a ciò che è scritto,
52 solvuto hai, figlio, dentro a questo lume
in ch'io ti parlo, mercé di colei
ch'a l'alto volo ti vestì le piume.
  52 hai saziato, o figlio, in me che ti parlo avvolto in questa luce, grazie a Beatrice, colei che ti diede le ali per il grande volo.
55 Tu credi che a me tuo pensier mei
da quel ch'è primo, così come raia
da l'un, se si conosce, il cinque e 'l sei;
  55 Tu sei convinto che il tuo pensiero discenda in me direttamente da Dio, che è l’Ente primo, così come dall’unità, quando è conosciuta, derivano il cinque e il sei (e gli altri numeri );
58 e però ch'io mi sia e perch' io paia
più gaudïoso a te, non mi domandi,
che alcun altro in questa turba gaia.
  58 e perciò non mi domandi chi sono e perché mi mostro a te più festoso di qualunque altro spirito di questa moltitudine beata.
61 Tu credi 'l vero; ché i minori e ' grandi
di questa vita miran ne lo speglio
in che, prima che pensi, il pensier pandi;
  61 Quello che credi è vero, perché in questa vita tutti gli spiriti, siano essi dotati di un grado minore o maggiore di beatitudine, vedono in Dio come in uno specchio nel quale manifesti il tuo pensiero, prima ancora che tu lo abbia concepito;
64 ma perché 'l sacro amore in che io veglio
con perpetüa vista e che m'asseta
di dolce disïar, s'adempia meglio,
  64 ma affinché l’amore divino nella contemplazione del quale io veglio godendone perpetuamente la visione e che fa nascere in me la sete del dolce desiderio (di appagarti),
67 la voce tua sicura, balda e lieta
suoni la volontà, suoni 'l disio,
a che la mia risposta è già decreta!».
  67 s’adempia meglio, la tua voce esprima senza timore, franca e lieta la tua volontà, esprima il tuo desideri, per il quale è già pronta la mia risposta!”
70 Io mi volsi a Beatrice, e quella udio
pria ch'io parlassi, e arrisemi un cenno
che fece crescer l'ali al voler mio.
  70 Io mi rivolsi a Beatrice, ed ella comprese prima che parlassi, e sorridendo mi fece un cenno che accrebbe il mio desiderio.
73 Poi cominciai così: «L'affetto e 'l senno,
come la prima equalità v'apparse,
d'un peso per ciascun di voi si fenno,
  73 Poi incominciai così: “ Non appena aveste la visione di Dio, che è perfetta uguaglianza (perché tutti i suoi infiniti attributi sono mente uguali e commisurati fra di loro), in ciascuno di voi sentimento e intelligenza si corrisposero perfettamente ,
76 però che 'l sol che v'allumò e arse,
col caldo e con la luce è sì iguali,
che tutte simiglianze sono scarse.
  76 poiché Dio, il sole che vi illumina con la luce (della sua sapienza) e vi infiamma con il fuoco (del suo amore), è così uguale (nei suoi attributi), che ogni somiglianza risulta inadeguata ad esprimerLo.
79 Ma voglia e argomento ne' mortali,
per la cagion ch'a voi è manifesta,
diversamente son pennuti in ali;
  79 Invece nei mortali la volontà e lo strumento per esprimerla adeguatamente, per il motivo che voi conoscete ( la limitatezza e l’imperfezione umana), sono provveduti di ali di diversa potenza (cioè: la parola non sempre può realizzare ciò che la volontà desidera);
82 ond' io, che son mortal, mi sento in questa
disagguaglianza, e però non ringrazio
se non col core a la paterna festa.
  82 per cui io, che sono ancora mortale, sento di essere in questa disuguaglianza (tra volontà e parola), e perciò non ringrazio che col cuore per l’accoglienza festosa e paterna.
85 Ben supplico io a te, vivo topazio
che questa gioia prezïosa ingemmi,
perché mi facci del tuo nome sazio».
  85 Io ti supplico però, o spirito splendente come vivo topazio che adorni questo prezioso gioiello della croce, di appagare il mio desiderio di conoscere il tuo nome”.
88 «O fronda mia in che io compiacemmi
pur aspettando, io fui la tua radice»:
cotal principio, rispondendo, femmi.
  88 Allorché mi rispose, questo fu l’inizio del suo discorso: “O figlio mio, nel quale mi compiacqui anche solo aspettandoti, io fui tuo capostipite”.
91 Poscia mi disse: «Quel da cui si dice
tua cognazione e che cent' anni e piùe
girato ha 'l monte in la prima cornice,
  91 Poi mi disse: “Alighiero, colui dal quale prende nome il tuo casato e che gira da più di cento anni nella prima cornice del monte del purgatorio,
94 mio figlio fu e tuo bisavol fue:
ben si convien che la lunga fatica
tu li raccorci con l'opere tue.
  94 fu mio figlio e fu tuo bisavolo: è proprio opportuno che tu gli abbrevi la lunga pena con i tuoi suffragi.
  Cacciaguida ricorda il figlio Alighiero (o Allaghiero), dal quale derivò il nome di tutto il casato. Il nome di Alghiero compare in un documento del 1189 e in uno del 1201, ma Dante dovette crederlo morto prima del 1200, perché nel 1300 - data dell'immaginario viaggio oltremondano - afferma che da cent'anni e più e si trova nel primo girone del purgatorio, tra i superbi. Da Alighiero nacque Bellincione e, da questo, Alighiero, padre di Dante.
97 Fiorenza dentro da la cerchia antica,
ond' ella toglie ancora e terza e nona,
si stava in pace, sobria e pudica.
  97

Firenze chiusa dentro la cerchia delle antiche mura, donde la città sente ancora il suono delle ore di terza e di nona, se ne stava in pace, sobria e onesta.

  La cerchia antica delle mura fu costruita al tempo di Carlomagno sovra 'l cener che d'Attila rimase (Inferno XIII, 149). Presso queste mura sorgeva l'antica chiesa della Badia dei Benedettini che suonava le ore del giorno. Dopo la morte di Cacciaguida furono costruite altre due cerchia, nel 1173 e nel 1284 (quest'ultima terminata solo nel secolo XIV).
100 Non avea catenella, non corona,
non gonne contigiate, non cintura
che fosse a veder più che la persona.
  100

Le donne non usavano braccialetti, nè corone preziose, né gonne ricamate, né cinture tanto ricche da essere più vistose della persona che le portava).

  Alla visione complessiva delle passate virtù segue ora una descrizione dettagliata che, scandita dall'epica energia di una serie di negazioni in crescendo, presenta un quadro particolareggiato del contrasto fra la Firenze antica e la Firenze attuale. Anche il Villani fu colpito dalla suggestione di questi versi danteschi, che riecheggia in un passo della sua Cronaca (VI, 70) allorché descrive la Firenze del passato e i suoi cittadini.
103 Non faceva, nascendo, ancor paura
la figlia al padre, ché 'l tempo e la dote
non fuggien quinci e quindi la misura.
  103

La figlia, nascendo, non faceva ancora paura al padre, perché l’età e la dote non uscivano da una parte e dall’altra dalla giusta misura.

  Per le giovani il tempo delle nozze e l'entità della dote erano fissate secondo una giusta misura: non troppo presto il primo e non troppo ricca la seconda. Nella Firenze attuale, invece, i padri maritano le figlie quando sono ancora "nella culla" (Ottimo) e la dote è tale che la figila esce di casa "con tutto quello che ha il padre".
106 Non avea case di famiglia vòte;
non v'era giunto ancor Sardanapalo
a mostrar ciò che 'n camera si puote.
  106

Non vi erano case vuote di prole; non era ancora giunto Sardanapalo a insegnare quali vizi e lussi si possono avere nel segreto della camera.

  Le case appaiono ora fastosamente sproporzionate al bisogno (le più grandi famiglie nobili occupavano con le loro " consorterie " interi quartieri della città) e quasi disabitate. Questa interpretazione deve essere unita ad un'altra che la completa: le case sono ora vote di prole a causa della degenerazione morale della famiglia. La depravazione e la mollezza dei costumi è penetrata nell'intimo della vita familiare e merita di venire rappresentata attraverso la figura di Sardanapalo, il re assiro vissuto nel VII secolo a. C., famoso per lussuria ed effeminatezza.
109 Non era vinto ancora Montemalo
dal vostro Uccellatoio, che, com' è vinto
nel montar sù, così sarà nel calo.
  109

Monte Mario non era ancora vinto dal vostro Uccellatoio, il quale Monte Mario, come fu superato in magnificenza, così sarà superato nella decadenza.

  Il fasto di Firenze, che si può ammirare dal monte Uccellatoio, non aveva ancora vinto il fasto della città di Roma, osservata dall'alto di Monte Mario. Ma come è stata rapida l'ascesa, altrettanto lo sarà l'inevitabile decadenza, che colpirà presto Firenze a causa della sua corruzione.
112 Bellincion Berti vid' io andar cinto
di cuoio e d'osso, e venir da lo specchio
la donna sua sanza 'l viso dipinto;
  112

Io vidi Bellincione Berti portare una cintura di cuoio con fibbie d’osso, e vidi sua moglie tornare dallo specchio senza il viso dipinto;

  Chiusa la prima parte del discorso di Cacciaguida con l'immagine di una parabola di grandezza e di decadimento, che lascia dietro di se una desolata immagine di rovine (versi 109-111 ), la visione della Firenze antica si fa più diretta, più nitida: appaiono i suoi cittadini più illustri, rappresentativi dell'alterezza cavalleresca e delle virtù romane. Sono uomini austeri, donne pudiche, e su di loro si ferma. assorto, l'occhio di Cacciaguida (vid'io... vidi), che quel mondo ben conobbe e rappresento. Dante non prospetta una vita ascetica o un rifiuto dei mondo (anzi e da quella Firenze che Cacciaguida è partito per la sua impresa più grande, la difesa della fede), bensì una società retta dalle virtù più sante: la casa, la famiglia, il lavoro, il culto del passato, le virtù, cioè, che per Dante coincidevano con gli ideali della Cavalleria: ed el mi cinse della sua milizia... per bene ovrar, dirà Cacciaguida alla fine del canto (versi 140-141). Bellincione Berti, padre della buona Gualdrada (Inferno XVI. 37) e nobile cavaliere fiorentino, fu capostipite della famiglia dei Ravignani.
115 e vidi quel d'i Nerli e quel del Vecchio
esser contenti a la pelle scoperta,
e le sue donne al fuso e al pennecchio.
  115

e quelli della famiglia dei Vecchietti accontentarsi di indossare una semplice pelle non ricoperta di panno, e le loro donne intende agli umili lavori del fuso e della rocca.

  Le famiglie guelfe dei Nerli e dei Vecchietti furono fra le più ragguardevoli di Firenze, secondo la notizia del Villani (Cronaca IV, 12-13).
118 Oh fortunate! ciascuna era certa
de la sua sepultura, e ancor nulla
era per Francia nel letto diserta.
  118

Oh donne fortunate! ciascuna sapeva con certezza il luogo dove sarebbe stata sepolta, e ancora nessuna era lasciata sola nel letto nuziale dal marito andato in Francia (per mercanteggiare).

  Le lotte di partito non costringevano intere famiglie all'esilio e alla sepoltura fuori della patria, né la brama smodata di guadagno spingeva gli uomini a portare i loro commerci fuori di Firenze e fuori d'Italia.
121 L'una vegghiava a studio de la culla,
e, consolando, usava l'idïoma
che prima i padri e le madri trastulla;
  121 Una vegliava amorosamente il bimbo in culla e, per consolarlo (quando piangeva), si serviva di quel linguaggio infantile che per primi i genitori stessi si divertono ad usare;
124 l'altra, traendo a la rocca la chioma,
favoleggiava con la sua famiglia
d'i Troiani, di Fiesole e di Roma.
  124 un’altra, filando, raccontava, stando seduta in mezzo alla sua servitù, le antiche storie dei Troiani, di Fiesole e di Roma.
  Accanto alla dolcezza degli affetti familiari il Poeta ricorda il retaggio delle antiche glorie e degli antichi racconti, coltivato nell'intimità delle case. Nella gioia e nella pace della famiglia venivano rievocati l'arrivo dei Troiani in Italia, l'origine di Fiesole, la fondazione di Firenze da parte dei Romani dopo la distruzione di Fiesole: i tre cicli che costituivano il fulcro dei racconti tradizionali molto diffusi in Toscana (cfr. Villani, Cronaca 1, 6 sgg.). In queste tre terzine la rappresentazione dell'antica Firenze culmina in una poesia intima e delicata, celebrante gli aspetti della vita familiare, quelli, cioè, su cui si fonda la vita di ogni uomo. E Dante, l'exul immeritus, li avverte con la tenerezza disperante della nostalgia, che si fa sempre più acuta man mano che la speranza di un ritorno si allontana nel tempo. E' questa una pagina autobiografica che per il fatto di essere rivissuta nell'atmosfera paradisiaca, dove tutto acquista un valore superiore e una dimensione eterna, si trasferisce su un piano universale, per cui la Firenze antica diventa il modello di ogni città perfetta, i dolori dell'esule rappresentano i dolori di chi ama la giustizia e ricerca la verità, e la memoria degli affetti goduti nella pace della propria casa e dellà propria città si trasforma nella celebrazione del culto della famiglia.
127 Saria tenuta allor tal maraviglia
una Cianghella, un Lapo Salterello,
qual or saria Cincinnato e Corniglia.
  127

In quel tempo una donna dissoluta come Cianghella della Tosa, un barattiere come Lapo Saltarello sarebbero stati considerati una cosa straordinaria come, ora, un uomo probo come Cincinnato o una donna virtuosa come Cornelia.

  Cianghelia, figlia di Arrigo della Tosa, fu celebre al tempo di Dante per lusso, arroganza e dissolutezza. Capo Saltarello, giurista e rimatore, partecipò attivamente alla vita politica di Firenze, conquistandosi fama di uomo fazioso e corrotto. Venne bandito dalla città nel 1302 sotto l'accusa di brogli e di baratteria.
130 A così riposato, a così bello
viver di cittadini, a così fida
cittadinanza, a così dolce ostello,
  130 A una vita cittadina così tranquilla e bella, tra una cittadinanza cosi affiatata, in una così dolce dimora, mi fece nascere la Vergine Maria,
133 Maria mi diè, chiamata in alte grida;
e ne l'antico vostro Batisteo
insieme fui cristiano e Cacciaguida.
  133 che era stata invocata con alte grida da mia madre durante il parto (cfr. Purgatorio XX, 19-21); e nel vostro antico Battistero divenni cristiano e insieme ricevetti il nome di Cacciaguida.
  Di Cacciaguida, trisavolo di Dante, nato intorno al 1091 e morto verso il 1147, non abbiamo altre notizie (ad eccezione di un documento del 1189 dal quale risulta che era già morto) se non quelle che il Poeta ci presenta in questi ultimi versi del canto.
136 Moronto fu mio frate ed Eliseo;
mia donna venne a me di val di Pado,
e quindi il sopranome tuo si feo.
  136

Miei fratelli furono Moronto ed Eliseo: la mia sposa fu originaria della valle del Po; e da lei ebbe origine il tuo cognome.

  Non abbiamo notizie neppure dei due fratelli di Cacciaguida. Poiché un'antica tradizione ricorda che la famiglia fu legata da vincoli di parentela con quella degli Elisei, che vantava un'origine romana, il Ricci diede questa spiegazione: Moronto fu anche Eliseo, cioè mantenne il cognome degli Elisei, mentre Cacciaguida, che sposò un'appartenente alla famiglia Ferrarese (di dal di Pado) degli Aldighieri, diede origine al ramo degli Alighieri.
139 Poi seguitai lo 'mperador Currado;
ed el mi cinse de la sua milizia,
tanto per bene ovrar li venni in grado.
  139

Poi seguii l’imperatore Corrado; ed egli mi fece suo cavaliere, tanto ero entrato nelle sue grazie per il mio valore.

  Corrado III di Svevia (a. 1093-1152) partecipò con Luigi VII di Franciá alla seconda crociata, iniziatasi nel 1147. Nel passato molti interpreti ritennero che qui Dante confondesse Corrado III con Corrado II, imperatore dal 1024 al 1039, poiché il primo non sarebbe mai venuto in Italia, mentre il secondo scese per combattere contro i Saraceni in Calabria, e a Firenze creò cavalieri molti cittadini ( Villani - Cronaca IV, 9 ) . Invece studi più recenti hanno stabilito che anche Corrado III venne in Italia e si fermò in Toscana: in questa occasione poté conoscere Cacciaguida, il quale, diventato cavaliere, lo segui alcuni anni dopo nella crociata in Terrasanta.
142 Dietro li andai incontro a la nequizia
di quella legge il cui popolo usurpa,
per colpa d'i pastor, vostra giustizia.
  142 Lo seguii andando a combattere contro l’iniquità di quella religione il cui popolo, per colpa dei papi (che si disinteressano di questo problema), usurpa i diritti della cristianità (sulla Terrasanta).
145 Quivi fu' io da quella gente turpa
disviluppato dal mondo fallace,
lo cui amor molt' anime deturpa;
  145 Qui ad opera di quella gente turpe fui sciolto dai legami del mondo fallace, l’amore del quale abbrutisce molte anime;
148 e venni dal martiro a questa pace».   148 e dal martirio (della morte per la fede) venni alla pace del paradiso”.

 

© 2009 - Luigi De Bellis