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DIVINA
COMMEDIA: PARAFRASI
PARADISO
CANTO XXI° |
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1 |
Già eran li
occhi miei rifissi al volto
de la mia donna, e l'animo con essi,
e da ogne altro intento s'era tolto. |
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1 |
Già i miei occhi erano nuovamente fissi nel volto della
mia donna, e con gli occhi anche l’animo, che si era
distolto da ogni altro oggetto. |
4 |
E quella non
ridea; ma «S'io ridessi»,
mi cominciò, «tu ti faresti quale
fu Semelè quando di cener fessi: |
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4 |
E Beatrice non sorrideva:
ma cominciò a parlare dicendomi: “Se ti mostrassi il mio
riso, tu diventeresti come Semele, quando fu incenerita
(per aver contemplato Giove nel fulgore della sua luce
divina); |
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Semele, figlia di Cadmo, per ingannevole consiglio di
Giunone, gelosa di lei, chiese di poter vedere Giove in
tutto il suo fulgore e ne rimase incenerita (cfr.
Inferno XXX, 1-3; Ovidio- Metamorfosi III, 307-309:
Stazio, Tebaide III, 184-185). |
7 |
ché la
bellezza mia, che per le scale
de l'etterno palazzo più s'accende,
com' hai veduto, quanto più si sale, |
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7 |
perché la mia bellezza
che, come hai potuto vedere, sempre più risplende,
quanto più si sale per i cieli del paradiso, |
10 |
se non si
temperasse, tanto splende,
che 'l tuo mortal podere, al suo fulgore,
sarebbe fronda che trono scoscende. |
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10 |
se non si moderasse,
risplenderebbe tanto, che la tua facoltà visiva di uomo,
di fronte al suo fulgore, sarebbe come una fronda che la
folgore schianta. |
13 |
Noi sem
levati al settimo splendore,
che sotto 'l petto del Leone ardente
raggia mo misto giù del suo valore. |
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13 |
Noi siamo innalzati al settimo cielo di Saturno, il
quale trovandosi, congiunto con la costellazione del
Leone, irraggia ora sulla terra la sua influenza
mescolata a quella del Leone. |
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Dante e Beatrice ascendono al settimo cielo, nel quale
appaiono, disposti su una scala d'oro che si innalza
verso l'Empireo, gli spiriti contemplativi (cfr. nota
alla terzina 31 ) . In questa sfera appare l'ultimo
pianeta, Saturno, freddo, secco e lento nel suo moto di
rotazione (cfr. Convivio II, XIII, 25 e 28). Secondo
l'affermazione di Macrobio, concordemente accettata da
tutto il Medioevo, gli influssi di Saturno dispongono
alla vita contemplativa, ma allorché il pianeta è in
congiunzione con la costellazione del Leone, "di natura
calda e secca simile a quella del foco" (Lana), le virtù
contemplative di Saturno si uniscono a quelle attive del
Leone. La mirabile temperanza di queste due opposte
influenze è alla base della vita e dell'azione di San
Pier Damiano, che apparirà nella parte centrale del
canto. |
16 |
Ficca di
retro a li occhi tuoi la mente,
e fa di quelli specchi a la figura
che 'n questo specchio ti sarà parvente». |
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16 |
Fissa la tua attenzione in
quel che vedranno i tuoi occhi, e fa che questi
diventino specchi in cui si rifletta l’immagine che ti
apparirà in questo cielo”. |
19 |
Qual savesse
qual era la pastura
del viso mio ne l'aspetto beato
quand' io mi trasmutai ad altra cura, |
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19 |
Chi sapesse
qual era l’appagamento del mio sguardo nel contemplare
l’aspettò beato di Beatrice, quando io volsi gli occhi
ad altro, |
22 |
conoscerebbe
quanto m'era a grato
ubidire a la mia celeste scorta,
contrapesando l'un con l'altro lato. |
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22 |
potrebbe capire, paragonando l’una cosa con l’altra
(cioè il piacere di guardarla con quello di obbedirle),
quanto mi era gradito obbedire alla mia guida celeste. |
25 |
Dentro al
cristallo che 'l vocabol porta,
cerchiando il mondo, del suo caro duce
sotto cui giacque ogne malizia morta, |
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25 |
Dentro al pianeta trasparente che girando intorno al
mondo, porta il nome di Saturno, re caro al mondo perché
sotto il suo governo ogni malizia umana rimase come
spenta, |
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Il settimo pianeta porta il nome di Saturno, il mitico
re sotto il cui governo scomparve dal mondo ogni dolore
e ogni malvagità e gli uomini godettero di un lungo
periodo di pace e di felicità: è la famosa età dell'oro
di cui parlarono tutti i poeti antichi e che Dante ha
già descritta in due luoghi del suo poema (Inferno XIV,
96; Purgatorio XXVIII, 139-141). |
28 |
di color
d'oro in che raggio traluce
vid' io uno scaleo eretto in suso
tanto, che nol seguiva la mia luce. |
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28 |
vidi una scala del colore
dell’oro su cui risplendeva un raggio di sole, la quale
si alzava tanto verso l’alto, che i miei occhi non ne
vedevano la cima. |
31 |
Vidi anche
per li gradi scender giuso
tanti splendor, ch'io pensai ch'ogne lume
che par nel ciel, quindi fosse diffuso. |
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31 |
E vidi pure scendere giù
per i gradini tanti spiriti luminosi, che io pensai che
ogni luce che appare nel cielo si diffondesse da questa
fonte. |
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Fonte di questa nuova invenzione figurativa, dopo quelle
della croce luminosa del cielo di Marte e dell'aquila
del cielo di Giove, è, come Dante stesso rivela
(Paradiso XXII, 70-72), la visione di Giacobbe descritta
nella Genesi (XXVIII, 12 sgg.). Il patriarca ebraico
vide in sogno una scala " che, appoggiata sopra la
terra, con la cima arrivava al cielo, e per essa, ecco,
gli angeli di Dio che salivano e scendevano". Tutti i
commentatori antichi rilevano il carattere simbolico
della scala e il Landino così riassume le loro
interpretazioni: "Come per la scala si sale da basso in
alto di grado in grado, così per la virtù contemplativa
si monta di cielo in cielo infino a Dio. Questa scala è
d'oro, imperò che come l'oro è più eccellente che alcun
altro metallo, così la vita contemplativa avanza ogni
altra vita e risplende in quella il raggio della grazia
dell'eterno Sole"-. L'immagine della scala come simbolo
della vita contemplativa è molto frequente nella
letteratura cristiana antica, greca e latina, oltre che
nei testi mistici della letteratura medievale (cfr. come
esempio, questo passo di San Pier Damiano: "Tu sei
quella scala di Giacobbe per cui gli uomini salgono al
cielo e gli angeli discendono in soccorso degli uomini.
Tu la via aurea, per cui gli uomini ritornano alla loro
patria"; Liber qui dicitur Dominus vobiscum, Opuscolo
XI) . Per le anime del cielo di Saturno la vita fu una
fuga saeculi, una fuga dal mondo, per realizzare nel
silenzio (quel silenzio che domina su tutto il cielo di
Saturno, dove i beati non cantano) e nella solitudine di
un chiostro, il loro ideale di vita ascetica: un
progressivo immergersi nel pensiero di Dio, anticipando
in tal modo, la vera contemplazione, quella del
paradiso. Perciò questi beati occupano il più alto dei
cieli planetari e si trovano al di sopra di tutte le
anime che praticarono la vita attiva. "Tale contrasto di
tendenze tra questo cielo e i precedenti ha una sua
suggestiva rappresentazione poetica nelle due opposte
direzioni in cui qui è portato a spaziare l'occhio di
Dante: da una parte, in alto, lungo la scala d'oro
descrittaci in questo canto, a simbolo della
contemplazione che di grado in grado conduce a Dio; e
dall'altra, in basso, attraverso la serie dei pianeti
già percorsi e ripresentatici, nel canto seguente, in
ordine invertito, con meta ultima la terra." (Rossi,
Frascino)
Dante ha già rilevato nel Convivio (IV, XXII, 10-11 e
13-14) la preminenza della vita contemplativa su quella
attiva. Tuttavia sarebbe errato limitarsi a definire la
vita contemplativa in Dante una fuga saeculi, perché il
distacco da ogni ricchezza e da ogni dignità terrena non
coincide, per lui, con un rifiuto del mondo, bensì con
la necessità di tradurre la sovrabbondanza di vita
spirituale del contemplativo in parole e azioni che
possano illuminare il mondo. Per questo motivo in San
Pier Damiano, che preferì ai vantaggi materiali l'aspra
vita di un cenobio, Dante "trova uno dei santi più cari
al suo cuore". (Montanari) |
34 |
E come, per
lo natural costume,
le pole insieme, al cominciar del giorno,
si movono a scaldar le fredde piume; |
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34 |
E come, secondo il loro
istinto, le cornacchie, all’alba, volano a schiera per
scaldarsi le ali intirizzite, |
37 |
poi altre
vanno via sanza ritorno,
altre rivolgon sé onde son mosse,
e altre roteando fan soggiorno; |
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37 |
poi alcune vanno via senza
più tornare, altre ritornano al nido da dove erano
partite, e altre girando intorno, restano là dove si
trovano, |
40 |
tal modo
parve me che quivi fosse
in quello sfavillar che 'nsieme venne,
sì come in certo grado si percosse. |
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40 |
in tal modo mi parve si
comportassero qui quelle luci sfavillanti che scesero
insieme dalla scala, non appena si imbatterono in un
certo gradino. |
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Il Poeta, tutto preso nei versi 34-39 dalla vivacità
della scena rappresentata e nei versi 40-42 dalla
mirabile visione delle anime che si muovono lungo la
scala, non sembra pensare al complesso significato
allegorico che alcuni critici hanno voluto vedere in
questa similitudine: il diverso comportamento delle
anime sarebbe in rapporto con la vita terrena dei
monaci, alcuni dei quali rimarrebbero legati al mondo
contemplativo, mentre altri tenderebbero a staccarsene
per esplicare la loro attività fra gli uomini. |
43 |
E quel che
presso più ci si ritenne,
si fé sì chiaro, ch'io dicea pensando:
'Io veggio ben l'amor che tu m'accenne. |
|
43 |
E lo spirito che si fermò
più vicino a noi, divenne così splendente, che io dicevo
dentro di me: “ Intendo bene l’amore che tu mi manifesti
(sfavillando)”. |
46 |
Ma quella
ond' io aspetto il come e 'l quando
del dire e del tacer, si sta; ond' io,
contra 'l disio, fo ben ch'io non dimando'. |
|
46 |
Ma Beatrice dalla quale
aspetto l’indicazione di come e quando devo parlare o
tacere, non fa cenno: perciò io, contro il mio
desiderio, credo di agire bene non facendo domande. |
49 |
Per ch'ella,
che vedëa il tacer mio
nel veder di colui che tutto vede,
mi disse: «Solvi il tuo caldo disio». |
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49 |
Per cui essa, che vedeva
il motivo del mio silenzio attraverso la contemplazione
di Dio che tutto vede, mi disse: “Sciogli il tuo ardente
desiderio di parlare”. |
52 |
E io
incominciai: «La mia mercede
non mi fa degno de la tua risposta;
ma per colei che 'l chieder mi concede, |
|
52 |
E io cominciai: “Il mio
merito non mi fa degno della tua risposta; ma per amore
di colei che mi concede di interrogarti, |
55 |
vita beata
che ti stai nascosta
dentro a la tua letizia, fammi nota
la cagion che sì presso mi t'ha posta; |
|
55 |
o anima beata che te ne
stai nascosta dentro alla luce, segno della tua letizia,
dimmi il motivo che ti ha indotta a fermarti così vicino
a me; |
58 |
e dì perché
si tace in questa rota
la dolce sinfonia di paradiso,
che giù per l'altre suona sì divota». |
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58 |
e dimmi perché in questo
cielo di Saturno non si ode il dolce canto paradisiaco,
che nei cieli più bassi risuona tanto devoto”. |
61 |
«Tu hai
l'udir mortal sì come il viso»,
rispuose a me; «onde qui non si canta
per quel che Bëatrice non ha riso. |
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61 |
Mi rispose: “La tua
facoltà auditiva, come quella visiva, è d’uomo mortale;
perciò qui non si canta per la stessa ragione per cui
Beatrice non ha riso. |
64 |
Giù per li
gradi de la scala santa
discesi tanto sol per farti festa
col dire e con la luce che mi ammanta; |
|
64 |
Sono disceso tanto giù per
i gradini di questa scala santa, solo per far festa a te
con le parole e con la luce che mi riveste; |
67 |
né più amor
mi fece esser più presta,
ché più e tanto amor quinci sù ferve,
sì come il fiammeggiar ti manifesta. |
|
67 |
né un amore più grande che
negli altri spiriti mi fece più rapida a scendere;
perché un amore maggiore o uguale al mio arde in ogni
anima che è di qui in su, per questa scala, così come te
lo manifesta il loro risplendere. |
70 |
Ma l'alta
carità, che ci fa serve
pronte al consiglio che 'l mondo governa,
sorteggia qui sì come tu osserve». |
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70 |
Ma l’amore divino, che ci
fa ancelle pronte ad ubbidire alla volontà divina
governante il mondo, assegna in sorte qui a ciascuna di
noi l’ufficio che essa compie, come tu vedi”. |
73 |
«Io veggio
ben», diss' io, «sacra lucerna,
come libero amore in questa corte
basta a seguir la provedenza etterna; |
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73 |
Io replicai: “O anima
santa che risplendi, io comprendo bene come in questa
corte celeste il vostro libero amore basta a farvi
eseguire i decreti della divina provvidenza; |
76 |
ma questo è
quel ch'a cerner mi par forte,
perché predestinata fosti sola
a questo officio tra le tue consorte». |
|
76 |
ma ciò che mi sembra
difficile a capire è questo: perché tu sola, fra le tue
compagne, fosti predestinata a questo ufficio (di
venirmi a parlare)”. |
79 |
Né venni
prima a l'ultima parola,
che del suo mezzo fece il lume centro,
girando sé come veloce mola; |
|
79 |
Non avevo ancora
pronunciato l’ultima parola, che lo spirito luminoso
fece centro del suo punto mediano, girando su se stesso
come una veloce macina: |
82 |
poi rispuose
l'amor che v'era dentro:
«Luce divina sopra me s'appunta,
penetrando per questa in ch'io m'inventro, |
|
82 |
poi lo spirito ardente
d’amore chiuso dentro la luce, rispose: “La luce divina
converge sopra di me, penetrando attraverso questa luce,
nel cui seno sono racchiusa, |
85 |
la cui
virtù, col mio veder congiunta,
mi leva sopra me tanto, ch'i' veggio
la somma essenza de la quale è munta. |
|
85 |
e la sua potenza, unita
alla mia intelligenza, m’innalza tanto al di sopra di
me, che io riesco a vedere la suprema essenza, Dio, da
cui quella luce deriva, |
88 |
Quinci vien
l'allegrezza ond' io fiammeggio;
per ch'a la vista mia, quant' ella è chiara,
la chiarità de la fiamma pareggio. |
|
88 |
Da questa visione viene la
letizia di cui risplendo; perché io uguaglio la
luminosità del mio splendore alla visione che io ho di
Dio, per quanto essa riluce. |
91 |
Ma quell'
alma nel ciel che più si schiara,
quel serafin che 'n Dio più l'occhio ha fisso,
a la dimanda tua non satisfara, |
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91 |
Ma anche quell’anima che
nel cielo più s’illumina di luce, anche quel serafino
che più penetra con l’occhio in Dio, non potrebbe
soddisfare alla tua domanda; |
94 |
però che sì
s'innoltra ne lo abisso
de l'etterno statuto quel che chiedi,
che da ogne creata vista è scisso. |
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94 |
poiché quello che tu
chiedi si addentra tanto nel segreto degli eterni
decreti di Dio, che è separato dall’intelligenza di ogni
essere creato. |
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Dante, sapendo che ogni anima, nel paradiso, agisce
secondo la divina volontà, aveva chiesto per quale
misterioso motivo lo spirito che gli parla era stato
scelto per questo colloquio (versi 73-78). La sua
domanda tocca, ancora una volta, il tema della
predestinazione; tuttavia mentre nel canto precedente
essa riguardava la sorte ultraterrena riservata agli
uomini, qui è in rapporto al compito che i beati sono
chiamati a svolgere nel paradiso, per spiegare un fatto
sul quale finora Dante non si è soffermato: perché, fra
tante, solo determinate anime hanno parlato con lui. "La
predestinazione, limitata nella definizione dell'Aquinate
alla sola sorte ultraterrena, è così da Dante estesa
anche a questa nuova applicazione, rimanendo però essa
sempre per lui, come per San Tommaso, una manifestazione
della provvidenza divina. " ( Rossi-Frascino) Infatti,
ancora una volta la risposta è decisa e sicura come
quella già offerta dall'aquila: Nessuna creatura umana e
nessuna creatura angelica, neppure i Serafini, la
gerarchia angelica più vicina a Dio (cfr. Paradiso IV,
28), possono penetrare nel mistero ineffabile dei divini
decreti, Ma "la riaffermazione della loro natura arcana
e ad un tempo infallibile giova a sottolineare - rivela
il Sapegno svolgendo un'osservazione di Benvenuto da
Imola - ... la importanza delle persone di volta in
volta prescelte da Dio e ad accrescere pertanto
l'autorità dei severi giudizi che San Pier Damiano sarà
chiamato a pronunciare, nell'ultima parte del canto. |
97 |
E al mondo
mortal, quando tu riedi,
questo rapporta, sì che non presumma
a tanto segno più mover li piedi. |
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97 |
E quando
ritornerai, riferisci questo al mondo degli uomini,
cosicché esso non ardisca più dl indirizzarsi verso una
meta cosi alta. |
100 |
La mente,
che qui luce, in terra fumma;
onde riguarda come può là giùe
quel che non pote perché 'l ciel l'assumma». |
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100 |
L’intelligenza umana, che qui in cielo risplende di
luce, sulla terra è avvolta dal fumo dell’errore perciò
considera come possa l’intelligenza in terra quello che
non può neppure quando il cielo l’ha assunta nella sua
gloria”. |
103 |
Sì mi
prescrisser le parole sue,
ch'io lasciai la quistione e mi ritrassi
a dimandarla umilmente chi fue. |
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103 |
Le sue parole mi segnarono
il termine della questione, così che io l’abbandonai, e
mi limitai a domandare umilmente all’anima chi fosse. |
106 |
«Tra ' due
liti d'Italia surgon sassi,
e non molto distanti a la tua patria,
tanto che ' troni assai suonan più bassi, |
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106 |
“Tra le due sponde
d’Italia (del Tirreno e dell’Adriatico), s’innalzano,
non molto lontani dalla tua patria, i monti
dell’Appennino tanto alti, che i tuoni risuonano assai
più in basso (durante i temporali), |
109 |
e fanno un
gibbo che si chiama Catria,
di sotto al quale è consecrato un ermo,
che suole esser disposto a sola latria». |
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109 |
e formano una gobba che si
chiama Catria, sotto la quale c’è un sacro eremo (il
monastero di Fonte Avellana), il quale soleva essere
destinato solo al servizio di Dio.
|
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Catria: termine
greco che San Tommaso: usa per indicare il particolare
culto di adorazione che l'uomo deve a Dio (Summa
Theologica II, II, LXXXI, 1 ) .
Fra il territorio di Gubbio e quello di Pergola, il
rilievo più alto dell'Appennino umbro-marchigiano porta
il nome di Catria. Sulle sue pendici sorge il monastero
di Santa Croce di Fonte Avellana, appartenente
all'ordine dei Camaldolesi, fondato nel 1012 da San
Romualdo (Paradiso XXII, 49). Il luogo gli era stato
offerto da un certo Maldolo, che lì in sogno aveva
veduto una scala che si innalzava verso il cielo e sulla
quale saliva una moltitudine biancovestita. La notizia,
ricordata dal Luiso, è contenuta nelle Costituzioni del
beato Rodolfo, priore di Camaldoli nel 1080. Vestiti di
un bianco saio, i monaci di Fonte Avellana osservavano
la più dura penitenza e il più rigoroso silenzio,
vivendo in celle separate l'una dall'altra. Un'antica
tradizione vuole che Dante sia stato ospite di questo
eremo. Secondo il Fallani "l'esatta descrizione del
luogo, la testimonianza del Boccaccio che il Poeta " nei
monti vicino ad Urbino... onorato si stette ", e cioè
non lontano dall'eremo, la conoscenza precisa della vita
e dell'opera di San Pier Damiano, ravennate (il
Petrarca, alcun tempo dopo, non riuscì ad aver notizie
altro che scrivendo agli stessi monaci)... rendono
plausibile e fondata tale tradizione. |
112 |
Così
ricominciommi il terzo sermo;
e poi, continüando, disse: «Quivi
al servigio di Dio mi fe' sì fermo, |
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112 |
Così l’anima riprese a
parlarmi per la terza volta; poi, continuando, aggiunse:
“A Fonte Avellana mi dedicai con tanta vocazione al
servizio di Dio, |
115 |
che pur con
cibi di liquor d'ulivi
lievemente passava caldi e geli,
contento ne' pensier contemplativi. |
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115 |
che solo con cibi conditi
con olio d’oliva trascorrevo agevolmente le estati e gli
inverni, pago della mia vita di contemplazione. |
118 |
Render solea
quel chiostro a questi cieli
fertilemente; e ora è fatto vano,
sì che tosto convien che si riveli. |
|
118 |
Quel monastero soleva
allora fruttare al paradiso larga messe di anime, ora è
diventato così sterile, che presto ciò dovrà
manifestarsi al mondo. |
121 |
In quel loco
fu' io Pietro Damiano,
e Pietro Peccator fu' ne la casa
di Nostra Donna in sul lito adriano. |
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121 |
In quel monastero io fui
col nome di Pietro Damiano, e Pietro Peccatore mi
chiamai nella comunità di Nostra Signora (presso
Ravenna) sul litorale Adriatico”. |
|
Pier Damiano nacque a Ravenna nel 1007 da umile e povera
famiglia. Aiutato dal fratello maggiore, Damiano, dal
quale forse prese il nome, si dedicò allo studio della
giurisprudenza e delle arti liberali a Ravenna, Faenza e
Parma. Dopo un periodo di insegnamento nella città
d'origine e a Faenza e dopo aver acquistato grande fama
e notevoli ricchezze, verso il 1037 entrò nel cenobio di
Fonte Avellana, del quale divenne ben presto abate.
Famoso per l'austerità di vita e la profondità di
dottrina, collaborò attivamente alla azione di riforma
della Chiesa con il papa Leone IX, scrivendo le sue due
opere più note: il Liber Gratissimus, dove discute il
problema dei rapporti fra Chiesa e Impero, e il Liber
Gomorrhianus, violenta invettiva contro la decadenza
morale della vita ecclesiastica. Il papa Stefano IX nel
1057 lo creò vescovo e cardinale di Ostia, carica che
Pier Damiano accettò a malincuore perché lo costringeva
ad abbandonare l'eremo camaldolese. La sua opera di
riformatore continuo, sempre intensa, sotto il
pontificato di Niccolò II e di Alessandro II, finché
ritornò nel suo cenobio. Morì a Faenza nel 1072.
Il Barbi esclude, in modo quasi assoluto, una diretta
conoscenza delle opere di Piero da parte di Dante,
mentre tra i più recenti commentatori, il Sapegno
ammette che il Poeta "dovette conoscere almeno in parte
gli scritti del santo" e aggiunge: "è probabile che ne
ammirasse soprattutto le pagine di ardente polemica
contro i vizi e il fasto della curia e gli eloquenti
richiami agli ideali evangelici di purezza e di umiltà,
dettati in uno stile dove la squisitezza del retore e la
sapienza del teologo e del giurista son messi al
servizio di una vigorosa e inquieta personalità morale .
Pietro Peccator 'fu nella casa... secondo il Lana,
l'Ottimo e Pietro di Dante, il Poeta intenderebbe
alludere a Pietro degli Onesti, ravennate contemporaneo
del Damiano, fondatore e priore del monastero di Santa
Maria in Porto, lungo il litorale di Adria, il quale
nelle sue lettere usava firmarsi Petrus peccator; e
Petrus peccans è chiamato anche nel suo epitaffio, nella
chiesa prima citata. Invece Benvenuto (seguito dal Buti,
dal Landino e dalla maggior parte dei commentatori
moderni ) afferma che Dante qui identifica i due
personaggi. Benché la chiesa di Santa Maria in Porto sia
stata fondata dall'Onesti nel 1096, dopo, quindi, la
morte di Pier Damiano, i contemporanei confusero subito
i due personaggi, attribuendo la fondazione di Nostra
Donna in sul lito adriano al santo camaldolese.
Quest'ultimo, inoltre, amava firmarsi, per umiltà, nelle
sue lettere e nei suoi opuscoli, Petrus peccator
monachus o Petrus indignus o Petrus ultimo erernitarum,
cosicché appare probante la ipotesi del Barbi: Dante
"avendo notato la designazione " Pietro peccatore " in
parecchi scritti del santo, senza sapere precisamente a
che tempo si dovesse riferire - avendo osservato sotto
la tomba di Santa Maria in Porto quella scritta a un
Petrus peccano cognomine dictus - e conoscendo la
credenza che doveva correre anche allora, come alcuni
decenni più tardi, che fondatore di quel luogo fosse
Pier Damiano, possa aver combinato tutti questi indizi
per dedurne che il santo. dopo aver rinunziato al
cardinalato, si ritraesse a far vita di più profonda
umiltà e di più grave penitenza sul lito adriano". |
124 |
Poca vita
mortal m'era rimasa,
quando fui chiesto e tratto a quel cappello,
che pur di male in peggio si travasa. |
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124 |
Mi rimanevano pochi anni della mia vita
mortale, quando fui chiamato e indotto a prendere quel
cappello cardinalizio che oggi passa soltanto da un
prelato cattivo a uno peggiore. |
|
Da notare che il riferimento al cappello cardinalizio è
anacronistico, perché il suo uso venne istituito da
Innocenzo IV nel 1252. |
127 |
Venne Cefàs
e venne il gran vasello
de lo Spirito Santo, magri e scalzi,
prendendo il cibo da qualunque ostello. |
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127 |
San Pietro e San Paolo, il vaso
d’elezione dello Spirito Santo vennero sulla terra
affamati e scalzi, accettando il cibo da qualunque casa
ospitale. |
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Cefàs è parola aramaica che significa "pietra" (cfr.
Giovanni I, 42). L'espressione con la quale San Paolo è
designato negli Atti degli Apostoli ( IX, 15), "vas
electionis" è già stata ricordata da Dante (Inferno II,
28). |
130 |
Or voglion
quinci e quindi chi rincalzi
li moderni pastori e chi li meni,
tanto son gravi, e chi di rietro li alzi. |
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130 |
Ora invece i moderni
prelati vogliono chi li sorregga da una parte e
dall’altra e chi li conduca, tanto son corpulenti!, e
chi seguendoli tenga loro alzato lo strascico. |
133 |
Cuopron d'i
manti loro i palafreni,
sì che due bestie van sott' una pelle:
oh pazïenza che tanto sostieni!». |
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133 |
Cavalcando, coi loro
mantelli ricoprono anche i cavalli; sicché sotto una
stessa copertura procedono due bestie (la cavalcatura e
il cavaliere): o pazienza di Dio che sopporti tanta
vergogna!” |
136 |
A questa
voce vid' io più fiammelle
di grado in grado scendere e girarsi,
e ogne giro le facea più belle. |
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136 |
A queste parole io vidi
numerose luci scendere della scala di gradino in gradino
e roteare su di se, e ad ogni giro diventare più
luminose. |
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Dopo la visione di una santità aspra e solitaria nel
paesaggio petroso degli Appennini (ma quanta commozione
nel ricordo dell'ermo e della vita che in esso
trascorreva lievemente, nella macerazione della carne e
nei pensieri contemplativi!), un duro sarcasmo "incide
un particolare dopo l'altro, sì che la rappresentazione
vien fuori scandita, assaporata; corpulenta come quei
gravi pastori. Di fronte a magri e scalzi (verso 128)
come s'adagia lento e ponderoso nell'inciso tanto son
gravi! E che tramestio di gente quinci e quindi intorno
a quei corpi! E chi li rincalza, chi li mena, chi di
retro li alza. E la pompa dei manti trapassa nel
grottesco di due bestie sott'una pelle. Ma ora l'animo
non può più contenersi e l'amarissimo riso prorompe in
un'apostrofe che è solo dolore e fierezza di sdegno...
oh pazienza che tanto sostieni!" (Grabher). Dopo il
grottesco corteo delle maschere degli uomini che si
affaticano in vane attività, il quale ha aperto il canto
dell'umiltà e della carità, quello di San Francesco,
ecco la caricaturale processione di prelati a chiudere
il canto della santità eroica, della vita semplice e
austera, chiusa in diuturne preghiere, in- estenuanti
digiuni, in assorte contemplazioni, eppur arditamente
protesa all'azione, alla lotta per il bene della
società. Assistiamo, nel cielo di Saturno, al colloquio
del " gran Cardinale... con il laico che nella lettera
ai Cardinali italiani aveva pur tremato di toccar l'arca
" per cui si tene officio non commesso ": il riformatore
acerrimo, che tradusse in termini di polemica e di
politica italiana, con una passione dolorosa e attiva,
le alte intenzioni del movimento cluniacense, e il
fiorentino esule che via via contraddetto dal tempo
saliva ad una integrazione personalissima della storia,
del costume e della parola: entrambi in meditazione sui
monti: entrambi, al tramonto, in sul lito adriano... si
riconoscono in Dio le due anime... e in Dio sono
fraterne quelle che nel tempo e nella condizione sociale
erano distantissime'' ( Apollonio ) .
E il grido dei beati, tanto più potente e drammatico,
quanto più profondo era stato l'onora il silenzio del
cielo di Saturno, commenta non solo la dura invettiva
contro i prelati, ma la reciproca fede, di Pietro e di
Dante, nella vendetta divina. |
139 |
Dintorno a
questa vennero e fermarsi,
e fero un grido di sì alto suono,
che non potrebbe qui assomigliarsi; |
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139 |
Vennero a fermarsi attorno
all’anima di Pier Damiano, ed emisero un grido cosi
alto, che non potrebbe trovare un paragone in questa
terra: |
142 |
né io lo 'ntesi,
sì mi vinse il tuono. |
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142 |
né io potei capire le
parole; tanto mi assordò il suo rimbombo simile ad un
tuono. |
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