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DIVINA
COMMEDIA: PARAFRASI
PARADISO
CANTO XXX° |
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1 |
Forse
semilia miglia di lontano
ci ferve l'ora sesta, e questo mondo
china già l'ombra quasi al letto piano, |
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1 |
Il mezzogiorno (l’ora sesta) arde lontano dal punto dove
siamo forse a distanza di seimila miglia, e la terra
(questo mondo) inclina già il suo cono d’ombra fino
quasi a portarlo sul piano dell’orizzonte, |
4 |
quando 'l
mezzo del cielo, a noi profondo,
comincia a farsi tal, ch'alcuna stella
perde il parere infino a questo fondo; |
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4 |
quando lo spazio celeste,
per noi più lontano, incomincia a rischiararsi, tanto
che alcune stelle non sono più visibili fin quaggiù
sulla terra; |
7 |
e come vien
la chiarissima ancella
del sol più oltre, così 'l ciel si chiude
di vista in vista infino a la più bella. |
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7 |
e non appena
avanza l’aurora, la luminosa ancella del sole, ecco che
il cielo (rischiarandosi) spegne tutte le sue luci, una
stella dopo l’altra, finché scompare anche la più
fulgente. |
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I nove cerchi luminosi dei cori angelici scompaiono agli
occhi di Dante spegnendosi e allontanandosi lentamente
come stelle all'apparire dell'alba. Questo il valore
significante della dotta e complessa perifrasi
astronomica che occupa i primi nove versi del canto. La
prima terzina offre un'indicazione spaziale e temporale
nello stesso tempo: quando, allo schiudersi del mattino,
le stelle incominciano a dileguarsi, noi ci troviamo a
circa seimila miglia di distanza dal punto nel quale il
sole e a mezzogiorno (l'ora sesta: secondo l'uso
canonico, le dodici ore del giorno si dividevano in
quattro parti di tre ore ciascuna: terza, sesta, nona,
vespero). Poiché l'astronomo arabo Alfragano, le cui
teorie erano spesso accettate da Dante, aveva fissato la
lunghezza della circonferenza terrestre in 20.400 miglia
(cfr. anche Convivio III, V, 11; IV, VIII, 7), la misura
di seimila miglia equivale a poco più della quarta parte
(o quadrante) di essa, e ogni quadrante, rispetto al
corso del sole, corrisponde a sei ore. Occorrono,
dunque, circa sette ore prima che il sole tocchi il
mezzogiorno nel punto in cui ci troviamo e manca perciò
un'ora al sorgere del sole (infatti dal sorgere del sole
a mezzogiorno passano, nel periodo equinoziale, sei
ore). Intanto il cono d'ombra che la terra proietta
nello spazio e che si trova sempre in posizione
diametralmente opposta a quella del sole, si abbassa con
il suo vertice, sull'orizzonte, dalla parte occidentale,
mentre il sole si abbassa sull'orizzonte dalla parte
orientale.
Il mezzo del cielo, a noi profondo; più volte Dante si è
servito dell'espressione mezzo del cielo per indicare lo
spazio che si trova tra l'occhio e l'oggetto che esso
guarda (Purgatorio I, 15,- XXIX, 45; Paradiso XXVII,
74).
Con un'ulteriore specificazione, Dante precisa che
intende riferirsi a tutto lo spazio celeste fino al
cielo più profondo (cioè più alto rispetto a chi si
trova sulla terra), quello delle stelle fisse.
Il canto precedente si è chiuso su uno spettacolo di
divina unità ed eternità (uno manendo in se come
davanti), e il proemio del XXX, utilizzando
sapientemente una notazione scientifica non priva di
qualcosa di indefinito (forse... quasi), prolunga l'eco
di quella cadenza di infinito nella stupenda immagine di
un cielo prossimo all'alba, nel quale le stelle si
spengono ad una ad una. Siamo di fronte ad un possente
dilagare di paesaggio celeste che riecheggia le
molteplici immagini (fra le più belle del Paradiso) dal
Poeta dedicate, nei canti XXVIII e XXIX, alla
rappresentazione della fervida attività creatrice di Dio
e del perpetuo, osannante girare dei cerchi angelici
intorno al punto luminoso. Nella stessa disposizione
interiore con la quale ha cantato i misteri della
creazione e degli angeli - una intensa emozione del
cuore che la mente ordina e organizza in chiare e
definite forme poetiche - Dante si appresta a descrivere
l'Empireo. Ma prima di giungere al lume in forma di
rivera (verso 61), il lettore incontrerà 21 versi di
appassionata celebrazione di Beatrice, che è vicina a
Dante per l'ultima volta (nel canto seguente, infatti,
dagli spazi dell'Empireo sorriderà al Poeta che la prega
da lontano). L'integrazione di motivi celesti e terreni
presente nell'inno a Beatrice - persona divina, ma
sempre donna amata ed amante - permea anche la
rappresentazione iniziale del canto: '`forse non mai in
tutta la Commedia il cielo fisico e il cielo spirituale
si sono compenetrati come in questa apertura (forse
seimila miglia di lontano ci ferve l'ora sesta).
L'imprecisione voluta, quell'umanissimo forse del primo
verso c'introducono in uno spettacolo cosmico, in una
immensa e ardita scenografa. La impressione di vastità
infinita, il confronto tra il nostro mondo, pieno ormai
d'ombra e il fervido sole degli antipodi, il lento
cadere delle stelle e l'apparire dell'aurora ci portano
a quella concentrazione pensosa che l'uomo prova e Dante
poeta ha sentito dinanzi al volgere della giornata e dei
cieli, delle stelle e della notte. (Varese) |
10 |
Non
altrimenti il trïunfo che lude
sempre dintorno al punto che mi vinse,
parendo inchiuso da quel ch'elli 'nchiude, |
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10 |
Allo stesso modo il coro
trionfale dei nove cerchi angelici il quale tripudia
sempre intorno al punto centrale che mi aveva
abbagliato, e che sembrava contenuto dai cerchi angelici
mentre in realtà li contiene nella sua onnipotenza
divina, |
13 |
a poco a
poco al mio veder si stinse:
per che tornar con li occhi a Bëatrice
nulla vedere e amor mi costrinse. |
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13 |
a poco a poco impallidì scomparendo alla mia vista; per
cui il non veder più nulla e l’amore per Beatrice
m’indussero a volgere gli occhi verso di lei. |
16 |
Se quanto
infino a qui di lei si dice
fosse conchiuso tutto in una loda,
poca sarebbe a fornir questa vice. |
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16 |
Se tutto quanto è stato
detto finora da me della bellezza di Beatrice, potesse
venire racchiuso tutto in una sola lode, questa sarebbe
sempre inadeguata ad assolvere tale compito (quello,
cioè, di parlar degnamente di lei). |
19 |
La bellezza
ch'io vidi si trasmoda
non pur di là da noi, ma certo io credo
che solo il suo fattor tutta la goda. |
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19 |
La bellezza
che io vidi (in Beatrice) non solo va al di là delle
nostre capacità umane, ma sono certo che soltanto Dio,
il suo creatore, possa goderla appieno. |
22 |
Da questo
passo vinto mi concedo
più che già mai da punto di suo tema
soprato fosse comico o tragedo: |
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22 |
Da questo punto mi dichiaro vinto più di quanto non sia
mai stato sopraffatto da un punto qualsiasi del suo tema
uno scrittore di stile comico o di stile tragico, |
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Comico o tragedo:
Dante intende qui riferirsi alla consueta distinzione (cfr.
De Vulgari Eloquentia II, 4) fra "commedia" (poema di
stile modesto) e " tragedia " (poema di stile sublime).
Cfr. Inferno XVI, nota ai versi 128-130. |
25 |
ché, come
sole in viso che più trema,
così lo rimembrar del dolce riso
la mente mia da me medesmo scema. |
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25 |
perché, come fa la luce del sole riflessa in un occhio
debole (il quale resta abbagliato), così il solo ricordo
del dolce sorriso di Beatrice mi priva di tutte le
facoltà della mia mente (abbagliata da tanto splendore). |
28 |
Dal primo
giorno ch'i' vidi il suo viso
in questa vita, infino a questa vista,
non m'è il seguire al mio cantar preciso; |
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28 |
Dal primo giorno che vidi
i suoi occhi sulla terra, fino a questa visione, non mi
è mai stato impedito di proseguire il mio canto; |
31 |
ma or
convien che mio seguir desista
più dietro a sua bellezza, poetando,
come a l'ultimo suo ciascuno artista. |
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31 |
ma ora devo rinunciare a
seguire, con la mia poesia, l’immagine della sua
bellezza, come deve desistere ogni artista giunto al
limite estremo delle sue capacità espressive. |
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Alla soglia dell'Empireo, soli nell'incerta attesa,
immersi nel silenzio più profondo e in una luce che ha
il carattere indefinito di quella del cielo prima
dell'alba, Dante e Beatrice si trovano accanto per
l'ultima volta. Il viaggio si avvia al suo compimento e
si prepara la suprema visione per la quale il poema è
stato una mistica scala, una visione, forse, non
dissimile da quella che, alla fine della Vita Nova,
balenò alla mente dello smarrito Poeta. L'apoteosi di
Beatrice ha inizio nel clima del trionfale apparire
dell'alba, su uno sfondo infinito nel quale si dilegua
il trionfo dei nove cori angelici. Dopo una
dichiarazione di impossibilità descrittiva (versi
16-18), che ci riporta ai consueti moduli della lirica
cortese e della Vita Nova, la celebrazione sfocia in
un'iperbole (versi 19-21 ) che sembra dettata da un
incontrollato entusiasmo, perché proietta Beatrice
proprio al vertice della ineffabilità (che solo il suo
fattor tutta la goda). Essa, invece, rappresenta la
conclusione di un processo di glorificazione e di
dissolvimento della figura di Beatrice nel divino. Nella
Vita Nova il tentativo di configurare Beatrice nei suoi
lineamenti terrestri, urtava contro il fascino
sovrannaturale che sprigionava da una creatura la quale
obbligava i passanti ad esclamare: "questa non è
femmina, anzi è uno de li bellissimi angeli del cielo" (
cap. XXVI ) . Già allora su quei lineamenti terrestri
trionfava la "cosa venuta dal cielo in terra a miracol
mostrare" ( Vita Nova XXVI ) . Durante l'apparizione nel
paradiso terrestre, Beatrice è già così sublimata da
affidarsi con estrema naturalezza al tripudio della
nuvola di fiori che dalle mani angeliche saliva
(Purgatorio XXX, 28-29). Il terzo, essenziale passaggio
è quello segnato dal canto XXVIII del Paradiso (versi
4-21), dove Beatrice appare ormai come specchio in cui
Dio riflette la sua essenza, finché Dio stesso diventa
l'unica, possibile misura di comprensione e di godimento
della bellezza di lei. Conseguenza logica di questo
fatto sarà la profondità della rivelazione divina di cui
Beatrice, nei versi seguenti (con la descrizione
dell'Empireo), si mostrerà depositaria.
Tuttavia, appena lo sguardo del Poeta, superato il primo
smarrimento, riesce a percepire il dolce riso della
donna amata, si introduce, in questo momento di così
alta tensione spirituale, una delicatissima dimensione
umana (dal primo giorno ch'i' vidi il suo viso). Anche
così divinizzata, Beatrice - ed è questo il miracolo
dell'amore e della poesia - resta sempre la donna che
Dante ha amato nella Vita Nova e alla quale è ritornato
dopo il Convivio, la dolce guida e cara (Paradiso XXIII,
34 ) dalla quale ha avuto inizio la sua ascesa
spirituale. |
34 |
Cotal qual
io la lascio a maggior bando
che quel de la mia tuba, che deduce
l'ardüa sua matera terminando, |
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34 |
Cosi risplendente di
sovrumana bellezza quale io la lascio da celebrare ad
una voce poetica più potente della mia, la quale svolge
verso il suo termine il difficile argomento, |
37 |
con atto e
voce di spedito duce
ricominciò: «Noi siamo usciti fore
del maggior corpo al ciel ch'è pura luce: |
|
37 |
Beatrice con atteggiamento
e voce di guida che ormai ha finito il suo compito
ricominciò: "Noi siamo usciti fuori dal Primo Mobile, il
più grande dei corpi celesti per entrare nell’Empireo,
il cielo che è pura luce; |
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Dal Primo Mobile, il nono e più ampio dei cieli
materiali (Paradiso XXVIII, 64 sgg.), Dante e Beatrice
ascendono all'Empireo, il cielo che non ha materia né
spazio, ma solo luce, che gli deriva dal fatto di essere
sede di Dio, e tale luce non è "fuoco o ardore
materiale, ma spirituale, poiché è amore santo o carità"
(Epistola XIII, 67-68). Cfr.4 anche canto I, nota
relativa alla terzina 4. |
40 |
luce
intellettüal, piena d'amore;
amor di vero ben, pien di letizia;
letizia che trascende ogne dolzore. |
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40 |
luce della mente divina, traboccante
d’amore; amore del vero bene, pieno di beatitudine;
beatitudine che supera ogni altro godimento. |
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La luce dell'Empireo è la luce della mente di Dio che
governa il creato (Paradiso XXVII, 109-110); essa, lungi
dall'essere freddamente intellettuale, è tale da
accendere un ardente amore (Paradiso XXVII, 110-111 ).
Questo amore non si volge ad un bene finito e relativo,
ma al Bene infinito e assoluto, a Dio, dal quale deriva,
per la creatura, la gioia di unirsi al suo Creatore,
gioia che supera ogni umana dolcezza. Beatrice, con atto
e voce di spedito duce, dopo quel vibratissimo noi siamo
usciti fore, ci spalanca le porte di un'esperienza
infinita, e Dante con una sola terzina "introdotta da un
verso molto citato e di suggestiva bellezza, condensa in
una serie consequenziale i fatti e le nozioni annessi
all'idea di Dio " (Mattalia). A questa coerenza tematica
si aggiunge un intensificato crescendo ritmico, una
rigida concatenazione sintattica che obbliga il lettore
"ad inserire in un unico respiro l'intera terzina" (Guidobaldi).
Lo stesso critico, confrontando questi versi con il
passo sopra citato dell'Epistola XIII, rivela che Dante
nel configurare l'Ema pireo appariva là come un "freddo
enucleatore di presupposti scientifici prelevati in casa
altrui" e affidati "ad un coordinamento di avversative e
relative ignaro di preoccupazioni unitarie", mentre ora
la sua visione è pervasa da un'animazione lirica senza
precedenti. Dalla frammentarietà teorica di quella
pagina si passa ad una visione d'insieme così permeata
di intrinseca inscindibilità che il nesso della terzina
rimata non basterà più; occorrerà un rafforzamento del
tutto eccezionale: il ritrovato metrico costringente il
lettore a proiettare" ogni parola finale del verso nella
parola iniziale del verso seguente, cosicché i versi si
richiamano vicendevolmente "per poi andare a confluire
con l'ultimo verso in quell'oceano di dolzore, di cui la
luce e l'amore dei primi due versi sono le sorgenti
inesuate". |
43 |
Qui vederai
l'una e l'altra milizia
di paradiso, e l'una in quelli aspetti
che tu vedrai a l'ultima giustizia». |
|
43 |
Qui vedrai la schiera
degli angeli e la schiera dei santi del paradiso, e
vedrai quella dei beati con le stesse sembianze che essi
avranno il giorno del giudizio finale (all’ultima
giustizia, quando ogni anima riprenderà il suo corpo)". |
46 |
Come sùbito
lampo che discetti
li spiriti visivi, sì che priva
da l'atto l'occhio di più forti obietti, |
|
46 |
Come un lampo improvviso
che disperda le facoltà visive, così che l’occhio non
può più distinguere oggetti diventati troppo luminosi, |
49 |
così mi
circunfulse luce viva,
e lasciommi fasciato di tal velo
del suo fulgor, che nulla m'appariva. |
|
49 |
così tutt’intorno mi
rifulse la viva luce (dell’Empireo); e mi lasciò avvolto
dal velo così intenso del suo fulgore, che non vedevo
più nulla. |
52 |
«Sempre
l'amor che queta questo cielo
accoglie in sé con sì fatta salute,
per far disposto a sua fiamma il candelo». |
|
52 |
"L’amore divino che rende
immobile questo cielo, accoglie sempre con questo saluto
chi vi entra, per preparare la candela a ricevere la sua
fiamma". |
55 |
Non fur più
tosto dentro a me venute
queste parole brievi, ch'io compresi
me sormontar di sopr' a mia virtute; |
|
55 |
Non erano ancora penetrate
nella mia mente queste poche parole, che io m’accorsi di
essermi elevato al di sopra della mia normale facoltà
visiva; |
58 |
e di novella
vista mi raccesi
tale, che nulla luce è tanto mera,
che li occhi miei non si fosser difesi; |
|
58 |
e mi illuminai di nuova
potenza visiva, tale che non esiste luce tanto viva, che
gli occhi miei non sarebbero stati in grado di
sopportare. |
61 |
e vidi lume
in forma di rivera
fulvido di fulgore, intra due rive
dipinte di mirabil primavera. |
|
61 |
E vidi una luce in forma
di fiume fluente di fulgore, tra due sponde coperte di
meravigliosi fiori, come a primavera. |
64 |
Di tal
fiumana uscian faville vive,
e d'ogne parte si mettien ne' fiori,
quasi rubin che oro circunscrive; |
|
64 |
Da questo fiume uscivano
faville splendenti e andavano a posarsi sui fiori
dell’una e dell’altra riva, simili a rubini incastonati
in oro. |
67 |
poi, come
inebrïate da li odori,
riprofondavan sé nel miro gurge,
e s'una intrava, un'altra n'uscia fori. |
|
67 |
Poi, come inebriate dal
profumo dei fiori, le faville tornavano a inabissarsi
nel mirabile gorgo di luce; e mentre una entrava,
un’altra ne usciva. |
70 |
«L'alto
disio che mo t'infiamma e urge,
d'aver notizia di ciò che tu vei,
tanto mi piace più quanto più turge; |
|
70 |
"L’intenso desiderio che
ora ti accende e ti stimola ad aver cognizione chiara di
quello che tu vedi, piace tanto di più quanto più si
accresce; |
73 |
ma di quest'
acqua convien che tu bei
prima che tanta sete in te si sazi»:
così mi disse il sol de li occhi miei. |
|
73 |
ma bisogna che tu beva
dell’acqua di questo fiume prima che in te sia placata
una sete di sapere tanto grande": così mi disse
Beatrice, il sole dei miei occhi. |
76 |
Anche
soggiunse: «Il fiume e li topazi
ch'entrano ed escono e 'l rider de l'erbe
son di lor vero umbriferi prefazi. |
|
76 |
Soggiunse ancora. "Il
fiume di luce e le faville simili a topazi che vi
s’immergono e ne escono e il risplendere dei fiori sono
anticipazioni velate della verità in essi racchiusa. |
79 |
Non che da
sé sian queste cose acerbe;
ma è difetto da la parte tua,
che non hai viste ancor tanto superbe». |
|
79 |
Non già che essi siano per
loro natura difettosi; ma l’insufficienza è in te che
non hai ancora occhi tanto potenti da vederli quali
sono". |
|
Costretto a descrivere l'Empireo - una realtà al di
sopra del tempo e dello spazio - in forme sensibili,
legate, quindi, alla categoria del tempo e dello spazio,
il Poeta "risolve felicemente il problema di conciliare
la natura di questo cielo con le necessità inderogabili
della poesia, presentandoci il sovrasensibile come un
sensibile definitivo a cui si arrivi traverso delle fasi
sensibili illusorie, che lo percorrono, adombrandolo,
quasi di lor vero umbriferi prefazii... Tale scaturire
del sovrasensibile dallo sfumare delle prime immagini
sensibili nell'illusorietà, come per un rispetto non
nuoce alla poesia, la quale trova modo di accamparsi
sempre solidamente nel concreto, così per un altro non
riesce di alcun pregiudizio all'immutabilità, che è, nel
concetto dantesco, norma essenziale del divino; in
quanto s'immagina che questo non cambi in se da ciò
ch'era prima, ma che la sua apparente mutazione sia un
prodotto della gradualità del potenziamento, mediante
cui la mente umana riesce a percepirlo" (Rossi-Frascino).
Tre sono i momenti successivi della visione
dell'Empireo: prima una luce viva fascia il Poeta,
abbagliandolo, poi la luce si precisa configurandosi in
una rivera (la Grazia) sulle cui sponde crescono
rigogliosi i fiori (i beati), mentre faville vive, con
un moto incessante, passano alternativamente dal fiume
alle corolle e dalle corolle al fiume (gli angeli,
intermediari della Grazia e uniti, nella beatitudine,
alle anime sante). Infine la fiumana assume una circular
figura (verso 103), tipica della costruzione dantesca,
disponendosi nella forma di una rosa sempiterna, un
immenso anfiteatro sui gradini del quale appaiono ormai
direttamente, nel loro aspetto umano, i beati; essi
contemplano la luce divina riflessa nel lago di luce che
occupa il centro dell'anfiteatro (versi 103 sgg.). Nella
visione dell'Empireo lo spunto è offerto dalla Bibbia:
la luce in forma di fiume, infatti, ricorda un passo di
Daniele (VII, 10: "un fiume di fuoco sgorgava e usciva
dalla sua presenza" ) e uno dell'Apocalisse (XXII, 1:
"mi mostrò un fiume d'acqua di vita, limpida come
cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e
dall'Agnello"). Cfr. anche Salmi XXXVI. 9; XLVI, 5; LXV.
10; Isaia LXVI, 12. |
82 |
Non è fantin
che sì sùbito rua
col volto verso il latte, se si svegli
molto tardato da l'usanza sua, |
|
82 |
Non vi è bambino che cosi
precipitosamente si volga col viso per prendere il
latte, se si sveglia molto più tardi dell’ora consueta, |
85 |
come fec'
io, per far migliori spegli
ancor de li occhi, chinandomi a l'onda
che si deriva perché vi s'immegli; |
|
85 |
come io mi volsi al fiume,
affinché i miei occhi diventassero migliori specchi (di
quelle realtà), piegandomi verso l’acqua che scorre fra
le due rive perché, guardando in essa, si possa
diventare perfetti; |
88 |
e sì come di
lei bevve la gronda
de le palpebre mie, così mi parve
di sua lunghezza divenuta tonda. |
|
88 |
e non appena i miei occhi
cominciarono a dissetarsi in quell’onda, essa mi apparve
trasformata in un cerchio mentre prima si estendeva in
lunghezza. |
91 |
Poi, come
gente stata sotto larve,
che pare altro che prima, se si sveste
la sembianza non süa in che disparve, |
|
91 |
Poi come persone che
celate sotto maschere, allorché si tolgono il falso
aspetto sotto cui si nascondono, appaiono diverse da
prima, |
94 |
così mi si
cambiaro in maggior feste
li fiori e le faville, sì ch'io vidi
ambo le corti del ciel manifeste. |
|
94 |
allo stesso modo i fiori e
le faville (cambiando aspetto) si tramutarono davanti a
me in una visione più festosa, così che io potei vedere
chiaramente ambedue le corti celesti (quella degli
angeli e quella dei beati). |
97 |
O isplendor
di Dio, per cu' io vidi
l'alto trïunfo del regno verace,
dammi virtù a dir com' ïo il vidi! |
|
97 |
O splendore
di Dio, per grazia del quale vidi l’eccelso trionfo del
regno celeste, dammi la capacità di descriverlo come lo
vidi! |
100 |
Lume è là sù
che visibile face
lo creatore a quella creatura
che solo in lui vedere ha la sua pace. |
|
100 |
Nell’Empireo
vi è il lume di gloria che rende visibile il Creatore
alla creatura che trova la sua pace solo nella visione
di Lui. |
103 |
E' si
distende in circular figura,
in tanto che la sua circunferenza
sarebbe al sol troppo larga cintura. |
|
103 |
Questo lume si allarga in
forma circolare, tanto che la sua circonferenza sarebbe
una cintura troppo ampia anche per il sole. |
106 |
Fassi di
raggio tutta sua parvenza
reflesso al sommo del mobile primo,
che prende quindi vivere e potenza. |
|
106 |
Tutta la sua figura
visibile è formata da un raggio (emanante dalla luce
divina) riflesso dalla superficie convessa del Primo
Mobile, il quale da questo raggio riceve la forza vitale
che trasmette agli altri cieli. |
109 |
E come clivo
in acqua di suo imo
si specchia, quasi per vedersi addorno,
quando è nel verde e ne' fioretti opimo, |
|
109 |
E come un colle si
specchia nell’acqua di un lago che è ai suoi piedi,
quasi per contemplare la sua bellezza, quando è ricco di
verde e di fiori, |
112 |
sì,
soprastando al lume intorno intorno,
vidi specchiarsi in più di mille soglie
quanto di noi là sù fatto ha ritorno. |
|
112 |
allo stesso modo, stando
sopra al lago di luce, disposte tutt’intorno ad esso, su
più di mille gradini vidi specchiarsi tutte le anime
beate che dal nostro mondo sono tornate all’empireo. |
115 |
E se
l'infimo grado in sé raccoglie
sì grande lume, quanta è la larghezza
di questa rosa ne l'estreme foglie! |
|
115 |
E se il gradino più basso
può contenere in se un lago di luce così ampio, (si
immagini) quanto sia estesa la circonferenza dei petali
estremi di questa rosa! |
118 |
La vista mia
ne l'ampio e ne l'altezza
non si smarriva, ma tutto prendeva
il quanto e 'l quale di quella allegrezza. |
|
118 |
La mia vista non si
smarriva nell’immensità e nella profondità di questo
spettacolo, ma percepiva quella beatitudine in tutta la
sua estensione e intensità. |
121 |
Presso e
lontano, lì, né pon né leva:
ché dove Dio sanza mezzo governa,
la legge natural nulla rileva. |
|
121 |
Nell’Empireo, né la
vicinanza aggiunge, né la lontananza toglie qualcosa
alla possibilità di vedere, perché dove Dio governa
direttamente, le leggi della natura non hanno alcun
valore. |
124 |
Nel giallo
de la rosa sempiterna,
che si digrada e dilata e redole
odor di lode al sol che sempre verna, |
|
124 |
Nel centro luminoso della
rosa eterna, che si allarga e si estende per successivi
gradini ed emana profumo di lode a Dio, il sole che crea
perenne primavera, |
127 |
qual è colui
che tace e dicer vole,
mi trasse Bëatrice, e disse: «Mira
quanto è 'l convento de le bianche stole! |
|
127 |
Beatrice guidò me, che ero
nello stesso stato d’animo di colui che tace per lo
stupore ma vorrebbe parlare, e mi disse: "Guarda quanto
è grande la comunità dei beati vestiti di bianco (delle
bianche stole; l’immagine delle bianche stole deriva
dall’Apocalisse VII, 9; cfr. Paradiso XXV, 95)! |
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Continua, nei versi 103-129, la ricchezza d'immagini che
ha caratterizzato le terzine precedenti e si accentuano,
nel lento formarsi della rosa, il luminismo e la
musicalità della visione, anche se le fresche e liete
immagini del fiume fatto di luce, delle faville che si
muovono in gioiosa libertà, inebriate dal profumo dei
fiori, delle sponde fiorite che sorridono alla loro
rivera, cedono il posto a quella di un grandioso
anfiteatro. Di quest'ultimo il Poeta - sempre
preoccupato, come nelle due cantiche precedenti, di
cercare nella realtà misure concrete che convalidino la
sua visione - fornisce le dimensioni: la base è più
ampia della circonferenza del disco solare (versi
103-105) e l'altezza supera la profondità degli abissi
marini scrutati dalle più alte regioni dell'atmosfera
(canto XXXI, versi 73-76). Tuttavia, trascinato
dall'impeto lirico delle prime immagini, che
gli sono sembrate le più adatte per suggerire l'emozione
della sua esperienza spirituale, perché più capaci di
destare nel cuore dell'uomo un senso di gioia e di
serenità, Dante si attiene all'immagine del fiore, - la
rosa - delle foglie, dei profumi, dei colori, in un'aura
di eterna primavera ( suggerita certamente dall'eterna
primavera del paradiso terrestre; cfr. Purgatorio
XXVIII, 143). Viene casi realizzata, nella
rappresentazione dell'Empireo, un'unità contenutistica e
stilistica di raro vigore. Un altro elemento di unità
fra i successivi passaggi è offerto dall' "ininterrotto
controllo intellettivo che vi funge da ideale
irrobustimento, si da conservare al fluire lirico la sua
densità espressiva e la sua autenticità di simbolo". (Guidubaldi) |
130 |
Vedi nostra
città quant' ella gira;
vedi li nostri scanni sì ripieni,
che poca gente più ci si disira. |
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130 |
Vedi quanto è ampia la nostra
Gerusalemme celeste: vedi come i nostri seggi hanno già
tanti posti occupati che ormai qui ci attende solo poca
gente. |
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In accordo con il pensiero del suo tempo, Dante ritiene
che il numero dei beati sia stato fissato fin
dall'eternità per sostituire gli angeli ribelli, che
furono una decima parte di tutte le intelligenze
angeliche (Convivio II, V, 12). Inoltre nel 1300 si
credeva ormai prossima la fine del mondo, giunto alla
sua sesta e ultima età (Convivio II, XIV, 13); pochi
beati, perciò, mancano per completare i seggi ancora
vuoti della rosa sempiterna.
Vedi nostra città: il paradiso, comunemente designato,
nella letteratura patristica e in tutto il Medioevo,
come la Gerusalemme celeste, in contrapposto al mondo,
la Gerusalemme terrena. |
133 |
E 'n quel
gran seggio a che tu li occhi tieni
per la corona che già v'è sù posta,
prima che tu a queste nozze ceni, |
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133 |
E su quel grande seggio, a
cui tieni fissi gli occhi a causa della corona imperiale
che già vi è sopra, prima che tu salga a questo
banchetto nuziale (cioè: prima della tua morte), |
136 |
sederà
l'alma, che fia giù agosta,
de l'alto Arrigo, ch'a drizzare Italia
verrà in prima ch'ella sia disposta. |
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136 |
verrà a sedersi l’anima,
che sulla terra sarà ) augusta, del grande Arrigo, che
scenderà a ristabilire l’ordine in Italia prima che essa
sia preparata a ciò. |
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Arrigo VII di Lussemburgo, eletto imperatore nel 1308,
scese in Italia due anni dopo con la speranza di
restaurare l'autorità imperiale, ponendo termine alle
lotte che dilaniavano le città italiane e alla lunga
contesa fra Guelfi e Ghibellini. Durante i tre anni in
cui rimase in Italia (mori a Buonconvento il 24 agosto
del 1313), la sua azione, tuttavia, ottenne scarsi
risultati per la dura opposizione del partito guelfo e
di molte città italiane, fra le quali Firenze. Dante
vide in lui non solo il restauratore della pace in
Italia (a tale pace, erano, fra l'altro, legate le sue
speranze di ritornare a Firenze), ma anche il simbolo di
una effettiva conciliazione dei due poteri, quello
temporale e quello spirituale e, di conseguenza, di un
rinnovamento morale e politico del mondo ( cfr. le
Epistole V, VI, VII). Con la chiara affermazione del
verso 138, Dante riconosce che l'Italia era ancora
impreparata a qualsiasi tentativo di rinnovamento
politico. Tuttavia, come giustamente osserva il Sapegno,
il Poeta scrivendo queste terzine "riconferma ancora una
volta l'intatta vitalità del suo ideale e lo corrobora
con la profezia del castigo divino che colpirà il
principale nemico di Arrigo". |
139 |
La cieca
cupidigia che v'ammalia
simili fatti v'ha al fantolino
che muor per fame e caccia via la balia. |
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139 |
La cieca cupidigia dei
beni mondani che vi toglie ogni retto discernimento, vi
ha resi simili al bambino che muore di fame eppure
respinge la balia. |
142 |
E fia
prefetto nel foro divino
allora tal, che palese e coverto
non anderà con lui per un cammino. |
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142 |
Allora sarà a capo della
Chiesa un pontefice che riguardo ad Arrigo agirà
pubblicamente e segretamente, in modo diverso. |
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Il papa Clemente V, dopo aver invitato Arrigo in Italia
e avergli promesso il proprio aiuto, divenne, in un
secondo tempo, sostenitore degli interessi angioini
nella penisola e incominciò ad ostacolare l'azione
imperiale. |
145 |
Ma poco poi
sarà da Dio sofferto
nel santo officio; ch'el sarà detruso
là dove Simon mago è per suo merto, |
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145 |
Ma sarà tollerato da Dio nel santo
ufficio per poco tempo ancora dopo la morte di Arrigo,
perché sarà sprofondato nell’inferno, nella bolgia dove
Simon Mago riceve il meritato castigo, |
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Clemente V, morto il 20 aprile 1314, otto mesi dopo la
scomparsa di Arrigo VII, sarà condannato da Dante nella
bolgia dei simoniaci (Inferno XIX, 82-87), dove occuperà
il posto di Bonifacio VIII, il protagonista
dell'episodio di Anagni (Inferno XIX, 76-81; Purgatorio
XX, 85-90 ). |
148 |
e farà quel
d'Alagna intrar più giuso». |
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148 |
e farà scendere più in basso (nella sua
buca) Bonifacio VIII, il papa di Anagni". |
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Le ultime parole di Beatrice nel poema sono dunque per
l'ideale più sofferto di Dante e si ricollegano a quelle
da lei pronunciate nell'ultimo canto del Purgatorio con
la profezia relativa ai destini della Chiesa e
dell'Impero. "Sull'immensa serenità del convento delle
bianche stole si rileva, splendidamente isolata, la
corona che attende Arrigo VII" (Momigliano), mentre
"un'atmosfera sacra e sconfinata circonda la solitudine"
del suo seggio, la cui presenza, davanti a Dio,
testimonia il carattere divino e necessario dell'Impero. |
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