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DIVINA
COMMEDIA: PARAFRASI
PARADISO
CANTO VIII° |
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1 |
Solea creder
lo mondo in suo periclo
che la bella Ciprigna il folle amore
raggiasse, volta nel terzo epiciclo; |
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1 |
I popoli pagani con loro danno ritenevano che il bel
pianeta Venere diffondesse con i suoi raggi l’amore
sensuale, volgendosi nel terzo epiciclo; |
4 |
per che non
pur a lei faceano onore
di sacrificio e di votivo grido
le genti antiche ne l'antico errore; |
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4 |
per la qual cosa le genti
antiche, chiuse nell’errore del paganesimo, non solo
adoravano la dea Venere con sacrifici e con invocazioni
accompagnate da voti, |
7 |
ma Dïone
onoravano e Cupido,
quella per madre sua, questo per figlio,
e dicean ch'el sedette in grembo a Dido; |
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7 |
ma rendevano onore anche a
Diana e Cupido, a quella come madre di Venere, a questo
come figlio; e raccontavano che Cupido si era seduto in
grembo a Didone; |
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Secondo la mitologia classica, Venere, dea dell'amore e
della bellezza (chiamata Ciprigna perché nata nel mare
di Cipro e perché in quest'isola essa era
particolarmente venerata), aveva la sua sede nel terzo
cielo. Temo epiciclo: gli astronomi medievali, per
spiegare le diverse posizioni assunte dai pianeti,
ritenevano che ciascuno si muovesse, oltre che da
oriente verso occidente, anche da occidente verso
oriente, in un cerchio minore, il cui centro cadeva
sulla circonferenza del primo (epiciclo: cerchio su
cerchio). Mentre secondo gli antichi il pianeta Venere
diffondeva, con la sua influenza, l'amore sensuale nel
mondo, secondo il pensiero medievale esso dà origine a
un amore benefico e positivo. Infatti gli intelletti
motori del terzo cielo, "naturati de l'amore del Santo
Spirito, fanno la loro operazione, connaturale ad essi,
cioè lo movimento di quello cielo, pieno d'amore, dal
quale prende la forma del detto cielo uno ardore
virtuoso per lo quale le anime di qua giuso s'accendono
ad amore, secondo la loro disposizione. E perché li
antichi s'accorsero che quello cielo era qua giù cagione
d'amore, dissero Amore essere figlio di Venere"
(Convivio II, V, 13-14). A quest'ultimo, come a Diana,
che generò Venere da Giove, gli antichi estendevano le
preghiere e i sacrifici offerti in onore della dea della
bellezza. Riguardo a Cupido, Dante ricorda quanto narra
Virgilio nell'Eneide ( I, 657-722 ): Venere inviò
Cupido, sotto le sembianze del piccolo Ascanio, figlio
di Enea, a sedere in grembo alla regina Didone, per
infiammarla d'amore per l'eroe troiano. |
10 |
e da costei
ond' io principio piglio
pigliavano il vocabol de la stella
che 'l sol vagheggia or da coppa or da ciglio. |
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10 |
e da Venere, dal nome della quale
inizio questo canto, trae il nome la stella che il sole
contempla come un innamorato ora mentre essa si trova
alle sue spalle, ora mentre si trova davanti a lui. |
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Il pianeta Venere, a causa del suo doppio movimento,
alla sera appare dietro il sole (con il nome di Espero),
al mattino davanti ad esso (con il nome di Lucifero).
Riguardo al verso 12, molti critici considerano il sole
soggetto, altri complemento oggetto. La prima
interpretazione è quella più esatta dal punto di vista
astronomico e quella più aderente alla situazione
poetica, la quale, in tal modo, viene a trasformare in
senso fantastico l'elemento scientifico, umanizzando
l'immagine dei due astri nel rapporto affettivo fra
Venere e il Sole. |
13 |
Io non
m'accorsi del salire in ella;
ma d'esservi entro mi fé assai fede
la donna mia ch'i' vidi far più bella. |
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13 |
Io non mi accorsi di salire in esso; ma mi resi conto di
esservi giunto quando vidi la mia donna farsi più bella. |
16 |
E come in
fiamma favilla si vede,
e come in voce voce si discerne,
quand' una è ferma e altra va e riede, |
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16 |
E come nella fiamma si
vede la scintilla, e come in due voci (che, cantando
insieme, sembrano una sola) si distingue l’altra voce,
se una sta ferma su una nota e la seconda si alza e si
ad bassa, |
19 |
vid' io in
essa luce altre lucerne
muoversi in giro più e men correnti,
al modo, credo, di lor viste interne. |
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19 |
così nella
luce del pianeta Venere scorsi altre luci muoversi in
giro più o meno veloci, in proporzione, credo, alla
maggiore o minore intensità della loro visione di Dio. |
22 |
Di fredda
nube non disceser venti,
o visibili o no, tanto festini,
che non paressero impediti e lenti |
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22 |
Da una fredda nube non discesero mai venti, visibili o
no, tanto veloci, che non apparissero ritardati (nel
loro procedere) e lenti |
25 |
a chi avesse
quei lumi divini
veduti a noi venir, lasciando il giro
pria cominciato in li alti Serafini; |
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25 |
a chi avesse veduto quelle luci divine affrettarsi verso
di noi interrompendo la danza circolare prima iniziata
nel cielo degli alti Serafini; |
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Secondo la scienza medievale di derivazione aristotelica
i venti si formano quando i vapori caldi e secchi,
salendo nella terza regione dell'aria, si scontrano con
le nubi fredde. I venti visibili sarebbero i fulmini e
le stelle cadenti, e quelli invisibili i venti
propriamente detti. Secondo alcuni interpreti, invece, i
primi rappresenterebbero i venti che spostano le nubi
nel cielo e sollevano la polvere in terra. Gli alti
Serafini sono le intelligenze motrici del Primo Mobile,
il nono cielo, quello più vicino all'Empireo. Le anime
che si sono staccate dall'Empireo per scendere nel terzo
cielo hanno cominciato la loro danza nel Primo Mobile,
perché è il primo corpo celeste dotato di movimento dopo
il ciel sempre quieto (Paradiso 1, 122). |
28 |
e dentro a
quei che più innanzi appariro
sonava 'Osanna' sì, che unque poi
di rïudir non fui sanza disiro. |
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28 |
e all’interno di quelle
luci che apparvero davanti alle altre risuonava la
parola “Osanna” con tanta dolcezza, che mai poi rimasi
senza il desiderio di riudire quel canto. |
31 |
Indi si fece
l'un più presso a noi
e solo incominciò: «Tutti sem presti
al tuo piacer, perché di noi ti gioi. |
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31 |
Poi una di queste si
avvicinò di più a noi ed essa sola cominciò a parlare:
“Tutti siamo pronti a soddisfare ogni tuo desiderio,
affinché tu tragga da noi motivo di gioia. |
34 |
Noi ci
volgiam coi principi celesti
d'un giro e d'un girare e d'una sete,
ai quali tu del mondo già dicesti: |
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34 |
Noi ci muoviamo con il
coro angelico dei Principati nello stesso cerchio e con
lo stesso movimento eterno e con lo stesso desiderio di
Dio; |
37 |
'Voi che 'ntendendo
il terzo ciel movete';
e sem sì pien d'amor, che, per piacerti,
non fia men dolce un poco di quïete». |
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37 |
ad essi tu un tempo,
quando eri nel mondo, ti rivolgesti con questa canzone:
“Voi che ‘stendendo il terzo ciel movete”; e siamo così
pieni d’amore, che, per compiacerti, non ci sarà meno
dolce (rispetto alla danza e al canto) fermarci un poco
(con te)”. |
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I Principati sono le intelligenze angeliche che
presiedono al terzo cielo, dove si trovano le anime che
in terra, per influsso di Venere, sentirono con
particolare intensità l'amore. Trascinate dapprima al
male, esse seppero poi indirizzare questa loro
inclinazione verso il bene. " Voi che 'intendendo il
terzo ciel movete" (voi che solo con la vostra
intelligenza fate muovere il terzo cielo) è la prima
canzone del Convivio ed è commentata nel secondo libro,
Tuttavia lì era riferita ai Troni, mentre nel Paradiso,
Dante, secondo la gerarchia celeste attribuita al grande
scrittore mistico greco del V secolo, lo Pseudo-Dionigi
l'Areopagita, pone nel terzo cielo i Principati. |
40 |
Poscia che
li occhi miei si fuoro offerti
a la mia donna reverenti, ed essa
fatti li avea di sé contenti e certi, |
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40 |
Dopo che i miei occhi si
furono rivolti a Beatrice per chiedere umilmente il
permesso di parlare, ed ella li rese paghi e certi del
suo consenso, |
43 |
rivolsersi a
la luce che promessa
tanto s'avea, e «Deh, chi siete?» fue
la voce mia di grande affetto impressa. |
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43 |
ritornarono allo spirito
che con tanta generosità si era offerto (di soddisfare
ogni mio desiderio ), e le mie parole, pronunciate con
tono di profondo affetto, furono: “Deh, chi siete?” |
46 |
E quanta e
quale vid' io lei far piùe
per allegrezza nova che s'accrebbe,
quando parlai, a l'allegrezze sue! |
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46 |
Come lo vidi farsi più
grande in ampiezza e fulgore per il nuovo gaudio che,
quando gli rivolsi la parola, si aggiunse a quello che
già provava come anima beata! |
49 |
Così fatta,
mi disse: «Il mondo m'ebbe
giù poco tempo; e se più fosse stato,
molto sarà di mal, che non sarebbe. |
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49 |
Diventato più luminoso, mi
disse: “ Il mondo mi ebbe poco tempo con se; e se fossi
vissuto di più, si sarebbe evitato molto male, che
invece avverrà. |
52 |
La mia
letizia mi ti tien celato
che mi raggia dintorno e mi nasconde
quasi animal di sua seta fasciato. |
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52 |
La letizia, che si
diffonde intorno a me e mi ricopre come fossi un baco
fasciato dal suo bozzolo, mi nasconde ai tuoi occhi. |
55 |
Assai
m'amasti, e avesti ben onde;
che s'io fossi giù stato, io ti mostrava
di mio amor più oltre che le fronde. |
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55 |
Assai mi amasti, e ben ne
avesti ragione, perché se io fossi rimasto (più a lungo)
in terra, ti avrei mostrato molto più che le fronde del
mio affetto (offrendoti anche i suoi frutti) . |
58 |
Quella
sinistra riva che si lava
di Rodano poi ch'è misto con Sorga,
per suo segnore a tempo m'aspettava, |
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58 |
Mi aspettavano come loro
signore a tempo debito (dopo la morte di mio padre) la
Provenza, che si stende lungo la riva sinistra del
Rodano a sud del luogo in cui esso riceve le acque del
Sorga, |
61 |
e quel corno
d'Ausonia che s'imborga
di Bari e di Gaeta e di Catona,
da ove Tronto e Verde in mare sgorga. |
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61 |
e quella parte d’Italia
fatta a modo di corno che protende i suoi borghi di
Bari, Gaeta e Catona a partire dal punto nel quale il
Tronto e il Verde sfociano in mare. |
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Carlo Martello passa in rassegna le terre che un giorno
avrebbero dovuto essere sue, rimpiangendo con voce
accorata non il fiore degli anni o la potenza di cui non
poté godere, ma il bene che egli non poté compiere per i
suoi popoli (e se più fosse stato, molto sarà di mal,
che non sarebbe: fin dal l'inizio la sua figura è
apparsa ripiegata su questa dolorosa meditazione) e per
coloro che gli furono cari (s'io fossi giù stato, io ti
mostrava di mio amor pia oltre che le fronde). "La
splendida rassegna... di tutte le terre che gli
destinavano la loro corona, a lui arridenti nel fascino
incantevole delle loro città, dei loro fiumi, dei loro
promontori, dei loro vulcani e dei loro mari, non muove
da vana ostentazione, né è soltanto un espediente per il
palesamento della sua persona, ma vuole riuscire
soprattutto una dimostrazione convincente dei limiti che
avrebbe potuto raggiungere la sua volonterosa operosità
di regnante, non meno che la sua regale magnificenza
verso Dante, qualora esse avessero potuto
esercitarsi..." (Rossi-Prascino) Dopo la Provenza lo
sguardo di Carlo Martello si volge al regno di Napoli,
visto come un triangolo i cui punti estremi sono
costituiti da Bari (a est), Gaeta ( a ovest), Catona ( a
sud). S'imborga: molti critici intendono "ha come
borghi", e quindi "ha come punti estremi", altri,
invece, accettano l'interpretazione del Buti: "s'incittadinesca,
e hae per borghi, cioè per cittadi', poiché " borgo " ha
come significato originario quello di "città". Altri
interpreti hanno pensato che " borgo " significa in
questo momento "castello" , " fortezza", ricordando che
anche Catona un tempo costituiva una grande piazzaforte
come Bari e Gaeta. Il Liri o Garigliano e il Tronto
segnavano il confine fra il regno napoletano e il Lazio
e le Marche. |
64 |
Fulgeami già
in fronte la corona
di quella terra che 'l Danubio riga
poi che le ripe tedesche abbandona. |
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64 |
Mi risplendeva già sulla
fronte la corona d’Ungheria, la terra che il Danubio
bagna dopo essere uscito dal territorio germanico. |
67 |
E la bella
Trinacria, che caliga
tra Pachino e Peloro, sopra 'l golfo
che riceve da Euro maggior briga, |
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67 |
E la bella Sicilia, che si
vela di caligine nel tratto di costa fra il capo Passaro
e il capo Faro presso il golfo di Catania, che è
investito dallo scirocco più che da altri venti, |
70 |
non per
Tifeo ma per nascente solfo,
attesi avrebbe li suoi regi ancora,
nati per me di Carlo e di Ridolfo, |
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70 |
non per colpa di Tifeo ma
per le emanazioni sulfuree del terreno, avrebbe tuttora
atteso i suoi re legittimi, che sarebbero discesi
attraverso me da Cario e da Rodolfo, |
73 |
se mala
segnoria, che sempre accora
li popoli suggetti, non avesse
mosso Palermo a gridar: "Mora, mora!". |
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73 |
se il malgoverno, che
sempre rattrista i popoli soggetti, non avesse mosso la
popolazione di Palermo a ribellarsi al grido: “Morte,
morte (ai Francesi)!” |
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La geografia medievale, seguendo le affermazioni di
Orosio, riteneva che l'Italia si protendesse da
nord-ovest a sud-est e fosse bagnata a sud-ovest dal mar
Tirreno e a nord-est dall'Adriatico, con il quale veniva
confuso il mar Jonio, Può stupire che il Poeta
rappresenti tutta la costa orientale della Sicilia (
chiamata, con termine greco, Trinacria per le sue tre
punte ) avvolta da una densa nebbia, ma Dante potrebbe
riferire le informazioni esagerate di chi, stando sulla
riva calabrese, ha visto per qualche giorno quella parte
della Sicilia annebbiata dal fumo dell'Etna in attività.
Tuttavia, come sempre, quando è possibile, Dante
preferisce sostituire la spiegazione scientifica
(emanazioni sulfuree) del fenomeno naturale a quella
offerta dalla fantasia o dal mito. Così respinge la
leggenda, raccolta da Ovidio (Metamorfosi V, 352,356) e
da Virgilio (Eneide III, 570-582), secondo la quale quei
vapori sarebbero causati dall'agitarsi del gigante Tifeo,
che, dopo essere stato fulminato da Giove, fu sepolto
sotto l'Etna. La bella Trinacria non poté essere
governata né da Carlo Martello né dai suoi figli,
discendenti per parte di padre da Carlo I d'Angiò e per
parte di madre da Rodolfo I d'Asburgo, la cui figlia
Clemenza era andata sposa a Carlo Martello nel 1287,
quando entrambi erano ancora fanciulli. Infatti il
dominio angioino nell'isola ebbe termine con la rivolta
popolare dei Vespri Siciliani (marzo 1282) contro il
malgoverno di Carlo I, allorché, narra il Villani
(Cronaca VII, 61), il popolo di Palermo corse " ad
armarsi gridando: "Muoiano i Franceschi" ". Dante, pur
non legittimandola, non condanna la ribellione violenta
contro la autorità, quando questa opprime il popolo.
Inoltre egli non ebbe mai una parola di lode per gli
Angioini, da lui sempre accusati di avidità e di
ingiustizie. Cosi, pur salvando Carlo I (cfr. Purgatorio
VII, 113) forse per la sua liberalità, non cessò mai,
come in questo caso, di mettere in rilievo i molteplici
aspetti negativi della sua azione di governo. Mentre lo
sguardo di Carlo Martello dominava, nella gloria del
cielo di Venere, tutte le terre sulle quali avrebbe
dovuto regnare, la sua visione del mondo si incideva con
la chiarezza e la calma profonda di chi contempla le
cose ad una ad una, nella lontananza di una raggiunta
serenità. Ma quando egli prende in esame la situazione
della sua famiglia e dei suoi popoli, muta il tono della
voce e le sue parole si alzano per accusare e deplorare:
l'anima che si era presentata inebriata d'amore divino
(verso 38), partecipante della vita dei Principi celesti
(versi 34-35), emette un giudizio senza appello sulla
sorte della sua dinastia, dà sfogo al proprio sdegno con
accenti severi e solenni, assurge alla dignità dell'exemplum,
diventando simbolo del monarca ideale che incarna "
valore " e " cortesia", che si oppone alla mala segnoria,
che sempre accora li popoli suggetti 73-74). |
76 |
E se mio
frate questo antivedesse,
l'avara povertà di Catalogna
già fuggeria, perché non li offendesse; |
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76 |
E se mio fratello
prevedesse le conseguenze del malgoverno, già
allontanerebbe da se l’avida povertà dei Catalani,
perché non gli potessero nuocere; |
79 |
ché
veramente proveder bisogna
per lui, o per altrui, sì ch'a sua barca
carcata più d'incarco non si pogna. |
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79 |
poiché bisogna veramente
che da parte sua, o da parte altrui, si provveda
affinché il suo regno già gravato (dalla sua cupidigia)
non venga oppresso da nuovi pesi. |
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L'ammonimento di Carlo Martello, che si trasforma in
amara profezia (e se...), è rivolto al fratello Roberto,
che successe al padre Carlo II sul trono di Napoli nel
1309. L'avara povertà di Catalogna: Roberto d'Angiò, con
il fratello Lodovico, visse dal 1288 al 1295 in
Catalogna come ostaggio presso il re d'Aragona per
riscattare il padre Carlo II, che era stato sconfitto e
fatto prigioniero nella battaglia navale di Napoli del
giugno 1284 ( cfr. Purgatorio XX, 79 ) . Qui fece
amicizia con molti nobili e cavalieri catalani;
ritornato a Napoli, li condusse con se, assegnando loro
incarichi civili e militari (cfr. Villani - Cronaca VIII,
82; IX, 39; X, 17) nei quali essi mostrarono tutta la
loro ingorda cupidigia. |
82 |
La sua
natura, che di larga parca
discese, avria mestier di tal milizia
che non curasse di mettere in arca». |
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82 |
La sua indole, che derivo avara da
antenati liberali e generosi, avrebbe bisogno di
funzionari tali che non si preoccupassero soltanto di
riempire le loro borse”. |
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Non è possibile riferire la natura larga al padre di
Roberto, Carlo II d'Angiò, che Dante, attraverso
l'invettiva di Ugo Capeto, ha già accusato di avidità (cfr.
Purgatorio XX, 80-81 ); occorre quindi pensare agli
antichi rappresentanti della dinastia angioina. Dal
contrasto tra la nobiltà di un tempo e la corruzione del
presente il discorso acquisisce una forza ideale: la
visione di Carlo Martello non sembra più limitarsi ai
mali della sua famiglia, perché attraverso l'avara
povertà di Catalogna e la sua mala segnoria l'accusa si
rivolge alla degradazione morale-politica ( i due
termini in Dante sono sempre sinonimi) del tempo. |
85 |
«Però ch'i'
credo che l'alta letizia
che 'l tuo parlar m'infonde, segnor mio,
là 've ogne ben si termina e s'inizia, |
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85 |
“Poiché io credo che la
profonda gioia che mi danno le tue parole, o mio
signore, in Dio, principio e termine di ogni bene, |
88 |
per te si
veggia come la vegg' io,
grata m'è più; e anco quest' ho caro
perché 'l discerni rimirando in Dio. |
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88 |
tu la veda con la stessa
chiarezza con la quale io la sento in me, tale gioia mi
è più gradita; e mi è cara anche per un altro motivo,
perché tu la vedi guardando direttamente in Dio (cosi
come fanno tutti i beati). |
|
I versi 88-90 non possono essere considerati una
ripetizione di quanto è già stato affermato nei tre
precedenti, perché il Poeta, dopo essersi compiaciuto
che Carlo Martello veda la sua alta letizia in Dio con
la stessa chiarezza e completezza di chi prova quel
sentimento, si compiace che essa sia veduta proprio
attraverso Dio. |
91 |
Fatto m'hai
lieto, e così mi fa chiaro,
poi che, parlando, a dubitar m'hai mosso
com' esser può, di dolce seme, amaro». |
|
91 |
Mi hai reso felice, ma ora
chiarisci un mio dubbio, poiché, con le tue parole, mi
hai spinto a chiedermi in che modo da un seme dolce
possa derivare un frutto amaro (cioè: in che modo
possano discendere da una nobile stirpe rappresentanti
degeneri)". |
94 |
Questo io a
lui; ed elli a me: «S'io posso
mostrarti un vero, a quel che tu dimandi
terrai lo viso come tien lo dosso. |
|
94 |
Io gli dissi queste cose;
ed egli mi rispose: “ Se riuscirò a dimostrarti una
verità fondamentale, tu potrai volgere gli occhi
all’oggetto della tua domanda così come ora gli volgi le
spalle (cioè: capirai il problema del quale, per il
momento, non riesci a renderti conto). |
97 |
Lo ben che
tutto il regno che tu scandi
volge e contenta, fa esser virtute
sua provedenza in questi corpi grandi. |
|
97 |
Dio, il Bene che muove e rende lieti i
cieli attraverso i quali tu sali, fa si che la sua
provvidenza diventi, in questi grandi corpi celesti,
virtù (capace di influire sul mondo sottostante). |
|
I versi 97,111 possono essere considerati una breve
appendice alla teoria delle influenze celesti da Dante
svolta nel canto secondo del Paradiso. Data la premessa
(la provvidenza divina si trasforma nei cieli in virtù
operante), la conclusione è evidente: gli effetti
prodotti dai corpi celesti con le loro influenze sono
voluti e guidati da Dio, e tendono ad un fine giusto e
razionale, stabilito ab esterno dalla volontà divina. Da
questa conclusione Carlo Martello dedurrà una verità
particolare: il fine dell'uomo, fissato da Dio, è la
convivenza sociale (versi 115-116) . Alcune battute di
questo dialogo fra l'anima beata e il Poeta
"tenderebbero a dar movimento scenico alla dissertazione
dottrinale", ma lo schematismo delle domande e delle
risposte "non trasforma, come avviene di solito in
questa cantica, il freddo raziocinare in dramma
dell'intelletto, cui partecipa il sentimento" (Pézard). |
100 |
E non pur le
nature provedute
sono in la mente ch'è da sé perfetta,
ma esse insieme con la lor salute: |
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100 |
Nella mente
divina, di per se perfetta, non solo si provvede
all’esistenza delle molteplici nature terrene, ma anche
a quanto è loro utile: |
103 |
per che
quantunque quest' arco saetta
disposto cade a proveduto fine,
sì come cosa in suo segno diretta. |
|
103 |
per tale motivo tutto ciò
che è generato dall’influenza dei cieli è disposto
secondo un fine prestabilito da Dio, come una freccia
lanciata verso il suo bersaglio. |
106 |
Se ciò non
fosse, il ciel che tu cammine
producerebbe sì li suoi effetti,
che non sarebbero arti, ma ruine; |
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106 |
Se così non fosse, i cieli
che tu attraversi produrrebbero effetti tali, che non
sarebbero opere ordinate e razionali, ma disordine e
distruzione; |
109 |
e ciò esser
non può, se li 'ntelletti
che muovon queste stelle non son manchi,
e manco il primo, che non li ha perfetti. |
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109 |
tuttavia ciò e
impossibile, se le intelligenze motrici di questi cieli
non sono difettose, e se non è difettoso il primo
intelletto (Dio), che, in questo caso, non le avrebbe
create perfette. |
112 |
Vuo' tu che
questo ver più ti s'imbianchi?».
E io: «Non già; ché impossibil veggio
che la natura, in quel ch'è uopo, stanchi». |
|
112 |
Vuoi che ti illumini
maggiormente questa verità che ti ho enunciata?” Ed io:
“No certamente, perché so che è impossibile che la
natura venga meno al fine che si è prefissa”. |
115 |
Ond' elli
ancora: «Or dì: sarebbe il peggio
per l'omo in terra, se non fosse cive?».
«Sì», rispuos' io; «e qui ragion non cheggio». |
|
115 |
Perciò egli rispose: “Ora
dimmi: sarebbe peggio per l’uomo sulla terra, se non
vivesse in convivenza con gli altri? “Sì” risposi, “e di
questa verità non chiedo dimostrazione”. |
118 |
«E puot'
elli esser, se giù non si vive
diversamente per diversi offici?
Non, se 'l maestro vostro ben vi scrive». |
|
118 |
“E potrebbe l’uomo essere
cittadino (cioè far parte di un’organizzazione civile),
se ciascuno nel mondo non vivesse in condizione diversa
(rispetto a quella degli altri ), esercitando funzioni
diverse? No certo, se Aristotile, il vostro maestro, vi
insegna esattamente.” |
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Aristotile, "maestro de l'umana ragione" (Convivio IV,
II, 16) e "dignissimo di fede e d'obedienza" (Convivio
IV, VI, 5 ), afferma in molti passi delle sue opere che
l'uomo è creato non per vivere isolatamente, ma per fare
parte di un consorzio civile, nel quale occorre, quindi,
non solo una differenziazione di attitudini naturali, ma
anche una differenziazione di compiti e uffici. Tale
posizione di Aristotile, fatta propria da tutta la
Scolastica, ritorna frequentemente in Dante (Convivio IV,IV,
1-2; IV, XXVII, 3; Monarchia I, V; II, VI). |
121 |
Sì venne
deducendo infino a quici;
poscia conchiuse: «Dunque esser diverse
convien di vostri effetti le radici: |
|
121 |
Cosi venne svolgendo le
sue deduzioni fino a questo punto poi concluse: “ Dunque
(se gli uomini devono assumersi compiti differenti) è
necessario che ( in ciascuno di voi) siano diverse le
attitudini dalle quali siete indotti a compiere uffici
diversi: |
124 |
per ch'un
nasce Solone e altro Serse,
altro Melchisedèch e altro quello
che, volando per l'aere, il figlio perse. |
|
124 |
per la qual cosa uno nasce
(con l’attitudine del legislatore, come) Solone, e un
altro (con quella del condottiero, come) Serse, uno (con
la vocazione del sacerdote, come) Melchisedech e un
altro (con quella dell’arte, come) Dedalo, l’artefice
che, volando nell’aria, perse il figlio. |
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Solone fu un famoso legislatore ateniese (c. 638 - c.
558 a. C.); Serse, figlio di Dario re dei Persiani, nel
V secolo a. C. guerreggiò a lungo con i Greci;
Melchisedech, re di Salem, fu il sacerdote che benedisse
Abramo (Genesi XIV, 18 sgg.); Dedalo (ritenuto nel
Medioevo il più grande artista dell'antichità) fu
rinchiuso da Minosse, re di Creta, nel labirinto; da li
fuggi dopo aver costruito ali di cera per se e per il
figlio Icaro. Ma quest'ultiimo si avvicinò troppo al
sole: le ali di cera si sciolsero e il giovinetto
precipitò in mare (cfr. Inferno XVII, 109-lll). |
127 |
La circular
natura, ch'è suggello
a la cera mortal, fa ben sua arte,
ma non distingue l'un da l'altro ostello. |
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127 |
Con il loro movimento
circolare i cieli, che imprimono nelle creature il
suggello della loro influenza, svolgono saggiamente la
loro opera (distribuendo fra gli uomini attitudini
diverse), ma (nel fare ciò) non distinguono tra casa e
casa, tra famiglia e famiglia. |
130 |
Quinci
addivien ch'Esaù si diparte
per seme da Iacòb; e vien Quirino
da sì vil padre, che si rende a Marte. |
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130 |
Di qui accade che Esaù si
differenzia da Giacobbe già al momento del concepimento,
e che Romolo discende da un padre di così umile
condizione, che se ne attribuisce la paternità a Marte. |
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Esaù e Giacobbe, per quanto gemelli, furono molto
diversi fra di loro, perché l'uno fu di indole
bellicosa, l'altro di carattere mite. I Romani, per
nobilitare la nascita di Romolo, il cui padre era
ignoto, diffusero la credenza che egli fosse stato
generato dal dio Marte. |
133 |
Natura
generata il suo cammino
simil farebbe sempre a' generanti,
se non vincesse il proveder divino. |
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133 |
La natura dei figli
sarebbe sempre simile a quella dei padri, se la
provvidenza divina (per mezzo delle influenze celesti)
non vincesse (la naturale tendenza per cui il figlio
assomiglia al padre). |
136 |
Or quel che
t'era dietro t'è davanti:
ma perché sappi che di te mi giova,
un corollario voglio che t'ammanti. |
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136 |
Ora la verità che tu non
vedevi ti è davanti agli occhi: ma affinché sappia che
mi è dolce intrattenermi con te, voglio aggiungerti un
corollario. |
139 |
Sempre
natura, se fortuna trova
discorde a sé, com' ogne altra semente
fuor di sua regïon, fa mala prova. |
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139 |
Sempre la disposizione
naturale, se trova discordanti da se le condizioni
esterne, fa cattiva prova, come ogni seme che venga
gettato in un terreno non adatto. |
142 |
E se 'l
mondo là giù ponesse mente
al fondamento che natura pone,
seguendo lui, avria buona la gente. |
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142 |
E se il mondo laggiù
tenesse conto delle inclinazioni poste dalla natura in
ciascuno e le seguisse, avrebbe sempre gente valente
(adatta, cioè, ad eseguire i compiti affidati dalle
influenze celesti). |
145 |
Ma voi
torcete a la religïone
tal che fia nato a cignersi la spada,
e fate re di tal ch'è da sermone; |
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145 |
Ma voi costringete alla
vita religiosa chi è nato per la vita militare, ed
eleggete re chi è adatto a far prediche: |
148 |
onde la
traccia vostra è fuor di strada». |
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148 |
per questo il vostro
cammino è fuori della retta via”. |
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Fate re di tal ch'e da sermone:
tutti i commentatori antichi sono concordi nel ritenere
questo verso un'allusione da parte di Carlo Martello al
fratello Roberto diventato re di Napoli nel 1309. Egli
diede cattiva prova in campo politico, ma divenne
famoso, al suo tempo, per cultura letteraria e
teologica. |
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