1 |
Da poi che
Carlo tuo, bella Clemenza,
m'ebbe chiarito, mi narrò li 'nganni
che ricever dovea la sua semenza; |
|
1 |
O bella Clemenza, dopo che il tuo Carlo
mi ebbe chiarito (il dubbio manifestatogli), mi predisse
le ingiustizie che avrebbero subito i suoi figli; |
|
Clemenza potrebbe essere la figlia di Carlo Martello,
che sposo nel 1315 Luigi X di Francia e mori nel 1328,
oppure la moglie, Clemenza d'Asburgo, morta nel 1295
subito dopo il marito. I più ritengono che Dante qui si
rivolga alla figlia, che nel 1300 era ancora viva.
Tuttavia, tenendo presente che l'espressione Carlo tuo è
" appellativo essenzialmente coniugale" (Del Lungo) e
che la moglie, non la figlia, " ebbe comuni col suo
Carlo i danni recati loro", è più verosimile che il
Poeta intenda riferirsi alla giovane sposa del principe
angioino. Li 'nganni che ricever dovea la sua semenza:
Roberto d'Angiò nel 1309, con l'appoggio di Bonifacio
VIII e di Clemente V, usurpò il regno di Napoli a Carlo
Roberto, figlio di Carlo Martello. Contro Roberto Dante
ebbe particolari motivi di risentimento, perché questi
osteggio l'impresa di Arrigo VII in Italia e sostenne il
partito dei Neri a Firenze. Proprio mentre egli era
vicario in Toscana, nel novembre 1315 fu riconfermato il
bando con il quale Dante era stato esiliato nel 1302. |
4 |
ma disse:
«Taci e lascia muover li anni»;
sì ch'io non posso dir se non che pianto
giusto verrà di retro ai vostri danni. |
|
4 |
ma soggiunse: “Taci, e lascia che
passino gli anni”; così che io non posso dire se non che
ai torti da voi subiti seguirà un giusto castigo. |
|
Pianto giusto verrà di retro ai
vostri danni: la profezia è volutamente
generica, perché al Poeta interessa far pronunciare a
Carlo Martello la condanna della sua stirpe, più che
specificare determinate circostanze storiche. Tuttavia
già Pietro di Dante vedeva in questa profezia un accenno
alla battaglia di Montecatini (1315 ), dove i Guelfi
sostenuti dagli Angioini furono sconfitti e dove
morirono un fratello e un nipote di Roberto. |
7 |
E già la
vita di quel lume santo
rivolta s'era al Sol che la rïempie
come quel ben ch'a ogne cosa è tanto. |
|
7 |
E già l’anima di quella
santa luce si era rivolta a Dio che la appaga
pienamente, poiché Dio è il bene capace di soddisfare
ogni desiderio. |
10 |
Ahi anime
ingannate e fatture empie,
che da sì fatto ben torcete i cuori,
drizzando in vanità le vostre tempie! |
|
10 |
Ahi anime ingannate (dai
beni mondani) e creature empie, che distogliete i vostri
cuori da un bene siffatto, rivolgendo le vostre menti a
cose vane! |
13 |
Ed ecco un
altro di quelli splendori
ver' me si fece, e 'l suo voler piacermi
significava nel chiarir di fori. |
|
13 |
Ed ecco un’altra di quelle anime luminose si avvicinò a
me, manifestando il desiderio di compiacermi col
diventare più luminosa esternamente, |
16 |
Li occhi di
Bëatrice, ch'eran fermi
sovra me, come pria, di caro assenso
al mio disio certificato fermi. |
|
16 |
Gli occhi di Beatrice, che
erano fissi sopra di me, come già prima, mi fecero certo
del suo gradito consenso al mio desiderio (di parlare). |
19 |
«Deh, metti
al mio voler tosto compenso,
beato spirto», dissi, «e fammi prova
ch'i' possa in te refletter quel ch'io penso!». |
|
19 |
Dissi: “Deh,
spirito beato, soddisfa subito il mio desiderio, e dammi
la prova che io posso riflettere in te (come in uno
specchio) il mio intimo pensiero (senza esprimerlo)!” |
22 |
Onde la luce
che m'era ancor nova,
del suo profondo, ond' ella pria cantava,
seguette come a cui di ben far giova: |
|
22 |
Perciò quella luce che m’era ancora
sconosciuta, dall’interno del suo splendore, da dove
prima traeva la voce per cantare, continuò con lo stesso
atteggiamento di colui al quale piace fare del bene
(agli altri): |
|
La seconda anima del cielo di Venere che appare a Dante
e quella di Cunizza, nata da Ezzelino Il da Romano e da
Adelaide degli Alberti di Mangona verso il 1198. Sposò
nel 1222 Riccardo di San Bonifazio, signore di Verona,
ma poco dopo fuggi con il trovatore Sordello da Goito,
con il quale convisse alcuni anni. In seguito si unì in
matrimonio ancora due volte e scandalizzò i
contemporanei con la sua condotta immorale, tanto che
tutti i cronisti del tempo sono concordi nel ricordare i
suoi costumi dissoluti. Dopo il crollo della potenza
della sua famiglia (1260), Cunizza si ritirò a Firenze,
dove condusse una vita di penitenza e di carità, morendo
dopo il 1279. Dante salva dunque una donna che era
diventata famosa per la sregolatezza dei suoi costumi.
Tuttavia non circonda la figura di Cunizza di quella
stima e di quella simpatia che gli hanno dettato accenti
particolarmente commossi di fronte a Francesca, a Pia, a
Piccarda. Il Porena, dopo aver affermato che il Poeta
"non fa certo di Cunizza una figura che dal lettore si
faccia amare ed ammirare", osserva che in lei manca una
vera ricchezza interiore. La sua conversione è
sottintesa, non dà luogo ad una rappresentazione
concreta; la dichiarazione d'indulgenza verso i suoi
peccati (versi 34-36) dovrebbe essere un elemento di
trascendenza paradisiaca, ma "per essere apprezzata come
tale bisognerebbe che Cunizza mostrasse una simile
trascendenza in tutti i suoi discorsi, che considerasse
le cose umane da un punto di vista in tutto più che
umano", mentre, a proposito di Folchetto da Marsiglia,
mostra di apprezzare la gloria terrena e nel biasimare i
suoi concittadini e predire loro le future punizioni
"più che alto e accorato sdegno ella ha una specie di
canzonatoria ironia e quasi un maligno gusto". Tuttavia
le ultime affermazioni del Porena sono viziate da
eccessiva severità, mentre d'altra parte appaiono troppo
indulgenti quei critici che vedono in Cunizza
soprattutto la donna pronta a confessare la sua
femminile fragilità nell'arrendevolezza agli influssi di
Venere. In realtà l'intonazione fondamentale
dell'episodio che ha per protagonista Cunizza è il
profondo sdegno morale di fronte alla degenerazione dei
suoi concittadini, l'amarezza (uguale a quella di un
Guido del Duca o di un Marco Lombardo) che nasce dal
costatare come gli uomini non sappiano volgere verso il
bene le loro inclinazioni naturali. In questa
intonazione morale è da cercare il motivo ispiratore
dell'apparizione di Cunizza. Non un sentimento di
particolare ammirazione ha spinto Dante a scegliere
questa nobildonna trevigiana, ma una ragione di
opportunità: egli vuole fare di Cunizza il portavoce
della propria condanna nei confronti della Marca
Trivigiana e, più in generale, di tutto il Veneto (cfr.
nota alla terzina 46 ), poiché la condanna pronunciata
da un'anima beata, le cui parole rispecchiano il
pensiero di Dio (cfr. versi 61-63), acquista il valore
di un giudizio insindacabile. |
25 |
«In quella
parte de la terra prava
italica che siede tra Rïalto
e le fontane di Brenta e di Piava, |
|
25 |
“In quella parte della corrotta terra
italica situata tra l’isola di Rialto e le sorgenti del
Brenta e del Piave, |
|
La Marca Trivigiana è indicata per mezzo dei suoi
confini: a sud Venezia (Rialto è una delle isole
principali su cui sorge la città), a nord le Alpi del
Trentino e del Cadore, dalle quali scendono i fiumi
Brenta e Piave. Il colle al quale Dante fa riferimento
nel verso 28 è quello di Romano (presso l'attuale
Bassano del Grappa), dove sorgeva il castello degli
Ezzelini. Lì nacque Ezzelino III; che tiranneggiò a
lungo non solo la Marca Trivigiana. ma anche il Veneto,
giungendo fino a Trento e a Mantova. Pietro di Dante
spiega l'espressione facella riferendo una leggenda
diffusa in quel tempo: prima che Ezzelino nascesse la
madre sogno di partorire una fiamma che incendiava tutta
la regione. |
28 |
si leva un
colle, e non surge molt' alto,
là onde scese già una facella
che fece a la contrada un grande assalto. |
|
28 |
sorge, ma non è molto
alto, un colle, dal quale un tempo scese una fiamma di
guerra che causò gravi danni alla regione. |
31 |
D'una radice
nacqui e io ed ella:
Cunizza fui chiamata, e qui refulgo
perché mi vinse il lume d'esta stella; |
|
31 |
Io ed Ezzelino nascemmo
dagli stessi genitori: fui chiamata Cunizza, e risplendo
nella sfera di Venere perché (in vita) fui dominata
dall’influsso di questo pianeta; |
34 |
ma
lietamente a me medesma indulgo
la cagion di mia sorte, e non mi noia;
che parria forse forte al vostro vulgo. |
|
34 |
ma ora con gioia perdono a me stessa
l’inclinazione amorosa che mi ha fatto assegnare a
questo cielo, e non me ne affliggo; il che ai comuni
mortali sembrerà forse arduo a comprendersi. |
|
Nelle parole di Cunizza, come più tardi in quelle di
Folchetto (versi 95-105), non c'è condanna per le
passioni e i peccati della vita terrena, perché le anime
beate costatano ora come dal male possa sempre nascere
il bene e come la grazia divina possa volgere alla virtù
quelle inclinazioni naturali che erano state
precedentemente causa di peccato. |
37 |
Di questa
luculenta e cara gioia
del nostro cielo che più m'è propinqua,
grande fama rimase; e pria che moia, |
|
37 |
(Sulla terra) è rimasta
grande fama di questo spirito che più degli altri mi è
vicino, e che rappresenta una luminosa e preziosa perla
del nostro cielo e prima che la sua fama si spenga, |
40 |
questo
centesimo anno ancor s'incinqua:
vedi se far si dee l'omo eccellente,
sì ch'altra vita la prima relinqua. |
|
40 |
questo centesimo anno (
che chiude il secolo) si ripeterà ancora per cinque
volte; vedi dunque che l’uomo deve cercare di diventare
famoso (per opere virtuose), in modo che la vita mortale
lasci dietro di se un’altra vita (quella della buona
fama). |
|
Canizza addita lo spirito di Folchetto d i Marsiglia,
che sarà protagonista della seconda parte del canto IX.
Questo centesimo anno ancor s'incinqua: "ritornerà
l'anno ultimo di cento cinque volte" spiega il Buti,
ricordando che Dante immagina di compiere il suo viaggio
oltremondano nel 1300. |
43 |
E ciò non
pensa la turba presente
che Tagliamento e Adice richiude,
né per esser battuta ancor si pente; |
|
43 |
E a questa conquista della
giusta gloria non pensa la turba che vive oggi nel
territorio compreso tra il Tagliamento e l’Adige e
neppure si pente per quanto colpita da castighi; |
46 |
ma tosto fia
che Padova al palude
cangerà l'acqua che Vincenza bagna,
per essere al dover le genti crude; |
|
46 |
ma presto accadrà che i
Padovani faranno cambiare (col loro sangue) il colore
all’acqua delle paludi formate dal Bacchiglione che
bagna Vicenza, essendo gente restia a compiere il loro
dovere (verso l’Impero). |
|
Non solo la Marca Trivigiana, ma tutto il Veneto subirà
tra poco la giusta punizione per la sua ostinata
resistenza prima di fronte all'imperatore Arrigo VII,
sceso in Italia per ridurre all'obbedienza le città
guelfe, e poi di fronte al suo vicario, Cangrande della
Scala. Infatti nell'autunno del 1314 i Padovani, guelfi,
subirono una sanguinosa sconfitta ad opera dei
Vicentini, ghibellini, aiutati da Cangrande. La
battaglia avvenne presso le paludi che il Bacchiglione
forma vicino a Vicenza. |
49 |
e dove Sile
e Cagnan s'accompagna,
tal signoreggia e va con la testa alta,
che già per lui carpir si fa la ragna. |
|
49 |
E a Treviso, dove si congiungono le
acque del Sile e del Cagnano, Rizzardo da Camino
tiranneggia e procede superbo, mentre già si sta
apprestando la rete per farlo cadere. |
|
Rizzardo da Camino divenne signore di Treviso nel 1306.
La sua crudele tirannide e le sue simpatie per il
partito ghibellino fomentarono una congiura di nobili
guelfi, che lo fecero assassinare nel 1312. |
52 |
Piangerà
Feltro ancora la difalta
de l'empio suo pastor, che sarà sconcia
sì, che per simil non s'entrò in malta. |
|
52 |
Anche Feltre piangerà per la colpa del
suo empio vescovo, la quale sarà così turpe, che mai per
un delitto simile alcun condannato entrò in Malta. |
|
Il trevisano Alessandro Novello, Vescovo di Feltre, nel
1314 consegnò quattro fuorusciti ghibellini di Ferrara,
che si erano rifugiati presso di lui, a Pino della Tosa,
governatore di Ferrara per conto di Roberto d'Angiò,
vicario della Chiesa. Il della Tosa li fece poi
decapitare. Non s'entrò in Malta: nell'isola Bisentina
del lago di Bolsena sorgeva la torre di Malta, "nella
quale lo papa metteva li chierici dannati senza
remissione...; e quanti vi se ne mettevano mai non
n'uscivano" ( Buti ) . I commentatori antichi ricordano,
tuttavia, che prigioni di questo nome esistevano anche a
Viterbo e a Cittadella, non lontano da Romano (
quest'ultima prigione fu fatta costruire proprio da
Ezzelino III). Il termine Malta era usato anche come
nome comune, per indicare una prigione oscura e umida,
perché il significato primitivo di questa parola era
quello di " fango ". |
55 |
Troppo
sarebbe larga la bigoncia
che ricevesse il sangue ferrarese,
e stanco chi 'l pesasse a oncia a oncia, |
|
55 |
Troppo grande dovrebbe
essere la bigoncia per contenere il sangue dei
Ferraresi, e si stancherebbe chi volesse pesarlo a oncia
a oncia, |
58 |
che donerà
questo prete cortese
per mostrarsi di parte; e cotai doni
conformi fieno al viver del paese. |
|
58 |
sangue che questo prete
generoso (verso i Guelfi) donerà per mostrarsi fedele al
suo partito; e simili doni saranno conformi al costume
diffuso in questa regione. |
61 |
Sù sono
specchi, voi dicete Troni,
onde refulge a noi Dio giudicante;
sì che questi parlar ne paion buoni». |
|
61 |
Lassù (nell’Empireo) ci
sono intelligenze angeliche che voi chiamate Troni,
dalle quali come da specchi è riflessa su di noi la luce
della giustizia divina: sì che questi discorsi (pur
nella loro durezza) ci appaiono giusti (perché ispirati
da Dio stesso).” |
64 |
Qui si
tacette; e fecemi sembiante
che fosse ad altro volta, per la rota
in che si mise com' era davante. |
|
64 |
Qui Cunizza tacque; e mi
mostrò d’aver rivolto la sua attenzione ad altro, per il
fatto di essere ritornata alla danza circolare come
faceva prima di parlarmi. |
67 |
L'altra
letizia, che m'era già nota
per cara cosa, mi si fece in vista
qual fin balasso in che lo sol percuota. |
|
67 |
L’altro spirito gioioso,
che mi era già noto come una perla preziosa, si offerse
alla mia vista come un fine rubino balascio in cui il
sole rifletta i suoi raggi. |
|
Il balasso (balascio) era il nome di un rubino che
abbondava particolarmente nella regione di Balascam, in
Asia. |
70 |
Per letiziar
là sù fulgor s'acquista,
sì come riso qui; ma giù s'abbuia
l'ombra di fuor, come la mente è trista. |
|
70 |
Nel paradiso per
manifestare la letizia si accresce lo splendore, come in
terra si accresce il sorriso; ma in terra (poiché non
c’è sempre gioia, ma anche dolore) l’immagine esteriore
si rabbuia, in proporzione alla tristezza dell’animo. |
73 |
«Dio vede
tutto, e tuo veder s'inluia»,
diss' io, «beato spirto, sì che nulla
voglia di sé a te puot' esser fuia. |
|
73 |
Io dissi: “O spirito
beato, Dio vede ogni cosa, e la tua conoscenza penetra
in lui, in modo che nessun desiderio può rimanere
nascosto a te. |
76 |
Dunque la
voce tua, che 'l ciel trastulla
sempre col canto di quei fuochi pii
che di sei ali facen la coculla, |
|
76 |
Dunque la tua voce, che
sempre rallegra il cielo insieme al canto dei Serafini,
gli angeli che s’ammantano di sei ali. |
|
Fuochi pii: infatti
i Serafini, nella gerarchia angelica, rappresentano
l'amore (secondo l'etimologia ebraica, il termine
serafino significa " ardente "; Cfr. Paradiso XI, 37).
Essi, secondo la visione di Isaia (VI, 2), sono sempre
rappresentati con sei ali, che li avvolgono come in un
saio monacale ( coculla: tonaca). |
79 |
perché non
satisface a' miei disii?
Già non attendere' io tua dimanda,
s'io m'intuassi, come tu t'inmii». |
|
79 |
perché non soddisfa i miei
desideri (con una risposta)? Se io mi immedesimassi nei
tuoi pensieri, come tu ti immedesimi nei miei, già non
attenderei la tua domanda”. |
82 |
«La maggior
valle in che l'acqua si spanda»,
incominciaro allor le sue parole,
«fuor di quel mar che la terra inghirlanda, |
|
82 |
Allora così incominciarono
le sue parole: “Il Mare Mediterraneo, il bacino più
grande in cui si riversi l’acqua dell’oceano che
circonda la terra emersa, tra le sponde opposte
(d’Europa e di Africa), |
85 |
tra '
discordanti liti contra 'l sole
tanto sen va, che fa meridïano
là dove l'orizzonte pria far suole. |
|
85 |
tanto si distende da
occidente verso oriente, che (all’estremità orientale: a
Gerusalemme) fa da meridiano là dove prima
(all’estremità occidentale: alle colonne di Ercole) si
suole vedere come orizzonte. |
|
Folco indica la sua città d'origine attraverso una
complessa designazione geografico-astronomica, che
introduce allo stile elaborato e concettuoso della prima
parte del suo discorso, una magistrale
auto-presentazione distribuita in nove terzine ( quattro
per indicare la sua patria, quattro per la storia della
sua anima, dagli eccessi amorosi alla redenzione finale,
una sola, quella centrale, per rivelare il proprio nome
) . Senza dubbio Dante intende qui richiamare i modi
poetici e la raffinata cultura di Folco, ricostruendo,
con questi mezzi, le caratteristiche specifiche del
personaggio storico. Tuttavia simili costruzioni
artificiose non sono mai perseguite da Dante come fini a
se stesse. Esiste dunque una ragione più profonda che
spinge il Poeta a conferire un particolare risalto alla
figura di questo trovatore e solo la parte finale del
canto permette di precisarla: a Folco toccherà il
compito di porre sotto accusa quella che Dante considera
la causa del traviamento del mondo, la avidità di
guadagno, il maledetto fiore c'ha disviate le pecore e
li agni. A poco a poco il suo discorso perderà ogni
ornato letterario, acquisterà sempre di più il calore
conferitogli dal sentimento, e mentre la figura
dell'elegante poeta di un tempo cederà il posto a quella
dell'inflessibile vescovo persecutore degli eretici, le
sue parole assumeranno le maestose cadenze profetiche
che Dante sa trovare allorché il suo animo si ribella di
fronte al male del mondo. Seguendo la geografia del
tempo, il Poeta spiega che il Mediterraneo è la più
grande fra le depressioni dei mari circondati
dall'Oceano (quest'ultimo, secondo la credenza
medievale, chiudeva in un cerchio tutte le terre emerse
). Secondo le rappresentazioni cartografiche del
Medioevo esso si estende per 90 gradi di longitudine (in
realtà la sua estensione è di soli 42 gradi), cosicché
il cerchio celeste che per Gerusalemme è meridiano, per
lo stretto di Gibilterra ( all'estremità opposta ) è
orizzonte. |
88 |
Di quella
valle fu' io litorano
tra Ebro e Macra, che per cammin corto
parte lo Genovese dal Toscano. |
|
88 |
Io vissi sulla riva di
quel mare compreso tra le foci dell’Ebro (in Spagna) e
quelle della Magra, che per un breve tratto fa da
confine tra la Liguria e la Toscana. |
91 |
Ad un occaso
quasi e ad un orto
Buggea siede e la terra ond' io fui,
che fé del sangue suo già caldo il porto. |
|
91 |
Avendo quasi in comune il
tramonto e il sorgere del sole giacciono (sullo stesso
meridiano) Bugia e la città dove sono nato Marsiglia, la
quale un tempo riscaldò le acque del suo mare con il
sangue dei propri cittadini. |
|
Folco specifica ora che la sua città. Marsiglia, e Bùgia
(sulla costa algerina) si trovano quasi sullo stesso
meridiano, poiché per entrambe il sole nasce e tramonta
quasi nel medesimo istante. In realtà fra le due città
c'e non solo una differenza di longitudine. ma anche di
latitudine. Fe del sangue suo già caldo il porto:
durante la guerra civile, Bruto, per ordine di Cesare,
espugno la città di Marsiglia e ne trucidò gli abitanti.
Lo spunto per il verso 93 è offerto da Lucano il quale,
nella Farsaglia ( III, 572-573), ricorda che in quell'occasione
il mare intorno a Marsiglia rosseggiò e si gonfiò per il
sangue versato. |
94 |
Folco mi
disse quella gente a cui
fu noto il nome mio; e questo cielo
di me s'imprenta, com' io fe' di lui; |
|
94 |
Quella gente alla quale fu
noto il mio nome mi chiamo Folco, e il cielo di Venere è
ora segnato dalla mia luce, come io sulla terra fui
segnato dal suo influsso amoroso. |
97 |
ché più non
arse la figlia di Belo,
noiando e a Sicheo e a Creusa,
di me, infin che si convenne al pelo; |
|
97 |
poiché Didone,
la figlia di Belo, non arse di maggior passione (verso
Enea), recando oltraggio a Sicheo e a Creusa, di quanto
non ardessi io, finché si convenne alla mia età
giovanile; |
|
Folco riconosce che durante la giovinezza il suo ardore
amoroso fu pari a quello di Didone, che si innamorò di
Enea, offendendo la memoria del marito Sicheo e di
Creusa, moglie di Enea, entrambi morti (Virgilio-Eneide
IV, 552; cfr. anche Inferno V, 61-62) |
100 |
né quella
Rodopëa che delusa
fu da Demofoonte, né Alcide
quando Iole nel core ebbe rinchiusa. |
|
100 |
né più di me arse di passione la
rodopea Fillide che fu abbandonata da Demofoonte, né
Ercole quando il suo cuore fu preso da amore per Iole. |
|
Fillide, figlia di Sitone re della Tracia, la quale
abitava presso il monte Rodope, si uccise per amore di
Demofoonte, figlio di Teseo e di Fedra, il quale non era
ritornato da Atene nel tempo stabilito per le nozze
(Ovidio, Eroidi II ) . Ercole, discendente di Alceo, si
innamora di Iole, figlia di Eurito re della Tessaglia,
suscitando la gelosia della moglie Deianira. Questa
causò involontariamente la morte del marito nel
tentativo di riconquistarlo con la tunica intrisa del
sangue del centauro Nesso (Ovidio, Eroidi IX; cir. anche
Inferno Xll, 67-69). |
103 |
Non però qui
si pente, ma si ride,
non de la colpa, ch'a mente non torna,
ma del valor ch'ordinò e provide. |
|
103 |
In paradiso non proviamo
pentimento per queste cose, ma si gioisce, non per la
colpa commessa, che non torna più in mente, bensì per la
virtù divina che ha disposto (l’influsso di questo cielo
su di noi) e ha provveduto (alla nostra salvezza
eterna). |
106 |
Qui si
rimira ne l'arte ch'addorna
cotanto affetto, e discernesi 'l bene
per che 'l mondo di sù quel di giù torna. |
|
106 |
Qui si contempla l’arte
divina che produce opere così mirabili, e si comprende
chiaramente il fine benefico per cui i cieli modellano
la terra con i loro influssi. |
109 |
Ma perché
tutte le tue voglie piene
ten porti che son nate in questa spera,
proceder ancor oltre mi convene. |
|
109 |
Ma affinché tutti i
desideri che sono sorti in te in questo cielo siano
interamente appagati, devo procedere ancora oltre (col
mio discorso). |
112 |
Tu vuo'
saper chi è in questa lumera
che qui appresso me così scintilla
come raggio di sole in acqua mera. |
|
112 |
Tu desideri sapere chi è
lo spirito nascosto in questa luce che qui accanto a me
risplende con lo stesso scintillio di un raggio di sole
in uno specchio d’acqua pura. |
115 |
Or sappi che
là entro si tranquilla
Raab; e a nostr' ordine congiunta,
di lei nel sommo grado si sigilla. |
|
115 |
Ora sappi che là dentro
gode la sua pace eterna Raab; e poiché ella è unita alla
nostra schiera di spiriti amanti, questa schiera riceve
in sommo grado l’impronta della sua luce. |
|
Raab è la meretrice di Gerico che, con suo grande
pericolo, accolse e nascose nella propria casa gli
esploratori inviati da Giosué, favorendo la conquista
della città e la vittoria del popolo eletto (Giosué II,
1-24; VI, 17-25). La sua salvezza. in virtù di questo
gesto, è affermata nella lettera di San Paolo agli Ebrei
(XI, 31) e nella lettera di San Giacomo (II, 25). La
figura di Raab, nel cielo di Venere, è la più luminosa,
come ben si addice a colei che giunse per prima nella
terza sfera, allorché Cristo, con la sua morte (che è un
trionfo sul peccato e sull'inferno) aperse le porte del
limbo (versi 118-123). |
118 |
Da questo
cielo, in cui l'ombra s'appunta
che 'l vostro mondo face, pria ch'altr' alma
del trïunfo di Cristo fu assunta. |
|
118 |
Raab fu accolta dal cielo di Venere, in
cui termina il cono d’ombra proiettato dalla terra,
prima di qualsiasi altra anima redenta dal trionfo di
Cristo. |
|
In cui l'ombra s'appunta che 'l
vostro mondo face: secondo la teoria
astronomica di Alfragano, la terra proietta nello spazio
un cono d'ombra che termina nel cielo di Venere. Questo
fatto spinse Dante a distribuire nei primi tre cieli le
anime beate che avvertirono più di tutte le altre le
debolezze terrene. |
121 |
Ben si
convenne lei lasciar per palma
in alcun cielo de l'alta vittoria
che s'acquistò con l'una e l'altra palma, |
|
121 |
Ben fu giusto che Cristo
la accogliesse in uno di questi cieli come segno della
grande vittoria (sull’inferno) che Egli consegui con la
sua crocifissione, |
124 |
perch' ella
favorò la prima gloria
di Iosüè in su la Terra Santa,
che poco tocca al papa la memoria. |
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124 |
perché ella favorì la
prima delle imprese gloriose di Giosuè nella Terrasanta,
la quale poco torna alla memoria del pontefice. |
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La visione della Terrasanta in mano agli infedeli mentre
il mondo cristiano e, primo fra tutti, il pontefice del
momento, Bonifacio VIII, se ne disinteressano, dà
l'avvio al tema dal quale la figura dello zelante
vescovo di Tolosa riceve la sua precipua fisionomia: una
vigorosa e amara protesta di fronte al dilagare del
male, illuminata alla fine da un improvviso lampo di
fiduciosa speranza (versi 139-142). |
127 |
La tua
città, che di colui è pianta
che pria volse le spalle al suo fattore
e di cui è la 'nvidia tanto pianta, |
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127 |
Firenze, la tua città
natale, che (per i suoi vizi) è pianta nata dal seme di
Lucifero, colui che per primo si ribellò al suo Creatore
e la cui invidia (verso il genere umano), |
130 |
produce e
spande il maladetto fiore
c'ha disvïate le pecore e li agni,
però che fatto ha lupo del pastore. |
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130 |
fu causa di tanto pianto
(perché per invidia Lucifero indusse i progenitori al
peccato), conia e diffonde il maledetto fiorino che ha
messo fuori strada il gregge dei cristiani, poiché ha
trasformato i pastori in lupi. |
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Firenze, che Dante fa balenare attraverso i cupi toni di
un linguaggio che ricorda quello di Ciacco (Inferno VI,
49 sgg.), coniò per prima la moneta d'oro e diffuse in
tutto il mondo il maledetto fiorino (che portava
impresso il giglio fiorentino su una delle due facce).
La sua città, già trista selva (Purgatorio XIV, 64 ) ed
ora sferzata come pianta di Satana, è dunque all'origine
del traviamento del mondo, che davanti alla sfolgorante
e vagheggiata immagine del fiore d'oro, dimentica la via
del bene e del dovere. La voce del Poeta colpisce
soprattutto la corruzione ecclesiastica, l'interesse, da
parte degli uomini di Chiesa, volto solo ai beni
temporali: è un'immagine, nella sua dura concretezza,
sembra immobilizzarli nel loro pervertimento: però che
fatto ha lupo del pastore. |
133 |
Per questo
l'Evangelio e i dottor magni
son derelitti, e solo ai Decretali
si studia, sì che pare a' lor vivagni. |
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133 |
Per questo sono lasciati in disparte
gli insegnamenti del Vangelo e dei grandi Padri della
Chiesa, e si attende solo allo studio delle Decretali,
come appare dai margini (annotati e consunti dei libri
che le contengono). |
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Gli sforzi e gli studi degli uomini di Chiesa si
concentrano non più sui testi evangelici o su quelli dei
Padri della Chiesa, ma sui testi delle Decretali, le
quali sono l'insieme delle costituzioni pontificie
ordinate e raccolte come base del diritto canonico da
Gregorio IX nella prima metà del '200. Qui indicano il
diritto canonico in genere e, in particolare, la "scienzia
lucrativa" (Lana) necessaria a sostenere gli interessi
materiali degli ecclesiastici. Dante ripete qui le
stesse accuse rivolte al mondo ecclesiastico
nell'Epistola ai Cardinali italiani (XI, 16). |
136 |
A questo
intende il papa e ' cardinali;
non vanno i lor pensieri a Nazarette,
là dove Gabrïello aperse l'ali. |
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136 |
Al fiorino e alle
Decretali attendono il papa e i cardinali: i loro
pensieri non vanno a Nazareth, là dove l’Arcangelo
Gabriele diresse il suo volo (per annunciare a Maria la
divina maternità). |
139 |
Ma Vaticano
e l'altre parti elette
di Roma che son state cimitero
a la milizia che Pietro seguette, |
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139 |
Ma il colle Vaticano e gli
altri luoghi insigni di Roma, che furono la tomba
dell’esercito dei martiri seguaci di Pietro, |
142 |
tosto libere
fien de l'avoltero». |
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142 |
saranno presto liberati da
questa profanazione”. |
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Negli ultimi versi la città di Roma viene presentata in
tutta la sua sacra dignità: di lei, infatti, il Poeta
non ricorda i maestosi monumenti né le gloriose memorie
della civiltà passata, ma il Vaticano, il colle dove fu
crocifisso e sepolto San Pietro, e tutti gli altri
luoghi resi sacri dal sangue del martiri (la milizia che
Pietro seguette), mentre invoca la liberazione dall'avoltèro
con il quale è stata profanata dal papa e cardinali
smarriti dietro il maledetto fiore. Nel messianico sogno
di un futuro liberatore e risanatore delle piaghe
d'Italia e dei mondo il canto, pur suggellato da quella
dura espressione (avoltèro), sembra ritrovare una più
distesa e fiduciosa tonalità. |