LA
STORIOGRAFIA FIORENTINA DEL TRECENTO
Se si confronti la
storiografia lombarda al tempo della lotta dei Comuni
col Barbarossa, con la storiografia di Firenze nell'età
di Dante, si rimane colpiti dalla differenza di tono,
dalla diversità della tradizione culturale, dalla
diversa estensione e intensità d'interessi che le
contraddistingue e quasi le contrappone.
Né il paragone è ozioso, perché vale a mostrarci, con
assoluta immediatezza ed evidenza, come la nostra prima
storiografia volgare rappresenti l'espressione di un
momento particolarmente significativo e, direi quasi,
conclusivo di tutta la civiltà comunale.
Era passato appena un secolo da quando gli ultimi echi
della lotta contro il Barbarossa si erano spenti, nella
cronaca attribuita a Sire Raoul, quando il guelfo
Ricordano Malispini, tornato a Firenze dal suo probabile
esilio romano, dopo la battaglia di Benevento, si era
accinto, intorno al 1270, a raccogliere « di gran fascio
in piccolo volume » la tradizione delle origini
leggendarie della sua città e i fasti del comune del «
primo popolo ». E tutta un'epoca aveva raggiunto in quel
secolo la pienezza delle sue espressioni e i germi della
civiltà del comune italiano, che apparivano ancora in
boccio al tempo della Lega Lombarda, si erano ormai
dischiusi in una lussureggiante fioritura, nella Firenze
del Trecento.
La storiografia comunale lombarda del secolo XII era
ancora redatta in lingua latina e si ispirava, come nel
caso del poema anonimo sui Gesta di Federico in Italia,
alle tradizioni di un umanesimo di scuola, mentre la
cronistica imperiale raggiungeva la sua più compiuta
espressione nell'opera di Ottone di Frisinga. La
storiografia fiorentina, fiorita tra il XIII e il XIV
secolo era, invece, scritta in volgare ed aveva assunto
dalla lingua viva quei caratteri d'immediatezza e di
spontaneità che le furono proprie, riallacciandosi,
nello stesso tempo, a quelle tradizioni favolose delle
storie di Troia e di Roma, onde traevano alimento
l'orgoglio municipale delle nostre città e la prima
coscienza unitaria della civiltà comune, nel nome di
Roma madre, il latiale caput cunctis Italis diligendum
di Dante e del Petrarca.
Ma anche un diverso tono morale distingueva, come
dicevo, le due storiografie. C'è nella storiografia
lombarda nel tempo del Barbarossa un riserbo, una
cautela, un senso della opportunità contingente, che si
contrappongono nettamente all'afflato ideale, alla
immensità della passione politica, alla larghezza degli
interessi di un Malispini, di un Compagni, di un
Villani.
Ottone e Acerbo Morena, i maggiori rappresentanti della
storiografia comunale lombarda, appaiono, nella loro
opera, soprattutto animati da vivo odio contro Milano; e
il rispetto per l'imperatore, che s'era fatto strumento
della loro vendetta, è in loro appena temperato dalle
legittime rivendicazioni dell'autonomia cittadina. Ma
l'odio e lo spirito di rivalsa prevalgono in loro su
ogni altro sentimento. La devozione all'Impero e la
stessa umanità, che l'anonimo autore dei Gesta di
Federico dimostra nei riguardi di Arnaldo da Brescia,
non si elevano mai alla consapevolezza di un ideale
civile o religioso. Più tardi, dopo la spietata
distruzione di Milano, la necessità di difendere, anche
a prezzo della vita, la prosperità e le autonomie
conquistate, decise i comuni lombardi a schierarsi
compatti contro l'Imperatore, mettendo per il momento da
parte le rivalità e gli odi tenaci. Ma era sempre una
necessità di vita che li spingeva all'unione e
all'azione. Sì che lo stesso continuatore di Ottone e
Acerbo Morena, commentando l'alleanza che Lodi aveva
dovuto, suo malgrado, stringere con l'odiata Milano, nel
1167, poteva scrivere, non senza una certa dose di
cinismo: turpiter vivere dedecus est, ac male mori
deterius est; magis bene vivere in patria ac domibus
morari.
Nella storiografia fiorentina del Trecento la passione
di parte e la « carità del natio loco » si elevano,
invece, ad esprimere i motivi ideali della lotta
politica del tempo; si fondevano nella cronaca
malispiniana, nell'esaltazione delle tradizioni
gentilesche del comune del « primo popolo »; ispiravano
l'accorato rimpianto di Dino Compagni, ultimo priore di
parte bianca, per la caduta del comune, sorto dagli
ordinamenti antimagnatizi di Giano della Bella; si
placavano infine nell'orgogliosa coscienza che Giovanni
Villani, mercante e socio della compagnia dei Peruzzi,
aveva della grandezza raggiunta dalla sua Firenze,
famosa in tutto il mondo civile e destinata « a seguire
grandi cose », mentre Roma stessa, della quale era «
figliola e fattura », era nel suo calare.
Il fiorire della storiografia fiorentina del Trecento
dimostra ancora una volta conce la grande storia sia il
frutto delle epoche di più intensa espansione della
civiltà umana, nelle quali una società, giunta alla
pienezza della sua potenza creatrice, avverte più viva
l'esigenza di approfondire, nei valori della tradizione,
la consapevolezza del proprio essere e del proprio
destino: Tucidide, alla vigilia della caduta della
libertà greca, ne tramanda la tradizione gloriosa nel
racconto delle tragiche vicende della guerra del
Peloponneso; Polibio avverte il significato universale
dell'Impero di Roma, all'indomani delle guerre puniche e
della conquista dell'Oriente; Paolo Diacono canta
l'epopea delle nuove popolazioni barbariche, attratte
nell'orbita della civiltà cristiana di Roma,
all'indomani della caduta del regno longobardo; Ottone
di Frisinga celebra i fasti dell'Impero cristiano alle
soglie della settima età, che doveva concludere, con
l'avvento dell'Anticristo, il ciclo della storia umana.
Così la storiografia fiorentina del Trecento veniva
quasi ad esprimere la coscienza che gli ultimi uomini
del comune medioevale avevano dei valori della loro
civiltà, mentre già sorgevano all'orizzonte le prime
luci dell'imminente Rinascimento...
Il Compagni iniziò il suo racconto dagli anni intorno al
1280, presso a poco dal momento in cui s'interrompeva la
parte della Storia scritta da Ricordano, continuata poi
fino al primo ventennio del Trecento, dal nipote
Giacotto. Ma si può dire che tra i due scrittori
intercorra un'intera generazione. Le lotte tra le «
maledette parti », delle quali il buon Ricordano aveva
deprecato la nascita, avevano operato un profondo
mutamento nella struttura costituzionale del comune
fiorentino. La pace del cardinal Latino del 1280,
riconciliando i ghibellini e ponendo un freno al
prepotere della parte guelfa, aveva spinto i ceti più
solleciti del pubblico bene, ad accostarsi alle
corporazioni artigiane, preparando l'ascesa al potere
del priorato del 1282, che rappresentò l'affermarsi di
un governo democratico popolare, contro gli incipienti
tentativi di signoria dei « magnati », cresciuti a
potenza nella lotta delle fazioni.
Gli ordinamenti di giustizia di Giano della Bella, del
1293, furono la magna charta della nuova costituzione
del comune fiorentino e segnarono il momento più felice
della sua ripresa democratica. Ma, con l'esilio di Giano
della Bella, avvenuto nel 1295, e la vigorosa azione di
riscossa dei ceti magnatizi, si iniziò quella profonda
crisi politica che attraverso la subdola opera di
paciere di Carlo di Valois e il trionfo dei Neri, portò
alla definitiva ascesa al potere della oligarchia
mercantile delle arti maggiori, oligarchia che dominò la
vita politica di Firenze, quasi ininterrottamente, fino
all'affermarsi della signoria dei Medici.
Dino fu fautore e sostenitore del governo dei priori dal
1282. Fu uno dei priori egli stesso nel 1289, al tempo
della vittoria fiorentina di Campaldino; fu gonfaloniere
di giustizia nel 1293, e appartenne, infine, all'ultimo
governo di parte bianca, che il 5 novembre del 1301,
fiducioso nella lealtà del principe, si assunse la grave
responsabilità di consegnare Firenze nelle mani di Carlo
di Valois, assicurando così il trionfo della parte dei
Neri.
Dino Compagni fu dunque, oltre che testimone degli
avvenimenti di quegli anni, addirittura attore e
protagonista della vicenda politica dal 1280 al 1301; e,
quando, con la caduta del governo di parte bianca, cadde
anche il comune di popolo, ch'egli aveva promosso e
servito con lealtà adamantina e fede sincera negli
ideali del bene pubblico, egli si ritirò a vita privata,
ignorato dai suoi stessi nemici che, pure, nell'ebbrezza
della vittoria, avevano infierito contro gli avversari
con sbandimenti, vessazioni e atrocità di ogni sorta.
Consapevole del fallimento politico della sua parte,
nella cui caduta egli stesso era stato travolto, Dino
Compagni scriveva allora quella breve storia degli anni
tempestosi della sua esperienza politica, che è insieme
un commovente documento umano e uno dei più mirabili
esempi di prosa d'arte della nostra letteratura.
Dino Compagni scrisse la sua storia « a utilità di
coloro che saranno eredi di prosperevoli anni, acciocché
riconoscano i benefici da Dio, il quale per tutti i
tempi regge e governa ».
L'ispirazione religiosa domina tutta l'opera. Nella
concezione provvidenziale che Dino ha della storia
umana, Dio appare in essa quasi come unico protagonista.
Egli comparte, nella sua infinita sapienza, il bene e il
male a premio dei buoni e a punizione dei malvagi,
indirizza talvolta perfino il male a benefici effetti,
apre al bene vie del tutto insospettate nei momenti
stessi in cui sembra che il male celebri il suo trionfo
definitivo. Ma questa concezione religiosa, se pure
sinceramente affermata e profondamente sentita, non
placa nella speranza e nella fiducia la sete di
giustizia del Compagni, né l'animo suo esacerbato dal
disinganno e dalla sconfitta. Egli stigmatizza con
parole di fuoco la malafede dei suoi nemici, le frodi
cinicamente palesi, le violenze efferate ed insieme il
disinteresse per la cosa pubblica, la viltà di tutti
coloro che aveano favorito, più o meno consapevolmente,
il loro gioco. Una fosca luce di speranza balena
nell'ultima pagina dell'aureo libretto del Compagni, per
la calata in Italia di Arrigo VII, l'imperatore che sarà
ministro della terribile vendetta di Dio contro «
l'ingrato e superbo » popolo fiorentino.
« O iniqui cittadini che tutto il mondo avete corrotto e
viziato di mali costumi e di falsi guadagni! Voi siete
quelli che nel mondo avete messo ogni mal uso. Ora vi si
ricomincia a volgere il mondo addosso. L'imperatore
colle sue forze vi farà prendere per mare e per terra ».
E con queste parole di odio, nelle quali il risentimento
per la sconfitta subita sembra superare ogni senso di
amor di patria, si chiude l'opera.
Tutti coloro che si sono occupati di essa hanno
avvertito il contrasto profondo esistente tra i due
motivi fondamentali ai quali può ridursi l'ispirazione
dell'opera: la coscienza religiosa e morale dell'autore,
che riconosce in tutte le forme della realtà il segno di
Dio, e giudica tutta l'attività umana secondo il modulo
di un ideale assoluto di bene, e la triste realtà della
vita politica della sua città, ch'egli rappresenta come
espressione esemplare di tutta la malvagità umana.
Il De Sanctis interpretò il contrasto di due mondi così
dissimili come il conflitto tra la realtà e le idealità
dello storico; ma tale interpretazione faceva di Dino
Compagni poco meno di un illuso o di un « ingenuo », «
astratto e dogmatico, che non sa fare altro, di fronte
alla realtà, che sdegnarsi e maledire ».
Il Del Lungo parlò invece di una inconciliabilità fra
aspirazioni comunali di Dino e della parte che egli
rappresentava, e reliquie feudali del mondo
rappresentato dai magnati; ma aspirazioni comunali, e
reliquie feudali venivano schematizzati dal Del Lungo in
una opposizione astratta di libertà, lavoro e progresso
da una parte, e di soprusi, violenze e tumulti
dall'altra. Il Del Monte, nel rifiutare le due
interpretazioni, proposte dal De Sanctis e dal Del
Lungo, vede piuttosto la spiegazione del conflitto
nell'opposizione tra la religiosità di Dino Compagni,
religiosità di coloro che non vivono solo della realtà,
ma riconoscono nelle vicende umane il mistero di un
eterno piano di giustizia divina, e il mondo irreligioso
e brutale rappresentato dai suoi avversari.
Ma io penso che la spiegazione del dramma interiore di
Dino Compagni sia piuttosto nell'urto generato, nella
coscienza ancora medievale del cronista, dalla prima
consapevole scoperta della cruda realtà della politica,
di contro agli ideali morali e religiosi della
tradizione.
Io non esiterei, sotto questo riguardo, a porre Dino
Compagni agli inizi di quella tradizione di pensiero
politico che ci condurrà fino al Machiavelli. Il mondo
ideale dei due grandi fiorentini era diverso, mala
realtà, nella quale essi spingevano l'analisi spietata
del loro pensiero, è la stessa. Il Compagni vede la
realtà politica con lo stesso occhio disincantato del
Machiavelli, con la stessa nettezza di particolari, con
la stessa acutezza di notazioni psicologiche. In ambedue
la stessa visione pessimistica dell'umanità: i pochi che
sanno veramente essere buoni o cattivi e l'ignavia dei
molti. Ambedue muovono dal disgusto di una realtà
presente aborrita, per rifugiarsi nell'attesa di un
redentore. Lo stesso lucido distacco, se pur mediato
attraverso due temperamenti diversi, dalla realtà umana
che osservano e ritraggono, nella sconcertante evidenza
dei suoi autentici aspetti. La sola differenza esistente
tra il mondo di Dino Compagni e quello del Machiavelli
sta nel fatto che nel mondo del Machiavelli non è più
signore Iddio, mala Fortuna e la virtù umana. Nel mondo
del Compagni domina invece ancora la Provvidenza, ma
rappresentata da un Dio giusto e severo, che sulla
umanità tralignante si appresta a far sentire il
terribile peso della sua mano punitrice.
Ma come nell'opera del Machiavelli, sulla fosca visione
della realtà del suo tempo si accende improvvisa la
fiamma di una illogica speranza di redenzione, che svela
il segreto della passione morale del segretario
fiorentino, così nel Compagni la passione umana esplode
in accenti di odio, che non sembrano compatibili con
l'alta ispirazione morale e religiosa dell'opera sua.
Gli è che a quella realtà umana, che malediceva, il
Compagni si sentiva profondamente legato. Né è il caso
di parlare di opposizione tra aspirazioni comunali e
reliquie di idealità feudali. Si tratta piuttosto di
conservatorismo moderato di Dino Compagni e dei suoi
amici, che si contrapponeva alle aspirazioni al potere
della oligarchia mercantile del popolo grasso, alle
quali erano favorevoli invece tutte le condizioni della
vita politica del tempo. I Bianchi volevano la piena
indipendenza della città da ogni influsso delle potenze
che dominavano allora la politica italiana, quali il
Papato e gli Angioini, proprio quando la fortuna e la
prosperità di Firenze apparivano sempre più legate alle
vicende della politica papale e angioina; e si muovevano
verso posizioni ghibelline, proprio quando le tradizioni
guelfe del comune di Firenze, acquistavano nuovo vigore
per la caduta degli Svevi e il trionfo del guelfismo in
tutta l'Italia.
Dietro i magnati in lotta per il potere, vi era infatti
l'oligarchia dell'alta banca, che rappresentava la quasi
totalità della potenza e della forza politica di
Firenze. Erano le grandi casate dei Frescobaldi, dei
Bardi, dei Peruzzi, dei Francesi, degli Spini, dei
Mozzi, degli Scali, degli Acciaiuoli, dei Buonaccorsi,
degli Alberti, che tenevano in mano le fila della
finanza internazionale presso le corti di Francia,
d'Inghilterra, del Regno di Napoli, del Papa. Di fronte
a questo mondo, il Compagni rappresentava il passato e,
sia pure, un passato glorioso trasfigurato in ideale, ma
un ideale al quale non corrispondeva più una effettiva
realtà politica. Né egli era certamente di ciò
consapevole. E proprio da questa sua inconsapevolezza
nasce il dramma, che è il dramma di un uomo del
Medioevo, che contempla per la prima volta la « realtà
effettuale » della vita politica, alla luce di
tradizionali valori morali e religiosi di una età che
aveva compiuto il suo ciclo storico.
Ricordate i famosi ritratti a tutto tondo, dei maggiori
protagonisti della lotta politica del suo tempo? Il gran
beccaio Pecora « uomo di poca verità, ardito e sfacciato
e gran ciarlatore » . E Messer Corso Donati « che per
sua superbia fu chiamato il 'barone', che quando passava
per la terra molti gridavano: viva il 'barone'. E parca
la terra. sua ». E la finezza di certe notazioni
psicologiche? Ricordate, ad esempio, il Cardinal da
Prato, combattuto tra l'avidità del danaro offertogli e
la doverosa ripulsa, quando Dino gli portò a nome dei
priori, in riparazione di un affronto subito, una coppa
d'argento con 1300 fiorini nuovi? « Rispose: gli aveva
cari. E molto gli guardò e non gli volle ».
Dino Compagni era ben lontano da quel mondo d'inganni,
di frode, di violenza, di pochezza morale e di viltà,
che, con dolorosa meraviglia, sembra scoprire per la
prima volta. Quel mondo era sempre esistito. Ma nella
coscienza di uomini come Ricordano Malispini, gli
accadimenti umani apparivano idealizzati, sul piano
provvidenziale della storia, in una vicenda di cui
protagonista unico era Iddio, mentre nella coscienza di
Dino Compagni i due mondi della tradizione religiosa e
della realtà umana si erano ormai distaccati e il mondo
della realtà umana si presentava, è vero, agli occhi del
cronista, come il regno del Maligno, ma con un risalto
tutto suo ed un peso che mai prima d'allora sembrava
aver avuto...
Uomo di rilievo fu Giovanni Villani, appartenente a una
élite che dominava gli affari e la grande politica
europea, e membro di quella classe di governo, che aveva
ormai saldamente affermato il suo potere nella città.
Esperto del mondo, uso a trattare con i grandi,
consapevole delle gravi responsabilità del potere, il
Villani dimostra, nella sua cronaca, una moderazione nei
giudizi e una oggettività che non riscontriamo in
Ricordano, né, tanto meno, in Dino Compagni. Ma quelle
caratteristiche, le quali potrebbero anche considerarsi
come intrinseche del suo abito professionale di
banchiere e di uomo adusato all'esercizio di cariche
pubbliche, si univano nel Villani storico a un
insaziabile desiderio di sapere e di conoscere, a una
cura tenace e meticolosa nel raccogliere, ovunque gli
fosse possibile, informazioni e dati di prima mano o
nell'aggiungere qualche nuovo particolare ai dati già
noti, sui grandi avvenimenti politici del tempo, su
personalità eminenti, su carestie, disastri, feste,
sugli usi e costumi dei popoli, sull'andamento delle
vicende economiche, su tutto quanto, insomma, può
stimolare la curiosità e l'interesse di un uomo situato
in un'alta posizione sociale e attento ad ascoltare
tutti gli echi e tutte le voci del vasto mondo.
Marc Bloch, nel suo Métier de l'Historien dice dello
storico che egli è come l'orco della favola; dovunque
sente odore di uomo, là subito corre avido. Nessuna
altra immagine si potrebbe adattare meglio a definire il
cronista Giovanni Villani. A comporre infatti la sua
monumentale opera, egli raccolse un materiale immenso:
tradizioni leggendarie, notizie tramandate oralmente,
fonti scritte, informazioni assunte direttamente o
indirettamente per mezzo dei corrispondenti della banca
dei Peruzzi, dichiarazioni di testimoni oculari,
documenti veduti o avuti in copia dalle Cancellerie
delle maggiori potenze « e io scrittore a queste cose
fui presente... e dissi allora... e ciò sapemmo da
persone degne di fede... e detta copia (di lettera
avemmo da nostro fratello ch'allora era in corte di Roma
»: queste sono le indicazioni delle fonti della Cronica
nelle quali ci imbattiamo, si può dire, quasi ad
apertura di libro. E che gusto dell'esattezza e della
completezza dei dati è nel Villani! Egli corregge,
integra, commenta le sue fonti. Aggiunge spesso le date
precise del mese e del giorno di avvenimenti di cui era
stato dato solo l'anno. Traduce in francese frasi
pronunciate da Carlo d'Angiò e riferite dal Malispini in
volgare. Aggiunge due versi alla canzonetta sulle donne
di Messina, della quale il Malispini aveva citato solo
una quartina. E tutto l'immenso materiale raccolto
rielabora e ricompone in un racconto nel quale
l'individualità delle fonti utilizzate si perde, e le
tinte troppo forti si smorzano in un quadro ampio e
nitido, ma sfumato nella obiettività di una relazione
quasi ufficiale. E in questo atteggiamento moderato e
prudente, di chi vuole ascoltare le voci di tutti, e non
vuol pronunciare giudizi eccessivi o avventati, conscio
della complessa polivalenza delle cose e delle opinioni
umane, è tutto il Villani, quel Villani che, di Dante
stesso, ammirato da lui come ingegno e poeta sovrano,
gloria imperitura di Firenze, diceva tuttavia: « Bene si
dilettò nella Commedia di garrire e sclamare a guisa di
poeta, forse in parte più che non si convegna; ma forse
il suo esilio glielo fece fare ».
Nel proemio stesso della sua Cronica il Villani ha
esposto il suo metodo di lavoro. « E prima diremo onde
fu il cominciamento della detta nostra città,
conseguendo per gli tempi infinoché Dio ne concederà
grazia; e non sanza grande fatica mi travaglierò di
ritrarre e di ritrovare di più antichi e diversi libri,
e croniche e autori, le geste e i fatti de' Fiorentini
compilando in questo ». Occorre una dichiarazione più
esplicita per dedurne che il Villani utilizzò la Cronaca
malispimana, correggendola e integrandola nei dati,
adattandone, in parte, il tono alla sua mentalità, «
compilando » da essa, ma non tanto che la nuova
redazione non tradisse spesso tracce dall'antico testo.
D'altra parte, se si pensa che il Villani seguiva la
prassi di tutti i cronisti medioevali, che incorporavano
nelle loro opere, senza nessuno scrupolo, fonti più
antiche, riadattandole in parte e continuandole con i
dati desunti dalla loro particolare esperienza; se si
pensa che tutta la parte leggendaria del Malispini è
stata realmente rifatta dal Villani, che cercò di
rendere il racconto più aderente alla tradizione degli
antichi scrittori, sfrondandolo inoltre delle « belle e
dilettevoli storie » , quali la novella di Belisea e
Teverina; se si pensa, infine, che il materiale della
cronaca malispiniana utilizzata dal Villani costituisce
appena un terzo della sua opera, e che solo per gli
avvenimenti dal 13oo al 1348, essa assume il particolare
carattere di storia degli avvenimenti di cui il Villani
aveva avuto esperienza diretta; se si considera tutto
ciò, la questione delle relazioni tra il Villani e il
Malispini cesserà di essere un processo di falsari e di
plagiari e riacquisterà il suo vero carattere di
indagine squisitamente storica, volta a illustrare il
processo di formazione di una delle maggiori opere della
letteratura storiografica del Medioevo.
Alla luce di una tale indagine, la differenza di
temperamento fra i due cronisti e la diversità del clima
storico, nel quale si svolse la loro attività, appaiono
evidenti non solo nella parte più recente della cronaca
villaniana, inspirata a motivi e a interessi ch'erano
estranei alla mentalità di Ricordano, ma proprio nella
parte stessa che il Villani aveva mutuato dal Malispini.
La leggenda delle origini di Fiesole e di Firenze viene
infatti molto sfrondata dal Villani e accolta solo come
tradizione ormai consolidata della grandezza e della
nobiltà della sua Firenze in un momento d'espansione
europea, come il blasone che conferisce prestigio e una
grande e recente fortuna. Il Villani era ben lontano dal
mondo ingenuo e favoloso del buon Ricordano, che
s'indugiava a narrare della bella regina Belisea, moglie
di Catilina, che andava a messa nella « calonaca di
Fiesole » ! Ma anche il mondo cavalleresco di Ricordano
appare rievocato, nella cronaca del Villani, con toni
smorzati, come l'eco di una tradizione, se non spenta,
certo non più intensamente vissuta. Come poteva infatti
il Villani rievocare l'uccisione di Buondelmonte del
1215, e il divampare della lotta tra Guelfi e Ghibellini
che ne fu conseguenza, con quella minuzia di particolari
e quegli accenti di dolore e di deprecazione ch'erano
ben naturali del Malispini, partecipe e vittima in parte
delle vicende di quel tragico periodo di lotte
intestine, alle quali il Villani, a distanza di circa un
secolo, doveva guardare con palese distacco, se perfino
la più recente lotta tra i Bianchi e i Neri e la crisi
del 1301 non avevano destato nel suo animo sentimenti di
viva partecipazione?
È certo dunque che, per il periodo che va dal 1245 al
1282, la fonte principale del Villani fu la Cronaca del
Malispini, con l'aggiunta dell'interpretazione e dei
commenti che Dante 'aveva fatto, nella Divina Commedia,
ad alcuni degli episodi più famosi della storia di
Firenze del secolo XIII, narrati dal Malispini...
Ma via via che la Cronica di messer Giovanni Villani si
allontana dal secolo XIII e dal solco della cronaca
malispiniana, essa conquista la sua particolare
caratterizzazione e il suo più largo respiro. Il
cronista sentiva potentemente l'orgoglio di essere
cittadino di Firenze, per « la nobiltà e grandezza »
alle quali era pervenuta la città ai suoi tempi. Firenze
era allora il più grande centro bancario d'Europa e il
nodo più importante della vita politica italiana. Da
Firenze e per mezzo della Compagnia de' Peruzzi, che il
Villani definì addirittura « la colonna della
cristianità », il suo sguardo attento e acuto spaziava
sull'Italia e l'Europa intera, dove i Peruzzi avevano
disseminato le loro agenzie, da Cipro a Tunisi e
Maiorca, da Bari a Bruges e Londra. È noto con quale
sicurezza d'informazione e quale messe di dati precisi e
controllati il Villani narri le vicende della lotta fra
Filippo il Bello e i Fiamminghi; e i drammatici
contrasti del conclave di Perugia del 1305, da cui ebbe
inizio il papato avignonese; ed è noto con quale vivo
interesse egli seguì lo sviluppo della vita politica ed
economica della sua città ed, in genere, dei maggiori
stati d'Europa, nel momento della loro massima
espansione.
II mondo del Villani è ancora un mondo medioevale,
dominato dalla Provvidenza piuttosto che dalla Fortuna,
ma la virtù dell'uomo appare in esso già al centro della
realtà, come una forza creatrice ed operosa. A parte i
motivi moralistici e religiosi consueti della
cronachistica medioevale, il Villani scriveva la sua
Cronica « per dar esempio, a quelli che saranno, delle
mutazioni delle cose passate, e le cagioni e il perché
».
In questa consapevolezza della continua mutazione delle
vicende umane, e in questo ricercar i nessi di quelle
vicende e le cagioni di quelle mutazioni, è già il senso
più profondo della storia. Ed è significativo che questa
coscienza della storia si affermi in una grande opera
qual'è la cronaca del Villani, quasi agli albori del
Rinascimento, che dell'uomo creatore della storia e
della realtà umana doveva fare la più alta celebrazione. |