LA
NOVELLA SACCHETTIANA
Se il Boccaccio è il poeta
delicato e sensuale e arguto dell'eterno femminino, il
Sacchetti può dirsi il poeta di un'epopea
comico-realistica degli animali. Gli animali ammessi
nella vita dell'arte non sono una novità del mondo
medievale, dal romanzo di Renard in poi, è singolare
questa inclinazione del Sacchetti, per i racconti degli
animali... Penso che per la sua arte
barocco-popolaresca, o possiamo dire burattinesca, gli
animali, con la loro ottusità o caparbietà, sono
elementi ottimi di movimento in questo suo mondo
fantastico di motivi elementari e spesso esagerati e
macchinalizzati, per il gusto del ridere e delle botte.
In ogni modo, perché non paia che si voglia stringere in
una formula quella che può essere un'ispirazione
complessa, io invito a leggere la più bella forse di
questa novelle, quella che potremmo intitolare La coda
del lupo, che non ha nulla di comico, anzi ha qualcosa
di vagamente tragico e pauroso: ciò che vale a
riscattare il Sacchetti dalla formula, che può diventar
facile, di favolatore comico-burattinesco degli animali.
Il nostro Franco è sempre uno spirito semplice, ma anche
pensoso, e versatile, e davanti all'avventura di un
ragazzo, che ha da lottare con un lupo, racconta, pieno
di una sospesa comprensione, tutta la vicenda (nov. XVII).
Il lupo è soltanto materia nominale della paurosa
vicenda. Questa è proprio una delle più belle novelle
animalesche del Sacchetti, appunto perché è difficile
rinchiuderla in una formula: essa invece è
caratteristica della sua arte narrativa, di scrittore
che spesso si distrae ma il cui distrarsi è il suo più
effettivo concentrarsi. Il Sacchetti, in un certo senso,
va sempre fuori tema, come potrebbe fare un conversatore
vivo e schietto, che discorrendo genialmente si
abbandona alla volubilità, non tanto delle impressioni,
ma dell'argomento. In questo, il Sacchetti mostra la sua
indole ragazzesca, che fa tutt'uno con quell'indole che
altre volte abbiamo chiamato popolaresca, o
dilettantesca. Si potrebbe pensare che questa sia la sua
arte di narratore, che muta gli argomenti durante la
novella, per divertire e interessare meglio il suo
uditorio; così come fa l'Ariosto e lo stesso Manzoni,
che ripigliano o abbandonano i loro personaggi, per una
segreta astuzia di più avvincente narrativa...
Ma nell'Ariosto e nel Manzoni c'è una consapevolezza
riflessa di questa arte di variare l'intreccio; nel
Sacchetti, uomo discolo e grosso, manca codesta
consapevolezza, ed egli abbandona tutto come una
flottiglia di barchette su una breve corrente d'acqua,
varata per giuoco da qualche monello. Si osservi, per
esempio, uno dei primi paragrafi della Coda del lupo, in
cui il figliuolo di Piero Brandani s'incanta davanti a
quel paniere di ciliege della forese, e dimentica le sue
carte giudiziarie. L'abbandono del ragazzo è l'abbandono
dello stesso narratore.
Avvenne che, aspettando il garzone, cominciò a piovere
una grandissima acqua; e passando una forese, o trecca,
con un paniere di ciriege in capo, il detto paniere
cadde; del che le ciriege s'andarono spargendo per tutta
la via; il rigagnolo della qual via ognora che piove
cresce che pare un fiumicello. Il garzone volenteroso,
come sono, con altri insieme, alla ruffa alla raffa si
diedero a ricogliere delle dette ciriege, e infino nel
rigagnolo dell'acqua correano per esse. Avvenne che,
quando le ciriege furono consumate, il garzone, tornando
al luogo suo, non si trovò le carte sotto il braccio,
però che gli erano cadute nella dett'acqua, la quale
tostamente l'avea condotte verso Arno, ed elli di ciò
non s'era avveduto; e correndo or giù, or su, domanda
qua, domanda là, elle furono parole, ché le carte
navicavano già verso Pisa.
E questa è la prima avventura. La seconda avventura è
l'altra dell'improvvisato viaggio con i mercanti verso
il Ponte Agliana, e dell'arrivo all'alberghetto di
notte. Il Sacchetti non si preoccupa dei legami
estrinseci del racconto; va diritto dove il suo
interesse visivo e cronachistico di favolatore
urgentemente lo chiama, e vi si impegna. Certamente
anche questa è arte, ma direi arte nativa, dove la
schiettezza e la semplicità del temperamento giuocano
sempre nuove e felici sorprese al narratore. Nulla di
pedantesco, nei passaggi da un bozzetto all'altro; ma
uno spontaneo accorrere come di un ragazzo, che lascia
il primo giuoco iniziato, per imbrancarsi in un altro
giuoco più divertente offertogli da improvvisati
compagni. Mancherebbe la fermezza di un interesse
centrale e coordinatore; l'interesse dello scrittore si
sposterebbe via via, come in una storia rappresentata
per cartoni animati. Ma questa, bisogna affrettarsi a
soggiungere, è soltanto l'apparenza fenomenica.
Veggendo questi mercatanti stare questo garzone molto
tapino, domandarono quello ch'egli avea e donde era:
risposto alla domanda, dissono se volea stare e andare
con loro.
Al garzone parve mill'anni, e missonsi in cammino, e
giunsono a due ore di notte al pont'Agliana; e
picchiando a uno albergo, l'albergatore, che era ito a
dormire, si fece alla finestra: - Chi è là? - Aprici,
ché vogliamo albergare. - L'albergatore rampognando
disse: - O non sapete voi che questo paese è tutto pieno
di malandrini? io mi fo gran maraviglia che non sete
stati presi.
E l'albergatore dicea il vero, ché una gran brigata di
sbanditi tormentavano quel paese.
Pregorono tanto che l'albergatore aperse; ed entrati
dentro e governati li cavalli, dissono che voleano
cenare; e l'oste disse: - lo non ci ho boccone di pane.
- Risposono i mercatanti: - O come facciamo? - Disse
l'oste: - lo non ci veggio se non un modo, che questo
vostro garzone si metta qualche straccio indosso, sì che
paia gaglioffo, e vada quassù da questa piaggia, dove
troverà una Chiesa: chiami ser Cione, che è là prete, e
da mia parte dica mi presti dodici pani: questo dico io,
perché, se questi che fanno questi mali troveranno un
garzoncello malvestito, non gli diranno alcuna cosa.
Qui sta per l'appunto la felicità di Sacchetti
narratore: egli procede col suo carico leggero, e quello
che ha detto innanzi non lo preoccupa, ché egli si
affisa sempre nel nuovo. Ma noi non possiamo ammettere
che ci sia uno scrittore, anche elementare, che non
abbia coscienza della sua arte: udire cose nuove, questa
è la poetica che appare chiara allo scrittore stesso nel
suo Proemio: « immaginando come la gente è vaga di udire
cose nuove, e specialmente di quelle letture che sono
agevoli a intendere, e massimamente quando danno
conforto, per lo quale tra molti dolori si mescolino
alcune risa ». Sebbene in forma rozza, qui abbiamo
dichiarata con parole acute e veritiere, la poetica a
cui segretamente obbedisce lo scrittore. Favolatore
delle cose nuove, ecco ancora una nuova definizione che
possiamo dare del Sacchetti; cose nuove, cioè singolari,
insolite, fuori dell'ordinario, ché questo è il
significato della parola nuovo nella lingua del
Trecento. Uomo nuovo, dice il Boccaccio, quando parla di
Calandrino; noi forse potremmo tradurre nuovo, con
singolare, ma anche con la parola buffo, quando si tolga
ad essa un qualsiasi significato spregiativo e
ingiurioso, così come si parla di un Palío dei buffi da
un nostro caro scrittore contemporaneo. La cosa buffa o
il personaggio buffo o nuovo, può non essere né una cosa
da ridere né personaggio da divertire buffonescamente,
ma soltanto l'esplicarsi di una vicenda strana,
inaspettata, che agisce di sorpresa. Orbene il Sacchetti
ama per l'appunto di abbandonarsi a bozzetti sempre
nuovi, che sorprendono piacevolmente la sua fantasia, ma
sempre col reticente bisogno umano di prestare la mente
ai molti dolori in cui si mescolino alcune risa.
Ed ecco la terza avventura del nostro protagonista: il
viaggio pauroso in un boschetto, e l'errore del
ragazzetto. Scambia la casa di un lavoratore con quella
del prete Cione; anche qui il Sacchetti colorisce,
pennelleggia rapidamente il nuovo racconto e non si
indugia in esso.
Mostrato la via al garzone, v'andò malvolentieri, però
che era di notte, e mal si vedea. Pauroso, come si dee
credere, si mosse, andandosi avviluppando or qua or là,
senza trovare questa chiesa mai; ed essendo intrato in
un boschetto, ebbe veduto dall'una parte un poco
d'albore, che dava in uno muro. Avvisossi d'andare verso
quello, credendo fosse la chiesa; e giunto là su una
grande aia, s'avvisò quella essere la piazza; e'l vero
era che quella era casa di lavoratore: andandosene là, e
cominciò a bussare l'uscio. Il lavoratore, sentendo,
grida: - Chi è là? - E 'l garzone dice: - Apritemi, ser
Cione, ché il tal oste dal ponte Agliana mi manda a voi,
che gli prestiate dodici pani. - Dice il lavoratore: -
Che pani? ladroncello che tu se', che vai appostando per
cotesti malandrini. Se io esco fuori, io te ne manderò
preso a Pistoia, e farotti impiccare.
Il garzone, udendo questo, non sapea che si fare; e
stando così come fuor di sé, e volgendosi se vedesse via
che 'l potesse conducere a migliore porto, sentì urlare
un lupo ivi presso alla proda del bosco, e guardandosi
attorno, vide sull'aia una botte, dall'uno de' lati
tutta sfondata di sopra, ed era ritta; alla quale subito
ricorse, ed entrovvi dentro, aspettando con gran paura
quello che la fortuna di lui disponesse.
Non ha finito di raccontare dell'equivoco, che la
fantasia del narratore è come assorta in un nuovo
piccolo vortice: la botte tutta sfondata, e il lupo che,
per vecchiezza stizzoso (rognoso), si sfrega ad essa, e
la coda entra per il cocchiume: il cocchiume, come si
sa, è il turacciolo della botte; qui si indica il buco
stesso della botte.
E così stando, ecco questo lupo, come quello che era
forse per la vecchiezza stizzoso, e accostandosi alla
botte, a quella si cominciò a grattare; e così
fregandosi, alzando la coda, la detta coda entrò per lo
cocchiume. Come il garzone sentì toccarsi dentro con la
coda, ebbe gran paura; ma pur veggendo quello che era,
per la gran temenza si misse a pigliar la coda, e di non
lasciarla mai giusto il suo podere, insino a tanto che
vedesse quello che dovesse essere di lui. Il lupo,
sentendosi preso per la coda, cominciò a tirare: il
garzone tien forte, e tira anco elli; e così ciascuno
tirando, e la botte cade, e cominciasi a voltolare. Il
garzone tien forte, e lo lupo tira; e quanto più tirava,
più colpi gli dava la botte addosso. Questo voltolamento
durò ben due ore; e tanto, e con tante percosse dando la
botte addosso al lupo, che 'l lupo si morì. E non fu
però che 'l giovane non rimanesse mezzo lacero; ma pur
la fortuna l'aiutò, ché quanto più avea tenuto forte la
coda, più aveva difeso sé stesso, e offeso il lupo.
Avendo costui morto il lupo, non ardì però in tutta la
notte d'uscire della botte, né di lasciare la coda.
E già questa è la quarta avventura-bozzetto. Ma il
nostro Sacchetti è instancabile, e passa ancora alla
quinta avventura, e anche lì colorisce il suo nuovo
mimo: la sorpresa del lavoratore, quello che aveva
rifiutato il pane al ragazzetto, che vede la sua botte
rotolata molto lontano dall'aia di casa sua, e
attribuisce l'opera ai ladri, scorge il lupo morto,
crede che sia vivo ancora e si mette a gridare al lupo,
al lupo.
In sul mattino, levandosi il lavoratore, a cui il
giovane avea picchiata la porta, e andando provveggendo
le sue terre, ebbe veduto appié d'un burrato questa
botte: cominciò a pensare, e dire fra sé medesimo: «
Questi diavoli che vanno la notte, non fanno se non
male, ché non altro, ma la botte mia che era in su l'aia
m'hanno voltolata infino colaggiù »; e accostandosi,
vide il lupo giacere allato la botte, che non parca
morto. Comincia a gridare: A1 lupo, al lupo, al lupo; -
e accostandosi, e correndo gli uomini del paese al
romore, vidono il lupo morto, e 'l garzone nella botte.
Chi si segnò di qua e chi di là, domandano il giovane: -
Chi se' tu? che vuol dir questo? - Il garzone, più morto
che vivo, che appena potea ricogliere il fiato, disse: -
Io mi vi raccomandando per l'amore di Dio, che voi mi
ascoltiate, e non mi fate male.
Li contadini l'ascoltarono, per udire di sì nuova cosa
la cagione, il quale disse, dalla perdita delle carte
insino a quel punto, ciò che incontrato gli era. A'
contadini venne grandissima pietà di costui, e dissono:
- Figliuolo, tu hai aùta grandissima sventura, ma la
cosa non t'anderà male, come tu credi: a Pistoia è un
ordine, che chiunque uccide alcun lupo, e presentalo al
Comune, ha da quello cinquanta lire.
Ora ci si avvia alla conclusione; l'epilogo delle cinque
avventure è unitario. Lo scrittore vi riprende le fila
di tutto il racconto; e cambia naturalmente la tecnica
del suo narrare. Nell'epilogo non ci può essere più
nulla di nuovo, ed egli però lascia i modi
rappresentativi-dialogici ed assume quelli rapidamente
cronachistici. Nel riassunto cronachistico comincia ad
affiorare la riflessione del moralista che si esplica
alla fine, in un commento finale: H come la fortuna
toglie, così dà; e come ella dà, così toglie ». Direi
che l'unità del racconto nel vario raccontare, resta
sempre la riflessione morale della fine, che però non
impaccia affatto il racconto, il quale si svolge con una
scioltezza di legami, dietro sempre a questo gusto del
nuovo o del singolare. A una occasionale lettura, ci è
capitato di osservare che la parola nuovo o nuovamente è
il vocabolo che più ritorna insistente nella lingua del
Sacchetti. Attraverso questo ossessivo ritorno di
immagini o di parole, è possibile definire
l'ispirazione, l'arte o meglio la poesia di uno
scrittore. Ecco la chiusa della novella:
Un poco tornò la smarrita vita al giovane, essendoli
profferto da loro e compagnia. e aiuto a portare il
detto lupo; e così accettoe. E insieme alquanti con lui,
portando il lupo, pervennono all'albergo al pont'Agliana,
donde si era partito, e l'albergatore della detta cosa
si meraviglioe, come si dee immaginare, e disse che e'
mercatanti se ne erano iti, e che egli ed eglino,
veggendo non era tornato, credeano lui essere da' lupi
devorato, o essere da' malandrini preso. Infine il
garzone appresentò il lupo al Comune di Pistoia, dal
quale udita la cosa come stava, ebbe lire cinquanta; e
di queste spese lire cinque in fare onore alla brigata,
e con le quarantacinque, preso da loro commiato, tornò
al padre; e addomandando misericordia, gli contò ciò che
gli era intervenuto, e diedegli le lire quarantacinque.
Il qual padre, come povero uomo, gli tolse volentieri, e
perdonògli; e con li detti denari fece copiare le carte,
e dell'avanzo piatìo gagliardamente.
E perciò non si dee mai alcuno disperare, però che
spesse volte, come la fortuna toglie, così dà; e come
ella dà, così toglie. Chi avrebbe immaginato che le
perdute carte giù per l'acqua fossero state rifatte per
un lupo, che mettesse la coda per uno cocchiume d'una
botte, e sì nuovamente fosse stato preso? Per certo
questo è un caso e uno esemplo, non che da non
disperarsi, ma di cosa che venga, non pigliare né
sconforto né malinconia.
Novellistica animalesca, epopea comico-realistica degli
animali, si era detto cominciando; ma noi ci siamo
adoperati a spezzare la formula, così come si fece per i
racconti delle donne, perché allo scrittore quel che
importa è che l'uomo dai casi strani del mondo non deve
prendere né sconforto né malinconia. |